domenica, maggio 12, 2013

Il professore che intuiva i grandi cambiamenti


Francesco Renda
di TANO GULLO
Francesco Renda  ha vissuto da protagonista i grandi eventi della Sicilia: da Portella della Ginestra alla strage del pane, alla lotta per i giovani minatori delle zolfare
Lui c'era. In ogni svolta della storia siciliana degli ultimi settant'anni Francesco Renda, morto stamattina a 92 anni (leggi l'articolo), era lì: il primo maggio a Portella della Ginestra nel giorno dello sterminio dei contadini a opera del bandito Giuliano e dei suoi ancora ignoti accoliti;nelle trincee della guerra mondiale; in via Maqueda nel giorno nero della strage del pane;
nei feudi strappati con lacrime e sangue ai latifondisti; nelle miniere di zolfo a tirare fuori i "carusi" dalle viscere della terra; nelle aie a difendere la legge che ripartisce in modo più equo il grano tra proprietari e mezzadri; nelle segrete stanze del partito comunista dove cerca con sforzo titanico di perorare la deviazione dai canoni leninisti verso una prassi che contemplasse la saldatura della cultura comunista con il liberalismo di Croce e di Gentile; nelle aule dell'Università a divulgare la storia di cui si nutre negli archivi di tutta l'Isola e non solo. E c'era nel parlamento della Regione per tentare di dare un'anima a quell'Autonomia nata nella confusione e proseguita nell'ambiguità, "palla al piede" a suo dire dello sviluppo dell'Isola.
Le sue tante vite hanno trovato un comune denominatore nell'impegno politico e civile. Nato in una famiglia contadina di Cattolica Eraclea quando comincia a capire il mondo transita da "Vogliamo Dio che è nostro padre" dell'Azione cattolica di cui è animatore a "Bandiera rossa". "Miracolato" da un poliomielite che lo rende inidoneo al lavoro dei campi col padre, si avvia agli studi dopo una parentesi di apprendista nella calzoleria dello zio. Termini e Palermo, le sue tappe scolastiche, poi l'impegno nel partito, nel sindacato con ruoli sempre più importanti. Ecco il suo palmares: cinque legislature da deputato all'Ars, un mandato di senatore, ordinario di Storia nell'Ateneo palermitano, segretario regionale Cgil, dirigente della Lega delle cooperativa e un'infinità di altri incarichi. Negli anni di militanza giovanile sposa Antonietta Marino di Mazzarino fondatrice con Anna Grasso del movimento delle donne comuniste. Cresceranno tre figli in quella vita un po' zingaresca di chi in quei tempi di miseria svolge attività politica e sindacale.

La sua passione è la Filosofia, ma l'abbandona per la Storia che gli consente di coniugare meglio la teoria degli studi e la prassi dell'esistenza. Finiti i furori nelle sezioni e nelle campagne, inizia la sua seconda militanza: quella di studioso. Una cinquantina di libri scritti sulle piccole e grandi vicende isolane  -  il primo "Il movimento contadino nella società siciliana", l'ultimo "Federico II e la Sicilia" - e tante polemiche per la sua capacità di ribaltare frusti luoghi comuni. La sua opera più importante è la monumentale "Storia della Sicilia" pubblicata da Sellerio nel 2003. Il libro innescò aspre polemiche perché Renda ha strattonato Federico Secondo dal piedistallo in cui era collocato da secoli. Ecco il suo punto di vista: "Lo Stupor mundi al di là dei tanti meriti in campo culturale, e valga per tutti la nascita della lingua italiana, ha distrutto l'impero per la sua cocciutaggine nel contrastare il papa, inducendo Innocenzo III a ricorrere ai baroni tedeschi per deporlo e dare il Regno di Sicilia a Carlo d'Angiò fratello del re di Francia. La storia personale di Federico II si concluse in una strabiliante sconfitta tramutatasi in tragedia perché i figli e il nipote furono sterminati dagli angioini". E il professore ci mette dell'altro: "Si dice che a Palermo tenesse una magnifica corte sveva mentre Federico andò via dal capoluogo nel 1212 all'età di diciotto anni e non vi mise più piede. Si dice che fosse amico degli arabi mentre nel 1221 scese in Sicilia per sterminarli".

E per confutare con documenti alla mano molti altri "si dice", ha corretto tante deviazioni del flusso della storia. Sugli arabi ad esempio, ha polemizzato indirettamente con Sciascia e con tutti gli studiosi che vedono nella dominazione islamica il momento più splendido della Sicilia. Dal punto di vista di Renda fu il periodo più soffocante: "L'isola ha sempre goduto di una grande autonomia culturale e legislativa con ogni dominazione, tranne che nel periodo musulmano dove diventa una provincia senza alcuna vitalità propria". Anche la sua "lettura" delle dominazione è controcorrente; a suo avviso grazie agli stranieri che sono arrivati da ovunque la Sicilia è stata sempre al centro della grande storia del mondo, soprattutto quando prima della scoperta dell'America si svolgeva tutta nel Mediterraneo. Permeabile a innovazioni in tutti i campi ed esportatrice di beni e modelli. E al mare nostrum  -  a suo dire destinato a un ritorno all'antica centralità dopo l'abbattimento della cortina di ferro a Est  -  negli ultimi anni della sua vita ha dedicato ampie riflessioni.

Polemista di ferro, è entrato sempre a gamba tesa nelle diatribe politiche e sociali. Nel suo scritto più recente su Portella (che in qualche modo segna un dietro font sulle sue antiche posizioni che volevano Giuliano unico responsabile dell'eccidio) prende di mira anche il Girolamo Li Causi, mitico dirigente comunista negli anni delle stragi di sindacalisti e contadini. "Sulla scia dei morti ammazzati Li Causi aizzava i compagni a una reazione furibonda, io mi opposi fermamente ricordando la repressione dei Fasci. Non fu facile. Ricordo che per sette giorni girai come una trottola nei Pesi intorno a Piana degli Albanesi per placare gli animi". Lo scontro all'interno del partito comunista arrivò alle orecchie di Palmiro Togliatti. "Il quale capì le mie ragioni", commentò Renda. Altre polemiche sono in questo secolo. In una sostenne che la mafia era stata definitivamente sconfitta e si trovò contro schierato compatto il fronte dei professionisti dell'antimafia, a cui rispose: "La mafia esiste e rimane uno dei problemi più grossi della società. La differenza è che oggi, con il 416 bis e col 41 bis, lo Stato è armato contro la mafia ed è in grado di combatterla con efficacia. La mafia non è più forte come prima ma è costretta a operare nella clandestinità. Don Calò Vizzini operava alla luce del sole mentre i boss oggi devono vivere nella clandestinità più assoluta". Nell'altra ha preso di mira i dirigenti comunisti incapaci di rappresentare i nuovi bisogni dei lavoratori, dei disoccupati e dei giovani.

Un uomo cresciuto nel clima delle ferree regole della religione comunista, capace però di aperture sorprendenti. "L'uomo ormai concorre pochissimo a livello manuale alla produzione di beni e servizi, però la sua vita continua a essere completamente condizionata dal lavoro: turni snervanti, spostamenti faticosi, quasi come quei contadini che lavoravano da "scuro a scuro". E allora liberiamo i lavoratori, mettiamoli in condizione di riempire la loro vita di altri interessi". Quando gli facemmo notare che quelle stesse cose le sosteneva il sociologo Domenico de Masi, teorico dell'utilità sociale dell'ozio creativo, rispose sorridendo: "Ho letto de Masi, ma il mio ispiratore non è lui. È il filosofo utopista calabrese Tommaso Campanella che quattro secoli fa sosteneva che per assicurare il prospero sviluppo della società bastassero quattro ore di lavoro, lasciando che le restanti venti fossero dedicate al sonno, al riposo, alla famiglia, agli svaghi e alla lettura". Il professore ha predicato bene e razzolato male, visto che lui quattro ore riposava e venti lavorava. Ora potrà riposare in eterno.
(La Repubblica/Palermo, 12 maggio 2013)

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