sabato, aprile 27, 2013

Trovata vuota la valigetta di Dalla Chiesa: caccia a chi ha trafugato i segreti del generale


di ATTILIO BOLZONI 
e SALVO PALAZZOLO
 Palermo, dopo 31 anni la borsa di pelle emerge dal bunker del tribunale. Dopo l'assassinio, la Polizia trasmise alla Procura il reperto senza far cenno alle carte. Segnalata dall'anonimo al pm Di Matteo, doveva contenere nomi eccellenti 
PALERMO - L'hanno ritrovata dopo trentuno anni, cercando nei sotterranei del Palazzo di giustizia di Palermo. È vuota, hanno portato via tutto. Non c'è più niente dentro la borsa di pelle marrone di Carlo Alberto dalla Chiesa, il generale prefetto ucciso a Palermo il 3 settembre del 1982 a colpi di kalashnikov. La sua borsa è vuota, come la scatola (vuota) recuperata qualche giorno dopo l'omicidio, nella cassaforte (vuota) della stanza da letto in prefettura. È tutto quello che ci hanno lasciato di quell'alto ufficiale mandato tre decenni fa allo sbaraglio dallo Stato in Sicilia "per sconfiggere la mafia", una leggenda per generazioni di carabinieri, un uomo scomodo per gli alti comandi. Non c'è più nulla nella sua borsa, neanche un foglio bianco, neanche una penna. Hanno fatto sparire tutto. 


La scoperta - pensate, dopo tutto questo tempo - è di qualche giorno fa, quando nel bunker dei "corpi di reato" del tribunale di Palermo i magistrati sono scesi per controllare i reperti catalogati subito dopo il massacro di via Isidoro Carini, sicari dei Corleonesi per un agguato politico-mafioso, vittime il  cinquantottesimo prefetto di Palermo dall'Unità d'Italia - che negli anni Settanta era stato anche l'uomo che aveva sconfitto le Brigate rosse - , la giovanissima moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente Domenico Russo.
La ricerca nelle viscere del Palazzo di giustizia è partita dall'anonimo (probabilmente scritto da un carabiniere molto informato sui misteri siciliani) che era arrivato nell'autunno scorso al pm Nino Di Matteo, dodici fogli dove si indicavano "indizi" del patto fra mafia e Stato e si avvertivano i magistrati dell'indagine sulla trattativa che erano spiati. L'anonimo denominava il suo scritto in codice - "Protocollo Fantasma" - e invitava i pm a investigare su 22 punti. Uno riguardava proprio la borsa del generale Dalla Chiesa.

Scriveva l'anonimo: "C'erano dentro documenti relativi a indagini svolte personalmente dal prefetto e una lista di nomi scottanti". Poi, precisava: "Un ufficiale dei carabinieri ha messo al sicuro la valigetta". Così i pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi hanno iniziato a ripercorrere - trent'anni dopo - il viaggio della borsa di pelle marrone del generale, di cui tutti sembravano essersi dimenticati. Tutti, tranne l'ultimo anonimo di Palermo. La prima traccia, i magistrati la individuano nel verbale di sopralluogo della polizia scientifica, conservato nel fascicolo giudiziario sulla strage di via Carini. In quel verbale viene certificato che poco dopo le 21.30 del 3 settembre 1982 Carlo Alberto dalla Chiesa (già morto da una quindicina di minuti dentro la sua auto) tiene sulle gambe una borsa piena di carte. "Altri fogli legati da un elastico - prosegue il verbale - sono rinvenuti sotto il sedile lato guida".

Fra le carte giudiziarie, i pm trovano anche un secondo verbale - del 6 settembre - con una lettera di trasmissione della squadra mobile di Palermo alla Procura della Repubblica. Qui si parla della borsa del prefetto, ma non si fa alcun cenno ai documenti. Così, tre giorni dopo l'uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa, tutti i segreti del generale vengono inghiottiti nel ventre di Palermo. Ma non è ancora chiaro dove. Quelle carte sono scomparse nel tragitto fra la squadra mobile e la Procura? O nelle scale fra la Procura e l'ufficio corpi di reato?

Nello scatolone riaperto nei sotterranei ci sono tanti drammatici ricordi di quella sera. C'è un fermaglio di Emanuela, c'è un biglietto del traghetto Napoli-Palermo, c'è anche la lista dei regali di nozze di Carlo Alberto dalla Chiesa e di Emanuela Setti Carraro, che si erano sposati il 10 luglio. Nessuna traccia, invece, dei documenti che c'erano nella borsa di pelle. E neanche di quei fogli che erano sotto il sedile dell'auto.
Dopo trentuno anni c'è la prova - un'altra prova - di quanto facesse paura quel generale ucciso giù a Palermo. In una Sicilia insanguinata dai morti, era stato nominato prefetto il 29 marzo 1982 dal presidente del Consiglio Giovanni Spadolini. Avrebbe dovuto insediarsi il 6 maggio, sbarcò sull'isola una settimana prima, il giorno dell'omicidio di Pio La Torre, il segretario regionale del Partito comunista che aveva suggerito a Spadolini proprio il nome di Dalla Chiesa.

Senza poteri speciali, solo, osteggiato dai boss politici siciliani - soprattutto quelli legati a Salvo Lima, il console di Andreotti - il generale era andato consapevolmente incontro alla morte. Come primo atto aveva cacciato alcuni funzionari prefettizi vicini ad ambienti mafiosi. Dopo la sua uccisione, il suo successore - l'Alto commissario antimafia Emanuele De Francesco - li richiamò subito in servizio.
Tre decenni dopo, il "caso Dalla Chiesa" è finito in archivio. Condannati come "esecutori" e "mandanti" il solito Totò Riina e i soliti macellai della sua ciurma: Vincenzo Galatolo, Francesco Paolo Anzelmo, Calogero e Raffaele Ganci, Nino Madonia. Sui mandanti "altri", anche per il delitto Dalla Chiesa come per tutti i delitti eccellenti di Palermo solo ombre.

Ombre come quelle entrate la notte fra il 3 e il 4 settembre 1982 nelle stanze di Villa Pajno, la residenza privata del prefetto. Qualcuno scivolò nella stanza da letto del generale, aprì la sua cassaforte e la svuotò. La mattina del 4 settembre i familiari di Dalla Chiesa cercarono la chiave per aprire quella cassaforte. Ma non la trovarono. La chiave ricomparve come d'incanto il pomeriggio dell'11 settembre, nel cassettino di un secretaire. E finalmente quella cassaforte fu aperta. Dentro non c'era più niente. Solo una scatola vuota dentro una cassaforte vuota. 
(La Repubblica, 27 aprile 2013)

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