La prima pagina del giornale "L'Ora" |
Mio padre,
Pio La Torre, proveniva da una famiglia di contadini. Suo padre si chiamava
Filippo e sua madre si chiamava Angela Melucci. Nasce, il 24 dicembre del 1927,
a Villa Nave, nella borgata di Altarello di Baida, poverissima frazione di
Palermo, in piena Conca d’oro, la piana coltivata ad agrumi e che dava il nome
ad un’area ad est, ormai scomparsa, perché divorata dall’espansione urbana
negli anni ’50 e ‘60. Il nonno paterno è originario di Monreale. Quando
nacque Pio, Filippo aveva già avuto da Angela tre figli: Filippo, Antonina e
Felicia, di diciotto mesi e dopo un paio d’anni nascerà il quinto ed
ultimogenito Luigi. Le sofferenze patite per la sua condizione di miseria e di
disperazione, che nel corso degli anni sarebbero diventate il suo punto di
forza, avrebbero accompagnato il piccolo Pio per tutta la vita, gli avrebbero
temprato il carattere.
Pio La Torre
era un vero figlio del Sud, discendente da quelle generazioni di contadini e
mezzadri, quasi tutti poverissimi, che davano volto e carattere alla Sicilia.
Racconta mia
zia Felicia che mio padre, all’età di quattro – cinque anni, esprime il
desiderio di andare a scuola, che suo padre, in un primo momento, gli nega, per
poi, fortunatamente, lasciarsi convincere dalla moglie Angela, che, analfabeta,
aveva “istigato” i figli a ribellarsi alle loro misere condizioni di vita
attraverso lo studio. L’accordo raggiunto tra i suoi genitori prevedeva che mio
padre, ogni mattina, prima di recarsi a scuola, avrebbe pulito la piccola
stalla, adiacente la casa, che ospitava una vacca.
Comincia,
così, il suo percorso di affrancamento dalle condizioni di miseria, cui
sembrava che la rigidità dei sistemi sociali di allora lo avrebbero condannato.
Non aveva
ancora compiuto diciotto anni, quando si iscrive alla Facoltà di Ingegneria
dell’Università di Palermo e, contemporaneamente, al Partito Comunista
Italiano.
La scelta di
mio padre di aderire al PCI affondava le sue ragioni all’origine del suo
impegno a fianco del popolo siciliano nella sua lotta per liberarsi dalla condizione
di sottosviluppo e subalternità.
Franco La Torre |
Così
racconta quegli anni nel suo libro Comunisti e movimento contadino in
Sicilia, in cui matura il suo interesse per la giustizia sociale e si
impegna a combattere per i diritti dei più deboli e bisognosi contro lo
sfruttamento dei ricchissimi proprietari terrieri.
Al partito
mi ero iscritto nell’autunno del ’45, negli stessi giorni in cui mi ero
iscritto all’università. La scelta fu certamente influenzata dal tipo di
famiglia nella quale ero cresciuto. Provenivo da una borgata di Palermo che a
quell’epoca sembrava un paese lontano; si pensi che nel piccolo villaggio dove
io sono nato, fino all’età di otto anni, non avevamo la luce elettrica, si
studiava a lume di candela o a petrolio, e l’acqua da bere dovevamo andare a
prenderla quasi a un chilometro di distanza. I braccianti di quella borgata, la
domenica mattina, quando si ripulivano e andavano in città dicevano: “Vaiu a
Palermu”, come se andassero in una città lontana.
Avevo
cominciato la mia attività politica nella borgata dove sono nato. Dopo aver
costituito la sezione del partito e contribuito a crearne altre attorno, avevo
scoperto che c’era bisogno dell’organizzazione sindacale dei braccianti e,
quindi, mi ero rivolto alla Federterra.
Mio padre
era stato uno studente precoce e amava molto lo studio. Non so se immaginasse
che quel giorno, quando varcò l’ingresso della sede della Federterra, avrebbe
impresso una svolta alla sua vita.
Non era più
soltanto un attivista, avrebbe cominciato ad assumersi impegni e responsabilità. Non
so se lo avesse previsto, certo era quello che voleva.
Diventò
funzionario della Federterra, poi responsabile giovanile della CGIL e quindi
responsabile della commissione giovanile regionale del PCI, in quel periodo non
esisteva un’organizzazione giovanile di partito. Successivamente, Pancrazio De
Pasquale, segretario della federazione comunista di Palermo, col quale strinse
un rapporto umano e politico molto profondo e duraturo, gli chiese di lavorare
con lui in una segreteria formata da cinque giovani che, messi insieme,
superavano di poco il secolo di vita.
In quegli
anni, i comunisti erano impegnati per l’effettiva applicazione dei decreti
Gullo, provvedimenti legislativi emanati dall’allora ministro dell’agricoltura
del governo Badoglio, che garantivano ai contadini maggiori diritti e più terre
da coltivare. Lo svuotamento delle norme, operate dal successivo ministro e
l’opposizione dei proprietari terrieri alla loro applicazione, scatenò,
soprattutto nel Meridione, la richiesta di una effettiva riforma agraria e
un’ondata di proteste popolari che ebbero la loro concretizzazione nelle
occupazioni delle terre incolte da parte dei braccianti agricoli esasperati, in
una reazione, altrettanto esasperata, da parte del governo e nell’opposizione
dura e intransigente dei proprietari terrieri, che non esitarono a fare ricorso
al braccio armato della mafia. Tra il marzo e l’aprile del 1948, alla vigilia
delle elezioni politiche, erano stati uccisi vari segretari di Camere del
Lavoro del palermitano, Placido Rizzotto a Corleone, Calogero Cangelosi a
Camporeale, Epifanio Leonardo Li Puma a Petralia.
Pio La
Torre, nel luglio del 1949, è membro del Consiglio Federale del PCI, che dà
l’inizio ufficiale all’occupazione delle terre, lanciando lo slogan: “la terra
a tutti”. La protesta prevedeva il censimento delle terre giudicate incolte o
mal coltivate e l’assegnazione, in parti uguali, a tutti i braccianti che ne
avessero bisogno. Parallelamente partì, anche, la campagna per la raccolta del
grano, che sarebbe servito per seminare le terre occupate. Il 23 ottobre 1949
fu organizzato il I° Festival provinciale dell’Unità a Palermo, al Giardino
inglese, per sensibilizzare l’opinione pubblica alla protesta.
Il clima di
festa fu, però, presto interrotto dalle notizie che giunsero, pochi giorni
dopo, il 29 ottobre dalla Calabria, da Melissa per la precisione, dove le
proteste dei contadini erano sfociate in tragedia con l’uccisione da parte
delle forze dell’ordine di tre persone, tra cui un bambino e una donna e il
ferimento di altri quindici, oltre a numerosi arresti. Quella strage convinse i
dirigenti del PCI palermitano ad anticipare la data dell’occupazione delle
terre, fissandola al 13 novembre successivo.
D’altronde,
mia madre lo aveva conosciuto proprio in quegli anni, la fine dei ’40. Il 29
ottobre 1949, giorno della strage di Melissa, annota mio padre, lo aveva
sposato e con lui aveva condiviso le lotte contadine: il loro autentico viaggio
di nozze, durante il quale, potrei sbagliarmi, concepirono mio fratello, non
quei pochi giorni trascorsi a Capri, dopo il matrimonio, interrotti proprio
dalla necessità di rientrare a Palermo per preparare l’imminente mobilitazione
che avrebbe coinvolto migliaia di braccianti poveri della Sicilia
nord-occidentale.
Mia madre
sapeva chi era quell’uomo che, arrestato durante una delle manifestazioni dove
i contadini occupavano e seminavano simbolicamente le terre incolte, aveva
scontato ingiustamente 17 mesi all’hotel Ucciardone, il carcere di Palermo,
accusato di tentato omicidio e poi prosciolto per non aver commesso il fatto.
Mio padre e
mia madre erano orgogliosi di quel periodo della loro vita; si capiva, da come
ne parlavano, che non era stato facile e aveva richiesto capacità di misurarsi
con prove impegnative, grandi sforzi e sacrifici per due giovani poco più che
ventenni che stavano mettendo su famiglia, mentre partecipavano attivamente al
movimento di liberazione dall’oppressione semifeudale e per l’affrancamento
dalle condizioni di sottosviluppo delle masse povere siciliane.
Raccontavano
della dignità della gente che li accoglieva, anche per settimane, nelle loro
misere abitazioni che non si poteva definire case. Non era raro che
dormissimo sulla paglia nelle stalle, insieme agli animali – ricordava mia
madre.
Ma la stalla
era, comunque, un lusso che non tutti si potevano permettere – aggiungeva mio
padre – e capitava che dormissimo nell’unica stanza, insieme alla famiglia che
ci ospitava e alla loro capra. Il partito non aveva a disposizione tutti i
mezzi necessari. Si partiva da Palermo, sapendo che si sarebbe stati fuori per
giorni. Venivamo lasciati nei paesi, dove avremmo incontrato i contadini e
organizzato con loro le manifestazioni, spostandoci a piedi o con i mezzi
disponibili in loco, carretti, muli, biciclette e qualche rara motocicletta.
La mattina
di quella domenica 13 novembre del 1949, i contadini di Corleone, Campofiorito,
Contessa Entellina, Valledolmo, Castellana Sicula, Polizzi, alcune borgate di
Petralia Soprana e di Petralia Sottana, Alia, San Giuseppe Iato, San Cipirello,
Piana degli Albanesi, in tutto dodici paesi in provincia di Palermo sulle
Madonie, si erano dati appuntamento a Corleone e da lì, in una serie di cortei,
si snodarono per le campagne circostanti, dove avrebbero occupato e preso
possesso di tutte le terre censite come incolte e mal coltivate. Diverse
migliaia di persone si misero in marcia all’alba verso i feudi, tra questi
quello di Strasatto, dove Luciano Leggio era gabellotto. Dopo la tragedia
avvenuta a Melissa, alla polizia era stato ordinato di non reprimere le
manifestazioni, così l’occupazione continuò per molti giorni, sviluppandosi
anche nei comuni fuori Palermo.
Il governo,
viste le dimensioni che la rivolta aveva assunto, decise di riprendere l’azione
repressiva. Così scattò l’arresto di alcuni dirigenti sindacali e braccianti
agricoli e ricominciarono gli scontri tra polizia e manifestanti. A San
Cipirello vennero arrestate diciotto persone. L’occupazione aveva avuto
successo, con il risultato che circa tremila ettari di terreno erano stati
arati e il grano seminato.
Mio padre,
in quell’inverno del ‘49, in attesa dei frutti della semina, era impegnato
nell’organizzazione della ripresa delle lotte in primavera. L’obiettivo era
conservare il diritto di raccolta sui terreni seminati, nella consapevolezza
che il vero ostacolo era l’opposizione dei proprietari agrari.
Alle prime
luci del giorno del 10 marzo 1950 mio padre guidava il corteo di Bisacquino.
Lungo tra i quattro e i cinque chilometri. Cinque – seimila contadini andavano
a misurare i terreni incolti e li lottizzavano: un ettaro a testa. Doveva
rientrare a Palermo con la corriera delle 15 ma la perse. Allora decise di
andare incontro ai contadini che rientravano dal fondo occupato. Giunse in
vista del corteo, si scorgevano le bandiere e si udivano i cori delle donne ma
vide, anche, arrivare una colonna di automezzi carichi di poliziotti e
carabinieri. Si rese conto che Vicari, il prefetto di Palermo, aveva messo in
atto le minacce di repressione e aveva dato ordine di organizzare una vera e
propria imboscata. Era già successo nei giorni addietro. Mio padre decise di
andare a parlare con i dirigenti della colonna. Riconobbe tra questi il tenente
Panzuti dei carabinieri di Bisacquino, una persona ragionevole, con cui aveva
trovato un’intesa nei giorni precedenti, ma questi, con lo sguardo chino, lo
indirizzò al commissario capo dottor Panico. Mio padre ricorda il commissario
Panico in evidente stato di agitazione il quale, senza dargli il tempo di
parlare, stava ordinando a uno degli ufficiali di togliere quello sconcio di
bandiere. Un gruppo di carabinieri si avvicinò alla testa del corteo e tentò di
strappare le bandiere dalle mani delle donne. Queste reagirono con vigore e ne
nacque un tafferuglio. Partì una sassaiola verso i carabinieri e il commissario
Panico diede ordine di sparare. I contadini si dispersero e rimase a terra il
bracciante Salvatore Catalano. Un proiettile lo aveva colpito alla spina
dorsale, rendendolo invalido per tutta la vita. Mio padre è andato a trovarlo
quando poteva e finché ha potuto. Gli scontri ripresero e si svilupparono con
violenza. Mio padre raccontava di aver impedito ad un gruppo di contadini di
uccidere a colpi di pala un carabiniere. Un maresciallo di polizia era stato
catturato, gli era stata tolta la pistola e stava per essere denudato, se mio
padre non fosse intervenuto e avesse convinto i contadini a restituirgli la
divisa e a liberarlo. Mantenendo la necessaria lucidità, si rivolgeva con
autorità ai contadini dicendo loro che carabinieri e poliziotti non erano i
loro nemici, ma gli agrari che volevano la repressione e lo scontro. Il suo
comportamento evitò che i contadini uccidessero o mutilassero gli agenti. Le
cariche della polizia continuavano. Mio padre vene fermato insieme a centinaia
di contadini e fatto salire su un camion. Giunse ammanettato nella piazza di
Bisacquino e sul suo camion salì un tenente di polizia che fece accendere le
luci e, puntandogli il dito contro, lo accusò di averlo colpito con un bastone.
Alla smentita di mio padre, il tenente gli sputò contro e ordinò che gli
venissero strette le manette. L’accusa era tentato omicidio.
All’alba
dell’undici marzo 1950 fece il suo ingresso nel carcere dell’Ucciardone e, dopo
le perquisizioni di rito, venne scortato in cella. Sarebbe uscito il ventitré
agosto 1951.
Del periodo
del carcere, mia madre ricordava l’angoscia del distacco improvviso, la
tristezza del non sapere quando avrebbe riabbracciato suo marito e padre del
figlio che aveva in grembo. Aveva dovuto attendere diverse settimane prima di
ottenere un colloquio. Ricordava la vergogna, per se e per mio padre, di dover
piegarsi a quei piccoli ricatti del generoso agente di custodia che chiudeva un
occhio sui libri censurabili e su altre piccolezze, da questi ritenuti
rischiosissimi favori da ricompensare adeguatamente.
Le lettere
che ci scrivevamo, venivano previamente lette e anche censurate – raccontava
mia madre – per cui, io e papà, ci accordammo che alla fine avremmo aggiunto la
parte più intima, scritta col limone, illeggibile se non si passa una fiammella
sotto al foglio. Quando riassaporava questi particolari, mia madre rivolgeva a
mio padre uno sguardo complice, da lui corrisposto e sorridevano, come fanno i
bambini, quando custodiscono segreti.
Seppur mitigata
negli anni, restava l’amarezza per un partito che, nei primi mesi, lo aveva
dimenticato in carcere, considerandolo colpevole di mancato rispetto delle
posizioni espresse dagli organi dirigenti regionali che ritenevano che il
partito non fosse preparato, che non fossero maturi i tempi per lanciare la
mobilitazione. Il PCI siciliano era guidato da Girolamo Li Causi, mitico
dirigente comunista, capace di affascinare e di suscitare rispetto e grande
ammirazione.
Ho
conosciuto Li Causi, un pomeriggio all’inizio degli anni ’60, nel giardino di
casa dei nonni a Palermo, dove chiacchierava con mio padre. La sua faccia mi
ispirava simpatia e il suo aspetto mi dava fiducia. Giocavo intorno a loro che
mi prendevano in braccio a turno, dicendomi cose che mi facevano ridere.
La sua
biografia esprime la personalità e le doti di questo grande uomo politico
siciliano, meglio di quanto possa fare io.
Già
dirigente socialista, aderì al Partito
Comunista d’Italia nel 1924.
Nel 1926 fu per alcuni mesi direttore de L’Unità. Nel 1928
venne arrestato per la sua attività antifascista e condannato a 21 anni di
carcere.
Liberato
nell’estate del 1943,
diventò partigiano ed entrò nel CLNAI. Venne quindi
rimandato nella natia Sicilia per organizzare la presenza del Partito Comunista,
di cui divenne il primo segretario regionale. Il forte impegno politico contro
la mafia caratterizzò subito la sua azione e
per questo il 16 settembre 1944, durante un comizio a Villalba, fu vittima di
un attentato da parte di un gruppo di mafiosi guidato da Calogero Vizzini, in cui vennero ferite 14
persone. Nel 1946 venne eletto deputato nell’Assemblea Costituente. Fu eletto per la
Prima volta in Parlamento nel 1948 e, attraverso
varie legislature, ricoprì la carica di Deputato e quella di Senatore. Fu
vicepresidente della prima Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno
mafioso.
In verità, i
giovani dirigenti palermitani erano di diverso avviso. Convinti che vi fossero
le condizioni, dopo averle preparate meticolosamente, avevano deciso di
anticipare i tempi delle manifestazioni per le occupazioni delle terre nella
provincia di Palermo. Era questa la loro colpa, anche se la mobilitazione in
provincia di Palermo ebbe successo. Pancrazio De Pasquale, accusato di
frazionismo e con lui i giovani dirigenti palermitani, venne destituito da
segretario della federazione e inviato alla scuola di partito e a mio padre,
tramite mia madre, venne suggerito di approfittare del periodo in carcere per
prepararsi alla laurea, visto che la sua prospettiva nel partito era incerta.
Accadde che,
a Roma, Pietro Secchia, responsabile nazionale dell’organizzazione del PCI, si
fosse persuaso che i metodi e le decisioni assunte a Palermo avessero nociuto
al partito e andasse a Palermo a presiedere la riunione del Comitato regionale
che, con l’accordo di Li Causi, approvò una mozione che ridimensionava
analisi e decisioni e , in una certa misura, riabilitava i giovani. Questa
svolta fu accompagnata dall’arrivo a Palermo di Paolo Bufalini – dirigente
autorevole inviato dal centro del partito, come si diceva allora, venuto ad
assumere la responsabilità di vice segretario regionale, a fianco di Li Causi –
che risvegliò l’interesse del partito verso mio padre in carcere. Bufalini
promosse la costituzione di un comitato di solidarietà e un collegio di difesa
autorevole che ottenne, in pochi mesi, l’assoluzione e la successiva
scarcerazione del compagno La Torre.
Dei ricordi
di quell’anno e mezzo trascorso da mio padre in carcere, mia madre e mio padre
condividevano la tristezza che avvolgeva le visite dei familiari ai carcerati
all’Ucciardone.
Venivamo
condotti in uno stanzone dove, per vedere i detenuti e potergli parlare, dovevamo
infilare la testa in uno dei buchi nella porta di ferro di fronte a noi – ecco
che il tono di voce di mia madre tradiva un attimo di commozione – sembrava un
girone dell’inferno dantesco: dall’altra parte un’altra porta di ferro con
altrettanti buchi, da dove si affacciavano i detenuti, in mezzo un corridoio
con un agente di custodia che faceva su e giù. L’unico modo per farsi sentire
era urlare a squarciagola. Papà rimase praticamente muto e io piansi così
tanto, che non sarei voluta più tornare a vederlo in quel posto. Visto che ero
in cinta, richiesi un colloquio più umano. Le mie condizioni lo prevedevano.
Non fu concesso, perché il processo aveva carattere politico.
Avevo
seguito con emozione e apprensione la maternità di mamma, anche se non ero accanto
a lei – lasciando intendere che la lontananza non gli impediva di cogliere
pienamente il senso di quanto stava accadendo – e quando, appena partorito,
venne a dirmi che Filippo era nato, fui l’uomo più felice del mondo.
Proprio così
– a questo punto, ho ascoltato la storia più volte, mia madre prendeva la
parola – e la sua prima reazione fu quella di dirmi che era doppiamente felice,
per la nascita del figlio e per l’approvazione della legge di riforma agraria
all’Assemblea Regionale Siciliana.
Non c’era
polemica in quelle parole, piuttosto un’affettuosa consapevolezza del carattere
e della natura dell’uomo.
Dai loro
ricordi, affiorava nettamente l’amarezza per il divieto opposto a mio padre di
visitare sua madre morente e per quello opposto a mia madre di potergli
consegnare nelle braccia il figlio appena nato e vivere insieme quell’attimo di
felicità. Fu una guardia carceraria a farlo al posto di mia madre. Portò a mio
padre, in attesa nel cortile, mio fratello Filippo avvolto in una specie di
sacchetto.
Fu una scena
per me un po’ patetica – rammenta mio padre – ero confuso e, forse, questo è
stato uno dei momenti della mia vita di maggiore commozione, la presa di
coscienza che in quelle condizioni ero diventato padre.
Dei suoi
giorni in carcere, mio padre ricordava il primo periodo in isolamento, poi in
cella con altri detenuti. Ad un certo punto, fu accusato di aver aggirato la
censura: una sua lettera inviata a Bufalini, da quest’ultimo fatta pubblicare
su l’Unità, ne era la prova:
In questi
ultimi anni il popolo siciliano ha dato prova di sapersi battere generosamente
per conquistarsi un regime di libertà, di progresso e di pace. Ha dato la vita
di alcuni dei suoi figli migliori nella lotta contro la mafia che si opponeva
allo sviluppo delle organizzazioni democratiche dei comuni della nostra isola:
da Miraglia a Li Puma, a Rizzotto a Cangelosi.
Questa
lettera gli costò il trasferimento in una cella con due detenuti condannati per
reati gravi, uno per omicidio, con i quali trascorse una notte insonne, subendo
sfottò e minacce. La punizione durò, fortunatamente, ventiquattro ore.
Mi immergevo
nella lettura, studiavo e scrivevo tanto – raccontava – e presi l’abitudine a
fare un po’ di ginnastica a corpo libero, tutte le mattine, appena sveglio.
Abitudine che
ha mantenuto dopo il carcere. Mio padre era salutista, a modo suo. Amava fare
lunghe passeggiate, gli piaceva nuotare, anche se il suo stile libero non era
raffinato e si divertiva a giocare a pallone, senza gran controllo di palla e
duro nei contrasti.
Quando se
l’era sposato, mia madre era consapevole di chi si metteva in casa. Nel vero
senso della parola, perché mio padre aveva lasciato la casa paterna, per
volontà del nonno, dopo l’incendio della porta della stalla, un avvertimento
mafioso. Mio padre era colpevole, non solo di essere comunista, ma anche e
soprattutto di aver voluto aprire una sezione del Pci nella sua borgata e poi
un’altra ancora, cosa che aveva notevolmente infastidito i mafiosi locali. Mio
nonno fu avvertito dei sentimenti che i mafiosi nutrivano nei confronti del
figlio comunista e cercò di metterlo in guardia, senza nessun risultato, anzi.
Gli disse anche che avrebbe dovuto scegliere tra gli studi e la politica e che
la seconda scelta avrebbe determinato l’abbandono della casa paterna. Scelta
che mio padre fece, dopo il brutto episodio della stalla, consapevole anche dei
rischi derivanti dalla sua presenza e si era trasferito a casa di compagni di
partito. Quando chiese a mio nonno materno l’assenso a sposare mia madre e il
nonno gli chiese dove pensassero di andare a vivere dopo sposati, la sua
risposta fu: a casa sua dottore Zacco. Il nonno Franco Zacco, barone e
repubblicano, che aveva fatto la guerra, come medico militare. Il nonno era,
anche, amico dei comunisti che ospitava nella sua casa per le riunioni, nel
dopoguerra e non solo per le riunioni, anche a vivere con le loro famiglie,
come successe a Pompeo Colajanni, mitico comandante partigiano, che aveva
partecipato alla liberazione di Torino, comunista anch’egli. Fu mio nonno che
disse a Bufalini di mio padre in carcere e denunciò l’atteggiamento assunto dal
partito, ottenendo le scuse e l’impegno che ne derivò immediatamente. Comunista
fu la scintilla o meglio la federazione del partito, dove mia madre, la
baronessina, educata da tate tedesche, era stata portata da suo padre, che
aveva fatto esplodere l’amore per colui che dopo pochi mesi avrebbe sposato.
Per la scelta di sposare un comunista fu scomunicata e diseredata dallo zio
prete.
Mio padre se
l’era ritrovata davanti, nella sua stanza in federazione. Lei gli disse che
voleva iscriversi al partito, lui le suggerì di leggere il testo di Gramsci
sulla condizione femminile e poi ne avrebbero riparlato. Non saprei dire se mio
padre fosse consapevole che avrebbe discusso con quella donna per i successivi
33 anni.
Erano
diversi: lei bionda, lui bruno, lei cresciuta nell’agiatezza, lui figlio di
contadini poveri. Li accomunava una straordinaria forza di carattere e una
profonda generosità d’animo.
Ne avevamo
parlato, in famiglia, del pericolo che comportava il ritorno di mio padre a
Palermo e riuscivamo anche a riderci sopra, quando lui raccontava, con un tono
incredulo, che aveva deciso di chiedere il porto d’armi, perché avrebbe dovuto
comprare e tenere con sé una pistola, che non avrebbe mai imparato ad usare.
Parlare non serviva a farsene una ragione, per lo meno scacciava l’angoscia.
Non ci parlava, invece, dei segnali che avvertiva. Al massimo li condivideva
con mia madre e cercava di condurre la sua vita normalmente, la cosa migliore
per tutti. Riusciva a farlo, anche perché in quegli anni non venivano adottate
le misure di sicurezza, utilizzate oggi per proteggere le persone più esposte,
anche se non in grado di garantirne l’incolumità, che condizionano abitudini e
stili di vita di coloro ai quali sono applicate.
Ero
consapevole del fatto che mio padre correva il rischio di essere ucciso dalla
mafia e che il rischio fosse concreto. Ero anche consapevole del fatto che mio
padre avesse valutato il rischio e lo avesse ritenuto accettabile, per
l’obiettivo che voleva raggiungere, la responsabilità che si era assunto,
l’impegno che ne derivava, perché non considerava il suo come un atto di
eroismo, ma una scelta politica.
Tutto ciò mi
faceva vivere la sua decisione come naturale, ovvero rispondente alla sua
natura, a come lo conoscevo: un padre coerente, perché questo era il suo modo
di dare un senso alla sua vita.
Avevo
conosciuto anche il suo senso di responsabilità e la domanda è: che responsabilità
può esserci in una scelta che comprende il rischio di venire uccisi? La
responsabilità che deriva dall’assunzione di una scelta che si ritiene possa
avere effetti di straordinaria rilevanza ed effetto, nella consapevolezza che
questi effetti colpiranno interessi di persone che faranno di tutto per evitare
che quella scelta produca i risultati attesi. Nessuno glielo aveva chiesto e
molti avevano cercato di fargli cambiare idea.
Io non fui
tra quelli, perché sapevo che la cosa non riguardava me, ma soltanto lui. Noi
ormai eravamo diventati adulti: mio fratello Filippo, di quasi sei anni più
grande di me, avviato alla carriera di medico universitario, aveva messo su
famiglia con due figli, io lavoravo da anni in una radio privata e non davo
alcun problema particolare. Mia madre aveva scelto di seguirlo.
Tutto ciò
non ha reso più sopportabile il dolore, forse ha mitigato il senso di colpa che
mi ha colpito, perché non potevo prevedere che sarebbe successo quando ancora
avremmo potuto condividere e dirci tante cose. Non abbiamo avuto più
l’opportunità di farlo, perché mio padre è stato ucciso quando non aveva ancora
compiuto 55 anni.
Una trentina
d’anni dopo, ragionando sul movimento contadino in Sicilia, mio padre scrive
I risultati
sono calcolabili dal punta e sociale e politico. Credo che si possano fare
molte considerazioni, se guardiamo all’insieme del movimento e ai risultati che
si sono raggiunti.
Il primo
risultato è che, dopo la Liberazione, negli dal ’44 in poi, in Sicilia e in
tutto il Mezzogiorno, per la prima volta furono costruite organizzazioni di
classe nelle campagne con una struttura unitaria e collegate con il movimento
nazionale; e questa è la grande portata della costruzione della Confederterra
nel sud … Possiamo dire che il PCI in Sicilia è figlio, in larga misura, di
quel grande movimento; in decine di comuni della Sicilia noi non esistevano
prima. Siamo diventati partito di massa nel fuoco di quel combattimento: decine
e decine di quadri, la maggior parte ragazzi, giovani studenti e anche qualche
intellettuale più maturo, professionisti, operai, ragazze che venivano mandate
avanti a dirigere; io ricordo il vice segretario regionale del Pci, nel periodo
’47 e ’48, il compagno Mazzetti, un militante bolognese del periodo clandestino
che era stato mandato in Sicilia per aiutare Li Causi nella formazione di
quadri. Il suo ufficio sembrava un ufficio matricole, perché convocava
ragazzotti di diciotto, venti anni e gli dava il gallone di ufficiale e li
mandava a fare i dirigenti di un’organizzazione di partito, sindacale o
cooperativa, perché si trattava di costruire ex novo tutto questo e lui puntava
moltissimo su questi ragazzi.
Nel suo
ragionamento non mancano le note di autocritica, quando sottolinea:
Cominciamo
con il valutare lo schieramento delle forze sociali che noi mettevamo in campo
all’ora. La nostra strategia si rivolgeva al bracciante e al contadino povero,
ai senza terra, e lasciava fuori la massa importante dei coltivatori diretti,
quelli che già la terra la possedevano, i piccoli proprietari, i grossi
fittavoli, cioè lo strato più ricco di capacità imprenditoriali
dell’agricoltura siciliana e meridionale.
C’era qui,
una manifestazione di estremismo, di settarismo, presente in quel periodo nel
nostro movimento.
Restò,
questa, la sua più grande preoccupazione. Ovvero che, anche il più giusto dei
movimenti, restando chiuso all’interno delle sue rivendicazioni, non riuscisse
a cogliere la necessità di aprirsi e comprendere quelle di altri che potevano
contribuire a raggiungere obiettivi di interesse più generale. In questo
atteggiamento, di cui anch’egli era stato vittima agli inizi, intuiva i rischi
derivanti dalle scelte minoritarie e i pericoli dell’irrilevanza dell’azione
politica.
Nel ’51,
uscito dal carcere e riabbracciata la famiglia, papà riprese da dove era stato
interrotto.
Dopo poco
chiese al partito di potersi impegnare nel sindacato, convinto che bisognasse
liberare il movimento sindacale da vizi di corporativismo e burocratismo.
Nel ’52,
viene eletto segretario della Camera confederale del lavoro e promuove e
organizza una massiccia raccolta di firme di adesione alla campagna universale
a favore dell’appello di Stoccolma, lanciata dal movimento internazionale per
la pace, che chiedeva la messa al bando delle armi atomiche. Il suo impegno
pacifista che lo vide tra i protagonisti del movimento europeo contro
l’installazione delle testate nucleari del patto di Varsavia e della Nato, in
particolare a Comiso, in provincia di Ragusa, una volta tornato in Sicilia nel
1981, aveva radici lontani ed era coerente con la sua visione della politica.
Dopo pochi
mesi, fu candidato ed eletto al Consiglio comunale di Palermo, dove resterà
fino al 1966. Lì condusse le sue battaglie contro l’intreccio di potere
politico-mafioso che aveva messo le mani sulla città. Erano gli anni della
speculazione edilizia, del sacco di Palermo, che ha segnato malamente il volto
della città. I suoi interventi al Consiglio comunale aiutano a capire quello
che successe e quello che sarebbe successo, chi favorì e chi si oppose a quel
grumo di interessi politici e criminali che faceva esplodere le ville liberty
su viale della Libertà per costruire, al loro posto, moderne palazzine, si
accaparrava gli appalti pubblici, razziava le imprese private, esercitava un
controllo pervasivo del territorio e riuniva i suoi vertici negli alberghi di
lusso della città. In quegli anni, la sua formazione politica si svolse sui
banchi di scuola del partito e del sindacato. Frequentò i corsi della scuola
del PCI a Frattocchie, vicino Roma. Per inciso, mia madre frequentò quella per
le donne comuniste sul lago di Como. L’impegno nel sindacato divenne prevalente
con l’elezione a segretario della Camera del Lavoro di Palermo e si concluse,
all’inizio degli anni ’60, con quella a segretario regionale della CGIL.
Animatore di
iniziative popolari e di massa, efficace oratore e dirigente dalle riconosciute
doti di organizzatore, promotore del radicamento del partito in città –
attraverso un costante dialogo, fatto anche di vendita de l’Unità porta a porta
– mio padre viveva la politica non solo con grande passione ma forte
identificazione. Il partito, ripeteva, era la sua seconda famiglia che lo aveva
accolto, quando aveva dovuto lasciare la casa paterna. Aveva indirizzato la sua
voglia di impegnarsi nelle lotte per il riscatto della sua terra dallo
sfruttamento e dall’oppressione. Aveva intuito e valorizzato le sue doti,
dandogli gli strumenti che gli avrebbero consentito, in breve tempo, di
diventare un dirigente politico. Certo, come accade in tutte le famiglie degne
di questo nome, ci sono stati i momenti buoni e quelli meno buoni. Una volta,
ridendo, mi raccontò di un dialogo ironico e scherzoso, tra lui e un suo
collega deputato repubblicano, che rammento, pressappoco, così: “Vedi, invidio
voi repubblicani, siete fortunati di appartenere a un piccolo partito, con
pochi iscritti, perché in un grande partito di massa, ci puoi trovare una gran
massa di stronzi.”
carabinieri
e polizia che mi stavano cercando. Corsi verso mio padre che mi accolse sollevandomi
e abbracciandomi, insieme a mia madre, mi disse che avevo fatto una cosa
pericolosa e che non era servita a nulla, se non a far prendere un grosso
spavento a tutti quanti, facendomi promettere che non l’avrei mai più fatto.
Per poi concludere, ridendo, che non era stata una grande idea, quella di
rivolgermi al fruttivendolo.
Negli anni
’50, dai banchi del consiglio comunale denunciava il malgoverno e le malefatte
della giunta che amministrava Palermo, composta da democristiani, monarchici e
liberarli, con l’appoggio esterno del Movimento sociale e metteva in luce il
ruolo esercitato dal presidente della regione Restivo che rimase al governo
della Sicilia, ininterrottamente, per sette anni, dal ’48 al ’55, dandovi
un’impronta conservatrice e reazionaria.
Mio padre lo
descrive così:
Restivo era
un <>. Egli amava apparire un politico
giolittiano. Io penso che egli, personalmente, non fosse un profittatore, anzi,
da abile politico sapeva che questo gli doveva essere negato. Era un uomo
politico accorto e avveduto ma al servizio di un disegno pesantemente
conservatore che si esaurì con i governi da lui presieduti. Egli risorge molti
anni dopo in una funzione diversa, a livello nazionale, come ministro
dell’interno. Ma anche qui permangono ombre spaventose sulla sua figura: da
come si atteggiò per Piazza Fontana sino ai fatti di Reggio Calabria. Credo che
la sua morte abbia impedito che si facesse piena luce.
All’inizio
degli anni ’50, il Pci palermitano organizzò i congressi popolari che dovevano
definire un programma di rinascita e lo schieramento di classi sociali capace
di portarlo avanti. Il Corriere della Sera gli dedicò un articolo di fondo dal
titolo Comunisti a Palermo. Dai congressi venne la proposta di legge per
il risanamento del centro storico di Palermo.
Alla metà
degli anni ’50, Pio La Torre, da segretario della Camera del Lavoro di Palermo,
assiste al grande esodo delle masse povere siciliane che emigravano al nord del
paese o, ancor più lontano, all’estero e allo svuotamento di intere zone della
Sicilia e si batté contro le scelte degli investimenti degli investimenti e lo
sviluppo del settore petrolchimico. Scelte politiche che considerava sbagliate,
calate dall’alto e rispondenti a interessi e logiche lontane da quelle che
avrebbero favorito uno sviluppo sostenibile, alle quali opponeva la
valorizzazione delle risorse agricole, industriali e turistiche delle varie
zone, il contrario di quanto accadeva con spreco di denaro e l’impossibilità di
realizzare piena occupazione. Tra le siciliane, costrette a emigrare per
costruirsi un futuro migliore, c’era sua sorella Felicia.
Così
riflette mio padre Da un lato l’esodo in maniera biblica, spaventosa,
dall’altro la necessità di dare contropartite a masse a cui non si dava un’occupazione
seria, un lavoro serio, una prospettiva seria, e quindi lo Stato assistenziale,
come si dice.
Furono anni
di grandi cambiamenti per il nostro paese che cambiava aspetto, si toglieva gli
abiti lisi del contadino, per indossare le tute sporche dell’operaio. Anni
difficili, che anche il Pci non seppe interpretare a pieno. Riflettendo su
quegli anni, mio padre mette a fuoco i problemi del suo partito.
Non c’è
dubbio che abbiamo mostrato limiti, intanto sul piano nazionale. Siamo arrivati
nel ’55 alla sconfitta alla Fiat, e solo in quel momento ci siamo resi conto
della gravità del nostro arretramento nelle grandi fabbriche che erano state
protagoniste della guerra di Liberazione. Noi ci ponemmo allora il problema di
analizzare la realtà del capitalismo italiano e prendere atto di come fosse in
svolgimento il , mentre noi avevamo continuato a parlare di
stagnazione. Insomma facevamo un’analisi un po’ manichea e stereotipata che non
era più valida nel ’55 perché eravamo entrati in una fase nuova.
Nel 1962
aveva concluso la sua carriera nel sindacato, dove ricopriva la carica di
segretario regionale della Cgil, per ritornare al lavoro di partito e assumere
la responsabilità di segretario del PCI siciliano, carica che mantenne sino al
1967. Candidato all’Assemblea Regionale Siciliana alle elezioni del 1963, viene
eletto e resta in carica per due legislature. Lì porta la sua battaglia per il
rilancio e il rafforzamento dell’autonomia siciliana. Un’autonomia tradita per
mancanza di visione e per una gestione, a suo dire, sciagurata da parte della
classe dirigente democristiana, innanzitutto, e dei suoi alleati al governo
della regione. Una visione dello sviluppo subalterna al modello nazionale, che
sacrifica le straordinarie risorse agricole e il significativo patrimonio
culturale sull’altare di un’industrializzazione poco sostenibile dal punto di
vista economico, sociale e ambientale. Una gestione inefficiente e basata su
interessi clientelari, mirata a procacciare consensi elettorali.
Nel 1968
papà e mamma mi portarono con loro in Polonia. Conservo pochi ricordi nitidi di
quel viaggio, ma sufficienti a far riemergere le emozioni di quei giorni. Il
programma comprendeva le visite di Varsavia e Cracovia e un soggiorno di un
paio di settimane a Zakopane, località turistica sulle alpi Tatra.
Ricordo gli stabilimenti di Nova Huta Lenina e una discesa sul fiume Vistola
dal sapore avventuroso. Era prevista la visita del campo di sterminio nazista
di Auschwitz, dove andammo in pullman una mattina. Attraversato il cancello
d’ingresso al campo, reso celebre dalla tragica scritta che lo sovrasta Arbeit
macht frei/Il lavoro rende liberi, una delle immagini più note di uno dei
periodi più oscuri della storia dell’uomo, risultato della sua follia omicida,
sostammo in una grande sala del blocco principale. Lungo le pareti c’erano
alcune bacheche di vetro dove, ricordo, erano esposti alcuni oggetti che
testimoniavano cosa quella follia era stata in grado, non solo di immaginare,
ma di realizzare. I responsabili del campo/museo parlarono, brevemente, con mio
padre e mia madre e loro, raggiungendomi mentre stavo fissando una di quelle
bacheche, mi dissero che sarebbe stato meglio per me se fossi restato
all’ingresso ad aspettarli.
Anche se hai
dodici anni – mi
dissero con aria effettivamente dispiaciuta – ci è stato raccomandato di non
farti fare la visita del campo, non sei ancora abbastanza grande per
sopportarne la visione. La loro visita duro meno di quella degli altri e
quando li rividi mi dissero che, in effetti, era stato meglio che fossi rimasto
lì. Anche se nell’attesa non me ne ero fatto una ragione, capii, dal loro tono,
che non cercavano di consolarmi. Infatti, mi raccontarono qualcosa di quello
che avevano visto e delle emozioni suscitate e io reagii incredulo e disgustato
a quei pochi frammenti, riconoscendo che la scelta fatta era quella giusta.
Tornati a Zakopane, dopo qualche giorno l’Unione Sovietica invase la
Cecoslovacchia e improvvisamente le delegazioni straniere ebbero grandi
difficoltà a comunicare con l’esterno e non arrivarono più i giornali
stranieri, disponibili sino al giorno prima. Tutti volevano saperne di più
degli scarni comunicati ufficiali e delle poche notizie fornite dai funzionari
comunisti polacchi che ci accompagnavano. Mio padre tentava, in continuazione,
senza successo, di parlare con i dirigenti del suo partito a Roma. Voleva
saperne di più e capire come doveva comportarsi con le altre delegazioni e gli
alti dirigenti che si trovavano a Zakopane. Questa condizione di isolamento lo
metteva disagio. Ricordo che era molto nervoso e trascorreva la maggior parte
del suo tempo a discutere e consultarsi con gli altri capi delegazione. Non lo
avevo mai sentito parlare in francese o tedesco, come accadde in
quell’occasione. Aveva chiesto di rientrare in Italia ma incontrava difficoltà,
spiegabili in quel momento, solo dalla volontà dei nostri ospiti di rinviare il
più possibile il suo ritorno. Immagino fossero in corso colloqui tra il PCUS
e gli altri partiti comunisti e, fintanto che questi erano in corso e non
era chiaro se fosse stata presa una posizione comune a sostegno dell’invasione,
tutto restava immobile. Ovviamente, mio padre ignorava che il PCI, dopo aver
seguito con interesse la Primavera di Praga e le scelte del segretario del
partito cecoslovacco Dubcek, avesse assunto una posizione di condanna
dell’invasione sovietica e che questa scelta avesse contribuito all’isolamento
cui era stato costretto in quei giorni.
Finalmente,
dopo un paio di giorni, mio padre riprese a comunicare liberamente con l’Italia
e apprese della decisione del partito. Subito dopo i compagni polacchi gli
dissero che saremmo potuti tornare in Italia. Quel viaggio non lasciò in lui un
bel ricordo.
Nonostante
l’opinione dei servizi segreti italiani che lo aveva ritenuto degno
d’attenzione per molti anni – dagli atti del processo sul suo omicidio è emerso
che era stato sotto osservazione sino a pochi giorni prima della sua morte –
mio padre non era un uomo di Mosca. Avevo assistito alle sue conversazioni con
il Davide Fais, una vecchia conoscenza, figlio di mamma Fais, vecchia amica di
nonno Zacco e le nostre famiglie erano molto legate. Fais era docente
all’Università di Mosca, dove viveva e aveva messo su famiglia. Quando si incontravano
a Palermo, dove tornava a far visita alla madre, alle sorelle e ai fratelli,
mio padre, curioso di sapere, lo riempiva di domande sull’URSS, il PCUS, Mosca,
l’Università, la vita quotidiana nel paese del socialismo reale e Fais non
trascurava nei suoi racconti i riferimenti ai limiti, alle manchevolezze, alle
contraddizioni del sistema e della società di quel paese. Mio padre ascoltava,
poneva domande più specifiche, avanzava dubbi, chiedeva chiarimenti e offriva
punti di vista differenti che portavano a conclusioni diverse. Fais ribadiva,
argomentando ulteriormente, la correttezza delle sue affermazioni. Gran belle
discussioni, che li vedeva entrambi appassionarsi, condividere analisi e
rispettare le differenze d’opinione. Più il tempo passava, più Fais andava
maturando il proposito di tornare in Italia, perché non riusciva più a
ritrovare le ragioni che lo avevano portato in Unione Sovietica. Finché non
venne il giorno in cui prese la decisione di rientrare a Palermo e mio padre
sostenne questa sua scelta.
Nel 1968 era
scoppiata la contestazione studentesca e Filippo frequentava l’ultima classe
del liceo classico Garibaldi. La sua scuola era tra le protagoniste del
movimento degli studenti palermitani e lui era tra i leader della protesta
giovanile. Mi ricordo di una sera d‘autunno, davanti al cancello di casa,
ascoltavo mio fratello che discuteva con Giorgio ed Emilio Colajanni, figli di
Pompeo, dell’occupazione del suo liceo. A un certo punto arrivò mio padre, che
rientrava dal lavoro, e si fermò ad ascoltare i ragionamenti quei tre giovani
rivoluzionari. Appena ebbe capito come stessero le cose, espresse le sue
perplessità sulla scelta di occupare la scuola. Domandò a mio fratello e ai
giovani Colajanni quale fosse l’obiettivo che volevano raggiungere, cosa
pensassero di poter ottenere con l’occupazione, una forma estrema di lotta.
Loro rispondevano che così stavano facendo gli studenti in tutta Italia e
a Palermo non potevano essere da meno. Mio padre gli disse che non considerava
una ragione valida quella di agire per imitazione e non sulla base di un
ragionamento politico sull’obiettivo e sulle forme di lotta per conseguirlo. I
toni si alzarono e i ragazzi non vollero sentire ragioni, rivendicando
l’autonomia delle loro scelte. Allora mio padre, visibilmente contrariato, li
mandò a quel paese ed entrò in casa.
L’estate
successiva, superati gli esami, io di licenza media, mio fratello di licenza
liceale, venne il momento di trasferirci a Roma. Già da alcuni mesi, mio
padre lavorava alle Botteghe Oscure, la sede centrale del PCI, che prendeva il
nome dall’omonima via al centro di Roma. Mia madre aveva preferito che
terminassimo l’anno scolastico, prima di effettuare il trasloco.
Quell’anno,
mio padre non aveva chiesto di partecipare al programma di scambio tra
delegazioni. Mia madre aveva insistito perché, dopo essere stati insieme
in URSS, Yugoslavia, Romania, Polonia, avrebbe voluto fare una vacanza al mare
in Italia. Così trascorsi con loro due settimane a Panarea. Mio fratello c’era
stato con gli amici e ce l’aveva raccomandata. Stavamo in due camere in
famiglia e l’ultimo giorno, giunto il momento di pagare, a mio padre mancavano
10.000 lire per saldare il conto, se non ricordo male, di 45.000 lire. Per
fortuna l’affittacamere aveva fiducia il lui e gli fece credito. Prima di
rientrare a Roma, ci fermammo a Napoli. Papà voleva approfittarne per fermarsi
a fare due chiacchiere con Cacciapuoti, autorevole dirigente meridionale del
partito.
Due anni
prima, l’11 giugno del 1967, si erano tenute le elezioni regionali e il PCI
aveva perso il 2,8%. A seguito di questa sconfitta, non so se oggi sarebbe
considerata tale, mio padre lasciò la carica di segretario del partito e, come
si diceva un tempo, fu chiamato dalla direzione del partito a incarichi nazionali:
vice di Gerardo Chiaromonte nella Commissione Meridionale.
Nel 1969
viene chiamato a Roma dal partito alla Direzione centrale del PCI dove
ricoprirà gli incarichi di responsabile della Sezione agraria e poi di quella
Sezione Meridionale.
Nel 1972
viene eletto al Parlamento dove resterà per tre legislature, facendo parte
delle Commissioni Bilancio e programmazione Agricoltura e Foreste, della
commissione parlamentare per l’esercizio dei poteri di controllo sulla
programmazione e sull’attuazione degli interventi ordinari e straordinari nel
Mezzogiorno ma soprattutto della commissione Antimafia.
La lotta
alla mafia
Appena
eletto in parlamento, nel maggio del 1972, entra a far parte della Commissione
parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. La commissione
era stata istituita nel 1962, durante la prima guerra di mafia e pubblicò il
suo rapporto finale nel 1976. La Torre, insieme al giudice Cesare Terranova,
redasse, e sottoscrisse come primo firmatario, la relazione di minoranza che
metteva in luce i legami tra la mafia e importanti uomini politici, in
particolare della Democrazia Cristiana. Alla relazione aggiunge la proposta di
legge “Disposizioni contro la mafia” tesa a integrare la legge 575/1965 e a
introdurre un nuovo articolo nel codice penale: il 416 bis.
Una proposta che segna una svolta radicale nella lotta contro la criminalità mafiosa. Fino ad allora, infatti, l’appartenenza alla mafia non era riconosciuta come passibile di condanna penale. La proposta di legge La Torre prevedeva l’introduzione nel diritto penale di un nuovo articolo, il 416 bis, che introduce il reato di associazione mafiosa punibile con una pena da tre a sei anni per i membri, pena che saliva da quattro a dieci nel caso di gruppo armato. Stabiliva la decadenza per gli arrestati della possibilità di ricoprire incarichi civili e soprattutto l’obbligatoria confisca dei beni direttamente riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati.
Una proposta che segna una svolta radicale nella lotta contro la criminalità mafiosa. Fino ad allora, infatti, l’appartenenza alla mafia non era riconosciuta come passibile di condanna penale. La proposta di legge La Torre prevedeva l’introduzione nel diritto penale di un nuovo articolo, il 416 bis, che introduce il reato di associazione mafiosa punibile con una pena da tre a sei anni per i membri, pena che saliva da quattro a dieci nel caso di gruppo armato. Stabiliva la decadenza per gli arrestati della possibilità di ricoprire incarichi civili e soprattutto l’obbligatoria confisca dei beni direttamente riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati.
Pio La Torre
ha una grande conoscenza del fenomeno mafioso e del suo sistema di potere. È
conscio delle sue trasformazioni, dalla mafia agricola e del latifondo,
combattuta negli anni dell’adolescenza, alla mafia urbana e dell’edilizia che,
grazie ad appalti pilotati, perpetrò, grazie alle connivenze con le dirigenze
politiche locali, il cosiddetto “Sacco di Palermo”, fino alla mafia
imprenditrice dedita al traffico internazionale di droga con agganci nell’alta
finanza.
Non ha paura
di fare chiaramente i nomi e i cognomi dei conniventi politici, famosi i suoi
giudizi su Vito Ciancimino, assessore ai lavori pubblici del comune di Palermo
dal 1959 al 1964 e poi sindaco del capoluogo siciliano fino al 1975. Dalla sua
analisi del rapporto tra il sistema di potere mafioso e pezzi dello Stato
emerge la sua convinzione che “[la] compenetrazione è avvenuta storicamente
come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le
parti (mafia e potere politico)…La mafia è quindi un fenomeno di classi
dirigenti”.
Nel 1981 Pio
La Torre decide di tornare in Sicilia, in un momento storico in cui la
strategia mafiosa di intimidazione dei rappresentanti più impegnati nell’azione
di contrasto da parte dello Stato contro la mafia, era al massimo fulgore.
Negli anni precedenti erano stati uccisi illustri rappresentanti dello stato
come il giudice Cesare Terranova (il 25 settembre 1979), il procuratore della
repubblica Gaetano Costa (6 agosto 1980) e il Presidente della Regione
Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980). Proprio lui decide di assumere
l’incarico di segretario regionale del PCI, carica che assume nell’autunno del
1981, sostituendo Gianni Parisi.
Immediatamente,
al ritorno in Sicilia, intraprende la sua ultima battaglia, quella contro
l’istallazione dei missili nato nella base militare di Comiso.
Il governo
italiano aveva annunciato il 7 agosto del 1981 l’accordo con la Nato per
l’installazione degli euromissili nucleari Cruise nella base militare di Comiso
in provincia di Ragusa. Siamo in piena guerra fredda. La Torre dà forza e
organizzazione ad un movimento crescente di protesta contro l’istallazione
vista come minaccia alla sicurezza, non solo siciliana, e non come possibile
fonte di ritorno economico. Il clima di tensione tra gli Stati Uniti e la
Russia comportava l’adozione di un atteggiamento prudente e di trattativa che,
non per questo, rendeva meno convinte le richieste da parte dei protestanti.
Furono mesi, a cavallo tra il 1981 e il 1982, durante i quali il movimento
pacifista internazionale dispiegò una capacità d’iniziativa straordinaria, che
è restata unico per la sua vastità, magnitudine ed efficacia degli strumenti di
lotta adottati.
La prima
grande manifestazione si tiene l’11 ottobre 1981, a Comiso, con un gran numero
di partecipanti, provenienti, in marcia, da Palermo. La manifestazione di Palermo
era stata preceduta da quella di Bonn, alla quale partecipano 300.000 persone e
seguita il 17 ottobre dalla Marcia per la pace a Torino con oltre 50.000
partecipanti. La mobilitazione continua il 24 ottobre quando a Roma si svolge
la prima grande manifestazione nazionale, cui partecipano 300.000 persone.
Sempre il 24 ottobre si tengono manifestazioni pacifiste oceaniche a Londra ed
Helsinki. Il 25 ottobre la manifestazione per la pace a Milano con 100.000
partecipanti. Nella stessa giornata si scende in piazza ad Oslo (Norvegia),
Bruxelles e Parigi. Il 28 ottobre due manifestazioni di massa si tengono in
Veneto: la prima, a Venezia, vede scendere in piazza 50.000 persone; oltre
20.000 i partecipanti alla marcia organizzata a Vicenza. Il 15 novembre nuove manifestazioni
pacifiste in Europa: 300.000 manifestanti a Madrid, 500.000 ad Atene. Il 21
novembre, ad Amsterdam, 400.000 persone manifestano contro l’installazione
degli euromissili. A Messina, oltre 5.000 studenti scendono in piazza contro i
Cruise a Comiso. Il 28 novembre la manifestazione nazionale per la pace e per
la “sospensione della costruzione della base di Comiso”, organizzata da
CGIL-CISL e UIL a Firenze. Vi partecipano oltre 150.000 persone. Critica
l’adesione dei partiti della sinistra e dei comitati per la pace, che
rimproverano ai sindacati una “posizione troppo subalterna all’esito delle
trattative di Ginevra”. Il 29 novembre a Palermo si tiene una manifestazione
regionale per la pace, indetta da CGIL-CISL-UIL, PCI, PDUP, ACLI e alcuni Comitati
per la pace della Sicilia. Vi partecipano oltre 50.000 manifestanti. Il 5
dicembre grandi manifestazioni antinucleari si tengono ad Atene (40.000
persone), Berna (30.000), Copenaghen (65.000). Il 6 dicembre centomila
manifestanti invadono la città di Barcellona, per protestare contro le nuove
armi nucleari in Europa. A Bruxelles si tiene un Congresso internazionale
‘contro l’armamento nucleare’ a cui intervengono le maggiori organizzazioni
pacifiste europee. Un gruppo di lavoro è dedicato all’ ‘Opposizione locale alle
armi nucleari: l’esempio di Comiso’. Il 9 dicembre 1981, il sindaco di
Mistretta, Messina, Vincenzo Antoci (PCI), si rifiuta di collaborare con gli
ufficiali delle forze armate nella notifica dei decreti ai proprietari terrieri
per i sopralluoghi dei militari nell’area dove sono previsti gli espropri per
la realizzazione del megapoligono di tiro sui Nebrodi. Il 10 gennaio 1982 si
riunisce a Comiso l’Assemblea Siciliana dei Comitati per la pace e il disarmo a
cui partecipano delegati di oltre un centinaio di realtà organizzate
dell’isola. Date le divergenze politiche e strategiche tra le differenti anime
del movimento, si giunge solo all’approvazione di un documento che afferma con
genericità “l’impegno perché l’inizio dei lavori non avvenga”, pur ribadendo
come “Comiso rappresenti lo snodo strategico del riarmo e della Pace”. Il 6-7
marzo si tiene nei locali del Teatro Comunale di Comiso l’Assise nazionale dei
Comitati per la pace sorti alla vigilia della manifestazione di Roma del 24
ottobre ‘81. Il 13 marzo a Livorno si tiene una manifestazione nazionale
antimilitarista anarchica alla quale partecipano 3.000 persone. Il 26 marzo
viene assegnato l’appalto per l’abbattimento delle vecchie strutture
dell’aeroporto ‘Magliocco’ di Comiso. L’impresa assegnataria è l’ICI, un
consorzio locale che riceverà 825 milioni di lire. Il 2 aprile giungono a
Comiso i primi tecnici della ‘General Dinamics’, impresa costruttrice dei
missili Cruise. Il 3 aprile 1982 il consiglio comunale di Vittoria (Ragusa), riunitosi
in seduta straordinaria, dichiara il territorio ‘Zona denuclearizzata’ come
gesto di rifiuto di tutti i missili nucleari. E’ il primo comune siciliano a
dichiarare la denuclearizzazione del territorio, uno dei primi in tutta Italia.
Nei 3 anni successivi saranno dichiarati nell’isola “zona denuclearizzata” i
comuni di Caronia (Me), Castelbuono (Pa), Castel di Lucio (Me), Fiumefreddo,
Isnello (Pa), Lentini (Sr), Mistretta (Me), Monreale (Pa), Ramacca (Ct),
Sambuca di Sicilia (Ag), San Cipirello (Pa), Santa Teresa di Riva (Me), Sciacca
(Tp), Scordia (Ct), e l’intera provincia di Messina. Il 4 aprile nuova
manifestazione regionale per la pace a Comiso a cui partecipano oltre 80.000
manifestanti. La marcia si conclude con il concerto del gruppo cileno ‘Inti
Illimani’. Il 6 aprile 1982 una delegazione pacifista internazionale effettua
un sit-in silenzioso di fronte l’aeroporto ‘Magliocco’ di Comiso contro il
ventilato inizio dei lavori di realizzazione della base. Vi partecipano, tra
gli altri, Giacomo Cagnes del Cudip, il parlamentare dei ‘Grunen’ tedeschi
Roland Vogt, Janne Kuik dell’IKV olandese, Michael Friese dell’END britannico e
Alberto L’Abate del Movimento Nonviolento. L’8 aprile iniziano i lavori di
demolizione dei vecchi edifici dell’aeroporto ‘Magliocco’.
Il 16 aprile
1982, La Torre lancia dal Circolo della Stampa di Palermo una petizione –
nell’ambito di un convegno, cui parteciparono esponenti di ogni
orientamento politico, culturale e religioso – indirizzata al Governo italiano
per la “sospensione dei lavori della base di Comiso”. L’obiettivo era
raccogliere un milione di firme: la richiesta degli organizzatori è che non “si
dia inizio ai lavori di costruzione della base di Comiso quale contributo
italiano al buon esito della trattativa di Ginevra”.
Il successo
della protesta fu enorme e la raccolta di firme straordinaria. Lo stesso La
Torre spiegò, in un articolo pubblicato postumo su “Rinascita” del 14 maggio
1982, che le ragioni dell’opposizione ai missili era basata sulla assoluta
contrarietà alla “trasformazione della Sicilia in un avamposto di guerra in un
mare Mediterraneo già profondamente segnato da pericolose tensioni e conflitti.
Noi dobbiamo rifiutare questo destino e contrapporvi l’obiettivo di fare del
Mediterraneo un mare di pace”.
I suoi
propositi furono bruscamente interrotti una mattina di aprile del 1982.
Il 30 aprile
del 1982, alle nove del mattino Pio La Torre, insieme a Rosario Di Salvo, sta
raggiungendo in auto, una Fiat 132, la sede del partito. In via Turba, di
fronte la caserma Sole, si affiancano alla macchina due moto di grossa
cilindrata: alcuni uomini mascherati con il casco e armati di pistole e
mitragliette sparano decine di colpi contro i due. La Torre muore all’istante
mentre Di Salvo ha il tempo di estrarre la pistola e sparare alcuni colpi in un
estremo tentativo di difesa. Rosario Di Salvo non l’ho mai incontrato, ma ho
potuto conoscerlo attraverso sua moglie Rosa e sua figlia Tiziana.
Il 12
gennaio 2007la Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha emesso l’ultima di una
serie di sentenze che ha portato a individuare in Giuseppe Lucchese, Nino
Madonna, Salvatore Cucuzza, e Pino Greco, gli autori materiali dell’omicidio.
Dalle rivelazioni di Cucuzza, diventato collaboratore di giustizia, è stato
possibile ricostruire il quadro dei mandanti dell’eccidio, identificati nei
boss Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca e
Antonino Geraci.
Il quadro
delle sentenze ha permesso di individuare nell’impegno antimafia di Pio La
Torre la causa determinante della condanna a morte inflitta dalla mafia del
politico siciliano.
Quattro anni
dopo la sua uccisione, nel maggio del 1986, nasce, ad Alcamo, su iniziativa di
Ino Vizzini, deputato regionale, il Centro di studi ed iniziative culturali
“Pio La Torre”. Missione del Centro è quella di valorizzare il patrimonio
ideale e politico segnato dalla vita e dall’opera di Pio La Torre realizzando e
promuovendo studi, iniziative e ricerche originali riguardanti aspetti e
problemi della Sicilia contemporanea. Perché, come ha sottolineato il primo
Presidente del Centro, l’ing. Francesco Artale, nel suo discorso
d’inaugurazione del Centro: “il patrimonio lasciato da Pio La Torre […]
appartiene a tutti i lavoratori, alla gente onesta, a tutti quelli che lottano
e operano contro la mafia e contro lo sfruttamento, a tutti quelli che lavorano
per una Sicilia libera e produttiva e per un mondo senza missili e senza
guerre”.
Nel 2012, in
occasione del trentesimo anniversario dell’omicidio, la Camera dei Deputati lo
ha ricordato, solennemente, in Aula e in occasione di una giornata di
riflessione e dibattito sulla sua eredità politica, durante la quale, il
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha insignito lui e Rosario Di
Salvo della Medaglia d’Oro al Valore Civile. Lo stesso anno, anche l’Assemblea
Regionale Siciliana gli ha dedicato una cerimonia pubblica.
Mio padre,
Pio La Torre, proveniva da una famiglia di contadini. Suo padre si chiamava
Filippo e sua madre si chiamava Angela Melucci. Nasce, il 24 dicembre del 1927,
a Villa Nave, nella borgata di Altarello di Baida, poverissima frazione di
Palermo, in piena Conca d’oro, la piana coltivata ad agrumi e che dava il nome
ad un’area ad est, ormai scomparsa, perché divorata dall’espansione urbana
negli anni ’50 e ‘60. Il nonno paterno è originario di Monreale. Quando
nacque Pio, Filippo aveva già avuto da Angela tre figli: Filippo, Antonina e
Felicia, di diciotto mesi e dopo un paio d’anni nascerà il quinto ed
ultimogenito Luigi. Le sofferenze patite per la sua condizione di miseria e di
disperazione, che nel corso degli anni sarebbero diventate il suo punto di
forza, avrebbero accompagnato il piccolo Pio per tutta la vita, gli avrebbero
temprato il carattere.
Pio La Torre
era un vero figlio del Sud, discendente da quelle generazioni di contadini e
mezzadri, quasi tutti poverissimi, che davano volto e carattere alla Sicilia.
Racconta mia
zia Felicia che mio padre, all’età di quattro – cinque anni, esprime il
desiderio di andare a scuola, che suo padre, in un primo momento, gli nega, per
poi, fortunatamente, lasciarsi convincere dalla moglie Angela, che, analfabeta,
aveva “istigato” i figli a ribellarsi alle loro misere condizioni di vita
attraverso lo studio. L’accordo raggiunto tra i suoi genitori prevedeva che mio
padre, ogni mattina, prima di recarsi a scuola, avrebbe pulito la piccola
stalla, adiacente la casa, che ospitava una vacca.
Comincia,
così, il suo percorso di affrancamento dalle condizioni di miseria, cui
sembrava che la rigidità dei sistemi sociali di allora lo avrebbero condannato.
Non aveva
ancora compiuto diciotto anni, quando si iscrive alla Facoltà di Ingegneria
dell’Università di Palermo e, contemporaneamente, al Partito Comunista
Italiano.
La scelta di
mio padre di aderire al PCI affondava le sue ragioni all’origine del suo
impegno a fianco del popolo siciliano nella sua lotta per liberarsi dalla
condizione di sottosviluppo e subalternità.
Così
racconta quegli anni nel suo libro Comunisti e movimento contadino in
Sicilia, in cui matura il suo interesse per la giustizia sociale e si
impegna a combattere per i diritti dei più deboli e bisognosi contro lo
sfruttamento dei ricchissimi proprietari terrieri.
Al
partito mi ero iscritto nell’autunno del ’45, negli stessi giorni in cui mi ero
iscritto all’università. La scelta fu certamente influenzata dal tipo di
famiglia nella quale ero cresciuto. Provenivo da una borgata di Palermo che a
quell’epoca sembrava un paese lontano; si pensi che nel piccolo villaggio dove
io sono nato, fino all’età di otto anni, non avevamo la luce elettrica, si
studiava a lume di candela o a petrolio, e l’acqua da bere dovevamo andare a
prenderla quasi a un chilometro di distanza. I braccianti di quella borgata, la
domenica mattina, quando si ripulivano e andavano in città dicevano: “Vaiu a
Palermu”, come se andassero in una città lontana.
Avevo
cominciato la mia attività politica nella borgata dove sono nato. Dopo aver
costituito la sezione del partito e contribuito a crearne altre attorno, avevo
scoperto che c’era bisogno dell’organizzazione sindacale dei braccianti e,
quindi, mi ero rivolto alla Federterra.
Mio padre
era stato uno studente precoce e amava molto lo studio. Non so se immaginasse
che quel giorno, quando varcò l’ingresso della sede della Federterra, avrebbe
impresso una svolta alla sua vita. Non era più soltanto un attivista,
avrebbe cominciato ad assumersi impegni e responsabilità. Non so se lo
avesse previsto, certo era quello che voleva.
Diventò
funzionario della Federterra, poi responsabile giovanile della CGIL e quindi
responsabile della commissione giovanile regionale del PCI, in quel periodo non
esisteva un’organizzazione giovanile di partito. Successivamente, Pancrazio De
Pasquale, segretario della federazione comunista di Palermo, col quale strinse
un rapporto umano e politico molto profondo e duraturo, gli chiese di lavorare
con lui in una segreteria formata da cinque giovani che, messi insieme,
superavano di poco il secolo di vita.
In quegli
anni, i comunisti erano impegnati per l’effettiva applicazione dei decreti
Gullo, provvedimenti legislativi emanati dall’allora ministro dell’agricoltura
del governo Badoglio, che garantivano ai contadini maggiori diritti e più terre
da coltivare. Lo svuotamento delle norme, operate dal successivo ministro e
l’opposizione dei proprietari terrieri alla loro applicazione, scatenò,
soprattutto nel Meridione, la richiesta di una effettiva riforma agraria e
un’ondata di proteste popolari che ebbero la loro concretizzazione nelle
occupazioni delle terre incolte da parte dei braccianti agricoli esasperati, in
una reazione, altrettanto esasperata, da parte del governo e nell’opposizione
dura e intransigente dei proprietari terrieri, che non esitarono a fare ricorso
al braccio armato della mafia. Tra il marzo e l’aprile del 1948, alla vigilia
delle elezioni politiche, erano stati uccisi vari segretari di Camere del
Lavoro del palermitano, Placido Rizzotto a Corleone, Calogero Cangelosi a
Camporeale, Epifanio Leonardo Li Puma a Petralia.
Pio La
Torre, nel luglio del 1949, è membro del Consiglio Federale del PCI, che dà
l’inizio ufficiale all’occupazione delle terre, lanciando lo slogan: “la terra
a tutti”. La protesta prevedeva il censimento delle terre giudicate incolte o
mal coltivate e l’assegnazione, in parti uguali, a tutti i braccianti che ne
avessero bisogno. Parallelamente partì, anche, la campagna per la raccolta del
grano, che sarebbe servito per seminare le terre occupate. Il 23 ottobre 1949
fu organizzato il I° Festival provinciale dell’Unità a Palermo, al Giardino
inglese, per sensibilizzare l’opinione pubblica alla protesta.
Il clima di
festa fu, però, presto interrotto dalle notizie che giunsero, pochi giorni
dopo, il 29 ottobre dalla Calabria, da Melissa per la precisione, dove le
proteste dei contadini erano sfociate in tragedia con l’uccisione da parte
delle forze dell’ordine di tre persone, tra cui un bambino e una donna e il
ferimento di altri quindici, oltre a numerosi arresti. Quella strage convinse i
dirigenti del PCI palermitano ad anticipare la data dell’occupazione delle
terre, fissandola al 13 novembre successivo.
D’altronde,
mia madre lo aveva conosciuto proprio in quegli anni, la fine dei ’40. Il 29
ottobre 1949, giorno della strage di Melissa, annota mio padre, lo aveva
sposato e con lui aveva condiviso le lotte contadine: il loro autentico viaggio
di nozze, durante il quale, potrei sbagliarmi, concepirono mio fratello, non
quei pochi giorni trascorsi a Capri, dopo il matrimonio, interrotti proprio
dalla necessità di rientrare a Palermo per preparare l’imminente mobilitazione
che avrebbe coinvolto migliaia di braccianti poveri della Sicilia
nord-occidentale.
Mia madre
sapeva chi era quell’uomo che, arrestato durante una delle manifestazioni dove
i contadini occupavano e seminavano simbolicamente le terre incolte, aveva
scontato ingiustamente 17 mesi all’hotel Ucciardone, il carcere di Palermo,
accusato di tentato omicidio e poi prosciolto per non aver commesso il fatto.
Mio padre e
mia madre erano orgogliosi di quel periodo della loro vita; si capiva, da come
ne parlavano, che non era stato facile e aveva richiesto capacità di misurarsi
con prove impegnative, grandi sforzi e sacrifici per due giovani poco più che
ventenni che stavano mettendo su famiglia, mentre partecipavano attivamente al
movimento di liberazione dall’oppressione semifeudale e per l’affrancamento
dalle condizioni di sottosviluppo delle masse povere siciliane.
Raccontavano
della dignità della gente che li accoglieva, anche per settimane, nelle loro
misere abitazioni che non si poteva definire case. Non era raro che
dormissimo sulla paglia nelle stalle, insieme agli animali – ricordava mia
madre.
Ma la stalla
era, comunque, un lusso che non tutti si potevano permettere – aggiungeva mio
padre – e capitava che dormissimo nell’unica stanza, insieme alla famiglia che
ci ospitava e alla loro capra. Il partito non aveva a disposizione tutti i
mezzi necessari. Si partiva da Palermo, sapendo che si sarebbe stati fuori per
giorni. Venivamo lasciati nei paesi, dove avremmo incontrato i contadini e
organizzato con loro le manifestazioni, spostandoci a piedi o con i mezzi
disponibili in loco, carretti, muli, biciclette e qualche rara motocicletta.
La mattina
di quella domenica 13 novembre del 1949, i contadini di Corleone, Campofiorito,
Contessa Entellina, Valledolmo, Castellana Sicula, Polizzi, alcune borgate di
Petralia Soprana e di Petralia Sottana, Alia, San Giuseppe Iato, San Cipirello,
Piana degli Albanesi, in tutto dodici paesi in provincia di Palermo sulle
Madonie, si erano dati appuntamento a Corleone e da lì, in una serie di cortei,
si snodarono per le campagne circostanti, dove avrebbero occupato e preso
possesso di tutte le terre censite come incolte e mal coltivate. Diverse
migliaia di persone si misero in marcia all’alba verso i feudi, tra questi
quello di Strasatto, dove Luciano Leggio era gabellotto. Dopo la tragedia
avvenuta a Melissa, alla polizia era stato ordinato di non reprimere le
manifestazioni, così l’occupazione continuò per molti giorni, sviluppandosi
anche nei comuni fuori Palermo.
Il governo,
viste le dimensioni che la rivolta aveva assunto, decise di riprendere l’azione
repressiva. Così scattò l’arresto di alcuni dirigenti sindacali e braccianti
agricoli e ricominciarono gli scontri tra polizia e manifestanti. A San
Cipirello vennero arrestate diciotto persone. L’occupazione aveva avuto
successo, con il risultato che circa tremila ettari di terreno erano stati
arati e il grano seminato.
Mio padre,
in quell’inverno del ‘49, in attesa dei frutti della semina, era impegnato
nell’organizzazione della ripresa delle lotte in primavera. L’obiettivo era
conservare il diritto di raccolta sui terreni seminati, nella consapevolezza
che il vero ostacolo era l’opposizione dei proprietari agrari.
Alle prime
luci del giorno del 10 marzo 1950 mio padre guidava il corteo di Bisacquino.
Lungo tra i quattro e i cinque chilometri. Cinque – seimila contadini andavano
a misurare i terreni incolti e li lottizzavano: un ettaro a testa. Doveva
rientrare a Palermo con la corriera delle 15 ma la perse. Allora decise di
andare incontro ai contadini che rientravano dal fondo occupato. Giunse in
vista del corteo, si scorgevano le bandiere e si udivano i cori delle donne ma
vide, anche, arrivare una colonna di automezzi carichi di poliziotti e carabinieri.
Si rese conto che Vicari, il prefetto di Palermo, aveva messo in atto le
minacce di repressione e aveva dato ordine di organizzare una vera e propria
imboscata. Era già successo nei giorni addietro. Mio padre decise di andare a
parlare con i dirigenti della colonna. Riconobbe tra questi il tenente Panzuti
dei carabinieri di Bisacquino, una persona ragionevole, con cui aveva trovato
un’intesa nei giorni precedenti, ma questi, con lo sguardo chino, lo indirizzò
al commissario capo dottor Panico. Mio padre ricorda il commissario Panico in
evidente stato di agitazione il quale, senza dargli il tempo di parlare, stava
ordinando a uno degli ufficiali di togliere quello sconcio di bandiere. Un
gruppo di carabinieri si avvicinò alla testa del corteo e tentò di strappare le
bandiere dalle mani delle donne. Queste reagirono con vigore e ne nacque un
tafferuglio. Partì una sassaiola verso i carabinieri e il commissario Panico
diede ordine di sparare. I contadini si dispersero e rimase a terra il
bracciante Salvatore Catalano. Un proiettile lo aveva colpito alla spina
dorsale, rendendolo invalido per tutta la vita. Mio padre è andato a trovarlo
quando poteva e finché ha potuto. Gli scontri ripresero e si svilupparono con
violenza. Mio padre raccontava di aver impedito ad un gruppo di contadini di
uccidere a colpi di pala un carabiniere. Un maresciallo di polizia era stato
catturato, gli era stata tolta la pistola e stava per essere denudato, se mio
padre non fosse intervenuto e avesse convinto i contadini a restituirgli la
divisa e a liberarlo. Mantenendo la necessaria lucidità, si rivolgeva con
autorità ai contadini dicendo loro che carabinieri e poliziotti non erano i
loro nemici, ma gli agrari che volevano la repressione e lo scontro. Il suo
comportamento evitò che i contadini uccidessero o mutilassero gli agenti. Le
cariche della polizia continuavano. Mio padre vene fermato insieme a centinaia
di contadini e fatto salire su un camion. Giunse ammanettato nella piazza di
Bisacquino e sul suo camion salì un tenente di polizia che fece accendere le
luci e, puntandogli il dito contro, lo accusò di averlo colpito con un bastone.
Alla smentita di mio padre, il tenente gli sputò contro e ordinò che gli
venissero strette le manette. L’accusa era tentato omicidio.
All’alba
dell’undici marzo 1950 fece il suo ingresso nel carcere dell’Ucciardone e, dopo
le perquisizioni di rito, venne scortato in cella. Sarebbe uscito il ventitré
agosto 1951.
Del periodo
del carcere, mia madre ricordava l’angoscia del distacco improvviso, la
tristezza del non sapere quando avrebbe riabbracciato suo marito e padre del
figlio che aveva in grembo. Aveva dovuto attendere diverse settimane prima di
ottenere un colloquio. Ricordava la vergogna, per se e per mio padre, di dover
piegarsi a quei piccoli ricatti del generoso agente di custodia che chiudeva un
occhio sui libri censurabili e su altre piccolezze, da questi ritenuti
rischiosissimi favori da ricompensare adeguatamente.
Le lettere
che ci scrivevamo, venivano previamente lette e anche censurate – raccontava
mia madre – per cui, io e papà, ci accordammo che alla fine avremmo aggiunto la
parte più intima, scritta col limone, illeggibile se non si passa una fiammella
sotto al foglio. Quando riassaporava questi particolari, mia madre rivolgeva a
mio padre uno sguardo complice, da lui corrisposto e sorridevano, come fanno i
bambini, quando custodiscono segreti.
Seppur
mitigata negli anni, restava l’amarezza per un partito che, nei primi mesi, lo
aveva dimenticato in carcere, considerandolo colpevole di mancato rispetto
delle posizioni espresse dagli organi dirigenti regionali che ritenevano che il
partito non fosse preparato, che non fossero maturi i tempi per lanciare la
mobilitazione. Il PCI siciliano era guidato da Girolamo Li Causi, mitico dirigente
comunista, capace di affascinare e di suscitare rispetto e grande ammirazione.
Ho
conosciuto Li Causi, un pomeriggio all’inizio degli anni ’60, nel giardino di
casa dei nonni a Palermo, dove chiacchierava con mio padre. La sua faccia mi
ispirava simpatia e il suo aspetto mi dava fiducia. Giocavo intorno a loro che
mi prendevano in braccio a turno, dicendomi cose che mi facevano ridere.
La sua
biografia esprime la personalità e le doti di questo grande uomo politico
siciliano, meglio di quanto possa fare io.
Già
dirigente socialista, aderì al Partito
Comunista d’Italia nel 1924.
Nel 1926 fu per alcuni mesi direttore de L’Unità. Nel 1928
venne arrestato per la sua attività antifascista e condannato a 21 anni di
carcere.
Liberato
nell’estate del 1943,
diventò partigiano ed entrò nel CLNAI. Venne quindi
rimandato nella natia Sicilia per organizzare la presenza del Partito
Comunista, di cui divenne il primo segretario regionale. Il forte impegno
politico contro la mafia caratterizzò
subito la sua azione e per questo il 16 settembre 1944, durante un comizio a
Villalba, fu vittima di un attentato da parte di un gruppo di mafiosi guidato
da Calogero Vizzini,
in cui vennero ferite 14 persone. Nel 1946 venne eletto deputato nell’Assemblea Costituente. Fu eletto per la
Prima volta in Parlamento nel 1948 e, attraverso
varie legislature, ricoprì la carica di Deputato e quella di Senatore. Fu
vicepresidente della prima Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno
mafioso.
In verità, i
giovani dirigenti palermitani erano di diverso avviso. Convinti che vi fossero
le condizioni, dopo averle preparate meticolosamente, avevano deciso di
anticipare i tempi delle manifestazioni per le occupazioni delle terre nella
provincia di Palermo. Era questa la loro colpa, anche se la mobilitazione in
provincia di Palermo ebbe successo. Pancrazio De Pasquale, accusato di
frazionismo e con lui i giovani dirigenti palermitani, venne destituito da
segretario della federazione e inviato alla scuola di partito e a mio padre,
tramite mia madre, venne suggerito di approfittare del periodo in carcere per
prepararsi alla laurea, visto che la sua prospettiva nel partito era incerta.
Accadde che,
a Roma, Pietro Secchia, responsabile nazionale dell’organizzazione del PCI, si
fosse persuaso che i metodi e le decisioni assunte a Palermo avessero nociuto
al partito e andasse a Palermo a presiedere la riunione del Comitato regionale
che, con l’accordo di Li Causi, approvò una mozione che ridimensionava
analisi e decisioni e , in una certa misura, riabilitava i giovani. Questa
svolta fu accompagnata dall’arrivo a Palermo di Paolo Bufalini – dirigente
autorevole inviato dal centro del partito, come si diceva allora, venuto ad
assumere la responsabilità di vice segretario regionale, a fianco di Li Causi –
che risvegliò l’interesse del partito verso mio padre in carcere. Bufalini
promosse la costituzione di un comitato di solidarietà e un collegio di difesa
autorevole che ottenne, in pochi mesi, l’assoluzione e la successiva
scarcerazione del compagno La Torre.
Dei ricordi
di quell’anno e mezzo trascorso da mio padre in carcere, mia madre e mio padre
condividevano la tristezza che avvolgeva le visite dei familiari ai carcerati
all’Ucciardone.
Venivamo
condotti in uno stanzone dove, per vedere i detenuti e potergli parlare,
dovevamo infilare la testa in uno dei buchi nella porta di ferro di fronte a
noi – ecco che il tono di voce di mia madre tradiva un attimo di commozione –
sembrava un girone dell’inferno dantesco: dall’altra parte un’altra porta di
ferro con altrettanti buchi, da dove si affacciavano i detenuti, in mezzo un
corridoio con un agente di custodia che faceva su e giù. L’unico modo per farsi
sentire era urlare a squarciagola. Papà rimase praticamente muto e io piansi
così tanto, che non sarei voluta più tornare a vederlo in quel posto. Visto che
ero in cinta, richiesi un colloquio più umano. Le mie condizioni lo
prevedevano. Non fu concesso, perché il processo aveva carattere politico.
Avevo
seguito con emozione e apprensione la maternità di mamma, anche se non ero
accanto a lei – lasciando intendere che la lontananza non gli impediva di
cogliere pienamente il senso di quanto stava accadendo – e quando, appena
partorito, venne a dirmi che Filippo era nato, fui l’uomo più felice del mondo.
Proprio così
– a questo punto, ho ascoltato la storia più volte, mia madre prendeva la
parola – e la sua prima reazione fu quella di dirmi che era doppiamente felice,
per la nascita del figlio e per l’approvazione della legge di riforma agraria
all’Assemblea Regionale Siciliana.
Non c’era
polemica in quelle parole, piuttosto un’affettuosa consapevolezza del carattere
e della natura dell’uomo.
Dai loro
ricordi, affiorava nettamente l’amarezza per il divieto opposto a mio padre di
visitare sua madre morente e per quello opposto a mia madre di potergli
consegnare nelle braccia il figlio appena nato e vivere insieme quell’attimo di
felicità. Fu una guardia carceraria a farlo al posto di mia madre. Portò a mio
padre, in attesa nel cortile, mio fratello Filippo avvolto in una specie di
sacchetto.
Fu una scena
per me un po’ patetica – rammenta mio padre – ero confuso e, forse, questo è
stato uno dei momenti della mia vita di maggiore commozione, la presa di
coscienza che in quelle condizioni ero diventato padre.
Dei suoi
giorni in carcere, mio padre ricordava il primo periodo in isolamento, poi in
cella con altri detenuti. Ad un certo punto, fu accusato di aver aggirato la
censura: una sua lettera inviata a Bufalini, da quest’ultimo fatta pubblicare
su l’Unità, ne era la prova:
In questi
ultimi anni il popolo siciliano ha dato prova di sapersi battere generosamente
per conquistarsi un regime di libertà, di progresso e di pace. Ha dato la vita
di alcuni dei suoi figli migliori nella lotta contro la mafia che si opponeva
allo sviluppo delle organizzazioni democratiche dei comuni della nostra isola:
da Miraglia a Li Puma, a Rizzotto a Cangelosi.
Questa
lettera gli costò il trasferimento in una cella con due detenuti condannati per
reati gravi, uno per omicidio, con i quali trascorse una notte insonne, subendo
sfottò e minacce. La punizione durò, fortunatamente, ventiquattro ore.
Mi immergevo
nella lettura, studiavo e scrivevo tanto – raccontava – e presi l’abitudine a
fare un po’ di ginnastica a corpo libero, tutte le mattine, appena sveglio.
Abitudine
che ha mantenuto dopo il carcere. Mio padre era salutista, a modo suo. Amava
fare lunghe passeggiate, gli piaceva nuotare, anche se il suo stile libero non
era raffinato e si divertiva a giocare a pallone, senza gran controllo di palla
e duro nei contrasti.
Quando se
l’era sposato, mia madre era consapevole di chi si metteva in casa. Nel vero
senso della parola, perché mio padre aveva lasciato la casa paterna, per
volontà del nonno, dopo l’incendio della porta della stalla, un avvertimento
mafioso. Mio padre era colpevole, non solo di essere comunista, ma anche e
soprattutto di aver voluto aprire una sezione del Pci nella sua borgata e poi
un’altra ancora, cosa che aveva notevolmente infastidito i mafiosi locali. Mio
nonno fu avvertito dei sentimenti che i mafiosi nutrivano nei confronti del
figlio comunista e cercò di metterlo in guardia, senza nessun risultato, anzi.
Gli disse anche che avrebbe dovuto scegliere tra gli studi e la politica e che
la seconda scelta avrebbe determinato l’abbandono della casa paterna. Scelta
che mio padre fece, dopo il brutto episodio della stalla, consapevole anche dei
rischi derivanti dalla sua presenza e si era trasferito a casa di compagni di
partito. Quando chiese a mio nonno materno l’assenso a sposare mia madre e il
nonno gli chiese dove pensassero di andare a vivere dopo sposati, la sua
risposta fu: a casa sua dottore Zacco. Il nonno Franco Zacco, barone e
repubblicano, che aveva fatto la guerra, come medico militare. Il nonno era,
anche, amico dei comunisti che ospitava nella sua casa per le riunioni, nel
dopoguerra e non solo per le riunioni, anche a vivere con le loro famiglie,
come successe a Pompeo Colajanni, mitico comandante partigiano, che aveva
partecipato alla liberazione di Torino, comunista anch’egli. Fu mio nonno che
disse a Bufalini di mio padre in carcere e denunciò l’atteggiamento assunto dal
partito, ottenendo le scuse e l’impegno che ne derivò immediatamente. Comunista
fu la scintilla o meglio la federazione del partito, dove mia madre, la
baronessina, educata da tate tedesche, era stata portata da suo padre, che
aveva fatto esplodere l’amore per colui che dopo pochi mesi avrebbe sposato.
Per la scelta di sposare un comunista fu scomunicata e diseredata dallo zio
prete.
Mio padre se
l’era ritrovata davanti, nella sua stanza in federazione. Lei gli disse che
voleva iscriversi al partito, lui le suggerì di leggere il testo di Gramsci
sulla condizione femminile e poi ne avrebbero riparlato. Non saprei dire se mio
padre fosse consapevole che avrebbe discusso con quella donna per i successivi
33 anni.
Erano
diversi: lei bionda, lui bruno, lei cresciuta nell’agiatezza, lui figlio di contadini
poveri. Li accomunava una straordinaria forza di carattere e una profonda
generosità d’animo.
Ne avevamo
parlato, in famiglia, del pericolo che comportava il ritorno di mio padre a
Palermo e riuscivamo anche a riderci sopra, quando lui raccontava, con un tono
incredulo, che aveva deciso di chiedere il porto d’armi, perché avrebbe dovuto
comprare e tenere con sé una pistola, che non avrebbe mai imparato ad usare.
Parlare non serviva a farsene una ragione, per lo meno scacciava l’angoscia.
Non ci parlava, invece, dei segnali che avvertiva. Al massimo li condivideva
con mia madre e cercava di condurre la sua vita normalmente, la cosa migliore
per tutti. Riusciva a farlo, anche perché in quegli anni non venivano adottate
le misure di sicurezza, utilizzate oggi per proteggere le persone più esposte,
anche se non in grado di garantirne l’incolumità, che condizionano abitudini e
stili di vita di coloro ai quali sono applicate.
Ero
consapevole del fatto che mio padre correva il rischio di essere ucciso dalla mafia
e che il rischio fosse concreto. Ero anche consapevole del fatto che mio padre
avesse valutato il rischio e lo avesse ritenuto accettabile, per l’obiettivo
che voleva raggiungere, la responsabilità che si era assunto, l’impegno che ne
derivava, perché non considerava il suo come un atto di eroismo, ma una scelta
politica.
Tutto ciò mi
faceva vivere la sua decisione come naturale, ovvero rispondente alla sua
natura, a come lo conoscevo: un padre coerente, perché questo era il suo modo
di dare un senso alla sua vita.
Avevo
conosciuto anche il suo senso di responsabilità e la domanda è: che
responsabilità può esserci in una scelta che comprende il rischio di venire
uccisi? La responsabilità che deriva dall’assunzione di una scelta che si
ritiene possa avere effetti di straordinaria rilevanza ed effetto, nella
consapevolezza che questi effetti colpiranno interessi di persone che faranno
di tutto per evitare che quella scelta produca i risultati attesi. Nessuno
glielo aveva chiesto e molti avevano cercato di fargli cambiare idea.
Io non fui
tra quelli, perché sapevo che la cosa non riguardava me, ma soltanto lui. Noi
ormai eravamo diventati adulti: mio fratello Filippo, di quasi sei anni più
grande di me, avviato alla carriera di medico universitario, aveva messo su
famiglia con due figli, io lavoravo da anni in una radio privata e non davo
alcun problema particolare. Mia madre aveva scelto di seguirlo.
Tutto ciò
non ha reso più sopportabile il dolore, forse ha mitigato il senso di colpa che
mi ha colpito, perché non potevo prevedere che sarebbe successo quando ancora
avremmo potuto condividere e dirci tante cose. Non abbiamo avuto più
l’opportunità di farlo, perché mio padre è stato ucciso quando non aveva ancora
compiuto 55 anni.
Una trentina
d’anni dopo, ragionando sul movimento contadino in Sicilia, mio padre scrive
I risultati
sono calcolabili dal punta e sociale e politico. Credo che si possano fare
molte considerazioni, se guardiamo all’insieme del movimento e ai risultati che
si sono raggiunti.
Il primo risultato
è che, dopo la Liberazione, negli dal ’44 in poi, in Sicilia e in tutto il
Mezzogiorno, per la prima volta furono costruite organizzazioni di classe nelle
campagne con una struttura unitaria e collegate con il movimento nazionale; e
questa è la grande portata della costruzione della Confederterra nel sud …
Possiamo dire che il PCI in Sicilia è figlio, in larga misura, di quel grande
movimento; in decine di comuni della Sicilia noi non esistevano prima. Siamo
diventati partito di massa nel fuoco di quel combattimento: decine e decine di
quadri, la maggior parte ragazzi, giovani studenti e anche qualche
intellettuale più maturo, professionisti, operai, ragazze che venivano mandate
avanti a dirigere; io ricordo il vice segretario regionale del Pci, nel periodo
’47 e ’48, il compagno Mazzetti, un militante bolognese del periodo clandestino
che era stato mandato in Sicilia per aiutare Li Causi nella formazione di
quadri. Il suo ufficio sembrava un ufficio matricole, perché convocava
ragazzotti di diciotto, venti anni e gli dava il gallone di ufficiale e li
mandava a fare i dirigenti di un’organizzazione di partito, sindacale o
cooperativa, perché si trattava di costruire ex novo tutto questo e lui puntava
moltissimo su questi ragazzi.
Nel suo
ragionamento non mancano le note di autocritica, quando sottolinea
Cominciamo
con il valutare lo schieramento delle forze sociali che noi mettevamo in campo
all’ora. La nostra strategia si rivolgeva al bracciante e al contadino povero,
ai senza terra, e lasciava fuori la massa importante dei coltivatori diretti,
quelli che già la terra la possedevano, i piccoli proprietari, i grossi
fittavoli, cioè lo strato più ricco di capacità imprenditoriali
dell’agricoltura siciliana e meridionale.
C’era qui,
una manifestazione di estremismo, di settarismo, presente in quel periodo nel
nostro movimento.
Restò,
questa, la sua più grande preoccupazione. Ovvero che, anche il più giusto dei
movimenti, restando chiuso all’interno delle sue rivendicazioni, non riuscisse
a cogliere la necessità di aprirsi e comprendere quelle di altri che potevano
contribuire a raggiungere obiettivi di interesse più generale. In questo
atteggiamento, di cui anch’egli era stato vittima agli inizi, intuiva i rischi
derivanti dalle scelte minoritarie e i pericoli dell’irrilevanza dell’azione
politica.
Nel ’51,
uscito dal carcere e riabbracciata la famiglia, papà riprese da dove era stato
interrotto.
Dopo poco
chiese al partito di potersi impegnare nel sindacato, convinto che bisognasse
liberare il movimento sindacale da vizi di corporativismo e burocratismo.
Nel ’52,
viene eletto segretario della Camera confederale del lavoro e promuove e
organizza una massiccia raccolta di firme di adesione alla campagna universale
a favore dell’appello di Stoccolma, lanciata dal movimento internazionale per
la pace, che chiedeva la messa al bando delle armi atomiche. Il suo impegno
pacifista che lo vide tra i protagonisti del movimento europeo contro
l’installazione delle testate nucleari del patto di Varsavia e della Nato, in
particolare a Comiso, in provincia di Ragusa, una volta tornato in Sicilia nel
1981, aveva radici lontani ed era coerente con la sua visione della politica.
Dopo pochi
mesi, fu candidato ed eletto al Consiglio comunale di Palermo, dove resterà
fino al 1966. Lì condusse le sue battaglie contro l’intreccio di potere
politico-mafioso che aveva messo le mani sulla città. Erano gli anni della
speculazione edilizia, del sacco di Palermo, che ha segnato malamente il volto
della città. I suoi interventi al Consiglio comunale aiutano a capire quello
che successe e quello che sarebbe successo, chi favorì e chi si oppose a quel
grumo di interessi politici e criminali che faceva esplodere le ville liberty
su viale della Libertà per costruire, al loro posto, moderne palazzine, si
accaparrava gli appalti pubblici, razziava le imprese private, esercitava un
controllo pervasivo del territorio e riuniva i suoi vertici negli alberghi di
lusso della città. In quegli anni, la sua formazione politica si svolse sui
banchi di scuola del partito e del sindacato. Frequentò i corsi della scuola
del PCI a Frattocchie, vicino Roma. Per inciso, mia madre frequentò quella per
le donne comuniste sul lago di Como. L’impegno nel sindacato divenne prevalente
con l’elezione a segretario della Camera del Lavoro di Palermo e si concluse,
all’inizio degli anni ’60, con quella a segretario regionale della CGIL.
Animatore di
iniziative popolari e di massa, efficace oratore e dirigente dalle riconosciute
doti di organizzatore, promotore del radicamento del partito in città –
attraverso un costante dialogo, fatto anche di vendita de l’Unità porta a porta
– mio padre viveva la politica non solo con grande passione ma forte
identificazione. Il partito, ripeteva, era la sua seconda famiglia che lo aveva
accolto, quando aveva dovuto lasciare la casa paterna. Aveva indirizzato la sua
voglia di impegnarsi nelle lotte per il riscatto della sua terra dallo
sfruttamento e dall’oppressione. Aveva intuito e valorizzato le sue doti,
dandogli gli strumenti che gli avrebbero consentito, in breve tempo, di
diventare un dirigente politico. Certo, come accade in tutte le famiglie degne
di questo nome, ci sono stati i momenti buoni e quelli meno buoni. Una volta,
ridendo, mi raccontò di un dialogo ironico e scherzoso, tra lui e un suo
collega deputato repubblicano, che rammento, pressappoco, così: “Vedi, invidio
voi repubblicani, siete fortunati di appartenere a un piccolo partito, con
pochi iscritti, perché in un grande partito di massa, ci puoi trovare una gran
massa di stronzi.”
carabinieri
e polizia che mi stavano cercando. Corsi verso mio padre che mi accolse
sollevandomi e abbracciandomi, insieme a mia madre, mi disse che avevo fatto
una cosa pericolosa e che non era servita a nulla, se non a far prendere un
grosso spavento a tutti quanti, facendomi promettere che non l’avrei mai più
fatto. Per poi concludere, ridendo, che non era stata una grande idea, quella
di rivolgermi al fruttivendolo.
Negli anni
’50, dai banchi del consiglio comunale denunciava il malgoverno e le malefatte
della giunta che amministrava Palermo, composta da democristiani, monarchici e
liberarli, con l’appoggio esterno del Movimento sociale e metteva in luce il
ruolo esercitato dal presidente della regione Restivo che rimase al governo
della Sicilia, ininterrottamente, per sette anni, dal ’48 al ’55, dandovi
un’impronta conservatrice e reazionaria.
Mio padre lo
descrive così:
Restivo era
un <>. Egli amava apparire un politico giolittiano.
Io penso che egli, personalmente, non fosse un profittatore, anzi, da abile
politico sapeva che questo gli doveva essere negato. Era un uomo politico
accorto e avveduto ma al servizio di un disegno pesantemente conservatore che
si esaurì con i governi da lui presieduti. Egli risorge molti anni dopo in una
funzione diversa, a livello nazionale, come ministro dell’interno. Ma anche qui
permangono ombre spaventose sulla sua figura: da come si atteggiò per Piazza
Fontana sino ai fatti di Reggio Calabria. Credo che la sua morte abbia impedito
che si facesse piena luce.
All’inizio
degli anni ’50, il Pci palermitano organizzò i congressi popolari che dovevano
definire un programma di rinascita e lo schieramento di classi sociali capace
di portarlo avanti. Il Corriere della Sera gli dedicò un articolo di fondo dal
titolo Comunisti a Palermo. Dai congressi venne la proposta di legge per
il risanamento del centro storico di Palermo.
Alla metà
degli anni ’50, Pio La Torre, da segretario della Camera del Lavoro di Palermo,
assiste al grande esodo delle masse povere siciliane che emigravano al nord del
paese o, ancor più lontano, all’estero e allo svuotamento di intere zone della
Sicilia e si batté contro le scelte degli investimenti degli investimenti e lo
sviluppo del settore petrolchimico. Scelte politiche che considerava sbagliate,
calate dall’alto e rispondenti a interessi e logiche lontane da quelle che
avrebbero favorito uno sviluppo sostenibile, alle quali opponeva la
valorizzazione delle risorse agricole, industriali e turistiche delle varie
zone, il contrario di quanto accadeva con spreco di denaro e l’impossibilità di
realizzare piena occupazione. Tra le siciliane, costrette a emigrare per
costruirsi un futuro migliore, c’era sua sorella Felicia.
Così riflette
mio padre
Da un lato
l’esodo in maniera biblica, spaventosa, dall’altro la necessità di dare
contropartite a masse a cui non si dava un’occupazione seria, un lavoro serio,
una prospettiva seria, e quindi lo Stato assistenziale, come si dice.
Furono anni
di grandi cambiamenti per il nostro paese che cambiava aspetto, si toglieva gli
abiti lisi del contadino, per indossare le tute sporche dell’operaio. Anni
difficili, che anche il Pci non seppe interpretare a pieno. Riflettendo su
quegli anni, mio padre mette a fuoco i problemi del suo partito.
Non c’è
dubbio che abbiamo mostrato limiti, intanto sul piano nazionale. Siamo arrivati
nel ’55 alla sconfitta alla Fiat, e solo in quel momento ci siamo resi conto
della gravità del nostro arretramento nelle grandi fabbriche che erano state
protagoniste della guerra di Liberazione. Noi ci ponemmo allora il problema di
analizzare la realtà del capitalismo italiano e prendere atto di come fosse in
svolgimento il , mentre noi avevamo continuato a parlare di
stagnazione. Insomma facevamo un’analisi un po’ manichea e stereotipata che non
era più valida nel ’55 perché eravamo entrati in una fase nuova.
Nel 1962
aveva concluso la sua carriera nel sindacato, dove ricopriva la carica di
segretario regionale della Cgil, per ritornare al lavoro di partito e assumere
la responsabilità di segretario del PCI siciliano, carica che mantenne sino al
1967. Candidato all’Assemblea Regionale Siciliana alle elezioni del 1963, viene
eletto e resta in carica per due legislature. Lì porta la sua battaglia per il
rilancio e il rafforzamento dell’autonomia siciliana. Un’autonomia tradita per
mancanza di visione e per una gestione, a suo dire, sciagurata da parte della
classe dirigente democristiana, innanzitutto, e dei suoi alleati al governo
della regione. Una visione dello sviluppo subalterna al modello nazionale, che
sacrifica le straordinarie risorse agricole e il significativo patrimonio
culturale sull’altare di un’industrializzazione poco sostenibile dal punto di
vista economico, sociale e ambientale. Una gestione inefficiente e basata su
interessi clientelari, mirata a procacciare consensi elettorali.
Nel 1968
papà e mamma mi portarono con loro in Polonia. Conservo pochi ricordi nitidi di
quel viaggio, ma sufficienti a far riemergere le emozioni di quei giorni. Il
programma comprendeva le visite di Varsavia e Cracovia e un soggiorno di un
paio di settimane a Zakopane, località turistica sulle alpi Tatra.
Ricordo gli stabilimenti di Nova Huta Lenina e una discesa sul fiume Vistola
dal sapore avventuroso. Era prevista la visita del campo di sterminio nazista
di Auschwitz, dove andammo in pullman una mattina. Attraversato il cancello
d’ingresso al campo, reso celebre dalla tragica scritta che lo sovrasta Arbeit
macht frei/Il lavoro rende liberi, una delle immagini più note di uno dei
periodi più oscuri della storia dell’uomo, risultato della sua follia omicida,
sostammo in una grande sala del blocco principale. Lungo le pareti c’erano
alcune bacheche di vetro dove, ricordo, erano esposti alcuni oggetti che
testimoniavano cosa quella follia era stata in grado, non solo di immaginare,
ma di realizzare. I responsabili del campo/museo parlarono, brevemente, con mio
padre e mia madre e loro, raggiungendomi mentre stavo fissando una di quelle
bacheche, mi dissero che sarebbe stato meglio per me se fossi restato
all’ingresso ad aspettarli.
Anche se hai
dodici anni – mi
dissero con aria effettivamente dispiaciuta – ci è stato raccomandato di non
farti fare la visita del campo, non sei ancora abbastanza grande per
sopportarne la visione. La loro visita duro meno di quella degli altri e
quando li rividi mi dissero che, in effetti, era stato meglio che fossi rimasto
lì. Anche se nell’attesa non me ne ero fatto una ragione, capii, dal loro tono,
che non cercavano di consolarmi. Infatti, mi raccontarono qualcosa di quello
che avevano visto e delle emozioni suscitate e io reagii incredulo e disgustato
a quei pochi frammenti, riconoscendo che la scelta fatta era quella giusta.
Tornati a Zakopane, dopo qualche giorno l’Unione Sovietica invase la
Cecoslovacchia e improvvisamente le delegazioni straniere ebbero grandi
difficoltà a comunicare con l’esterno e non arrivarono più i giornali
stranieri, disponibili sino al giorno prima. Tutti volevano saperne di più
degli scarni comunicati ufficiali e delle poche notizie fornite dai funzionari
comunisti polacchi che ci accompagnavano. Mio padre tentava, in continuazione,
senza successo, di parlare con i dirigenti del suo partito a Roma. Voleva
saperne di più e capire come doveva comportarsi con le altre delegazioni e gli
alti dirigenti che si trovavano a Zakopane. Questa condizione di isolamento lo
metteva disagio. Ricordo che era molto nervoso e trascorreva la maggior parte
del suo tempo a discutere e consultarsi con gli altri capi delegazione. Non lo
avevo mai sentito parlare in francese o tedesco, come accadde in
quell’occasione. Aveva chiesto di rientrare in Italia ma incontrava difficoltà,
spiegabili in quel momento, solo dalla volontà dei nostri ospiti di rinviare il
più possibile il suo ritorno. Immagino fossero in corso colloqui tra il PCUS
e gli altri partiti comunisti e, fintanto che questi erano in corso e non
era chiaro se fosse stata presa una posizione comune a sostegno dell’invasione,
tutto restava immobile. Ovviamente, mio padre ignorava che il PCI, dopo aver
seguito con interesse la Primavera di Praga e le scelte del segretario del
partito cecoslovacco Dubcek, avesse assunto una posizione di condanna
dell’invasione sovietica e che questa scelta avesse contribuito all’isolamento
cui era stato costretto in quei giorni.
Finalmente,
dopo un paio di giorni, mio padre riprese a comunicare liberamente con l’Italia
e apprese della decisione del partito. Subito dopo i compagni polacchi gli
dissero che saremmo potuti tornare in Italia. Quel viaggio non lasciò in lui un
bel ricordo.
Nonostante
l’opinione dei servizi segreti italiani che lo aveva ritenuto degno
d’attenzione per molti anni – dagli atti del processo sul suo omicidio è emerso
che era stato sotto osservazione sino a pochi giorni prima della sua morte –
mio padre non era un uomo di Mosca. Avevo assistito alle sue conversazioni con
il Davide Fais, una vecchia conoscenza, figlio di mamma Fais, vecchia amica di
nonno Zacco e le nostre famiglie erano molto legate. Fais era docente
all’Università di Mosca, dove viveva e aveva messo su famiglia. Quando si
incontravano a Palermo, dove tornava a far visita alla madre, alle sorelle e ai
fratelli, mio padre, curioso di sapere, lo riempiva di domande sull’URSS, il
PCUS, Mosca, l’Università, la vita quotidiana nel paese del socialismo reale e
Fais non trascurava nei suoi racconti i riferimenti ai limiti, alle
manchevolezze, alle contraddizioni del sistema e della società di quel paese.
Mio padre ascoltava, poneva domande più specifiche, avanzava dubbi, chiedeva
chiarimenti e offriva punti di vista differenti che portavano a conclusioni
diverse. Fais ribadiva, argomentando ulteriormente, la correttezza delle sue
affermazioni. Gran belle discussioni, che li vedeva entrambi appassionarsi,
condividere analisi e rispettare le differenze d’opinione. Più il tempo
passava, più Fais andava maturando il proposito di tornare in Italia, perché
non riusciva più a ritrovare le ragioni che lo avevano portato in Unione Sovietica.
Finché non venne il giorno in cui prese la decisione di rientrare a Palermo e
mio padre sostenne questa sua scelta.
Nel 1968 era
scoppiata la contestazione studentesca e Filippo frequentava l’ultima classe
del liceo classico Garibaldi. La sua scuola era tra le protagoniste del
movimento degli studenti palermitani e lui era tra i leader della protesta
giovanile. Mi ricordo di una sera d‘autunno, davanti al cancello di casa,
ascoltavo mio fratello che discuteva con Giorgio ed Emilio Colajanni, figli di
Pompeo, dell’occupazione del suo liceo. A un certo punto arrivò mio padre, che
rientrava dal lavoro, e si fermò ad ascoltare i ragionamenti quei tre giovani
rivoluzionari. Appena ebbe capito come stessero le cose, espresse le sue
perplessità sulla scelta di occupare la scuola. Domandò a mio fratello e ai
giovani Colajanni quale fosse l’obiettivo che volevano raggiungere, cosa
pensassero di poter ottenere con l’occupazione, una forma estrema di lotta.
Loro rispondevano che così stavano facendo gli studenti in tutta Italia e
a Palermo non potevano essere da meno. Mio padre gli disse che non considerava
una ragione valida quella di agire per imitazione e non sulla base di un
ragionamento politico sull’obiettivo e sulle forme di lotta per conseguirlo. I
toni si alzarono e i ragazzi non vollero sentire ragioni, rivendicando
l’autonomia delle loro scelte. Allora mio padre, visibilmente contrariato, li
mandò a quel paese ed entrò in casa.
L’estate
successiva, superati gli esami, io di licenza media, mio fratello di licenza
liceale, venne il momento di trasferirci a Roma. Già da alcuni mesi, mio
padre lavorava alle Botteghe Oscure, la sede centrale del PCI, che prendeva il
nome dall’omonima via al centro di Roma. Mia madre aveva preferito che
terminassimo l’anno scolastico, prima di effettuare il trasloco.
Quell’anno,
mio padre non aveva chiesto di partecipare al programma di scambio tra
delegazioni. Mia madre aveva insistito perché, dopo essere stati insieme
in URSS, Yugoslavia, Romania, Polonia, avrebbe voluto fare una vacanza al mare
in Italia. Così trascorsi con loro due settimane a Panarea. Mio fratello c’era
stato con gli amici e ce l’aveva raccomandata. Stavamo in due camere in
famiglia e l’ultimo giorno, giunto il momento di pagare, a mio padre mancavano
10.000 lire per saldare il conto, se non ricordo male, di 45.000 lire. Per
fortuna l’affittacamere aveva fiducia il lui e gli fece credito. Prima di
rientrare a Roma, ci fermammo a Napoli. Papà voleva approfittarne per fermarsi
a fare due chiacchiere con Cacciapuoti, autorevole dirigente meridionale del
partito.
Due anni
prima, l’11 giugno del 1967, si erano tenute le elezioni regionali e il PCI
aveva perso il 2,8%. A seguito di questa sconfitta, non so se oggi sarebbe
considerata tale, mio padre lasciò la carica di segretario del partito e, come
si diceva un tempo, fu chiamato dalla direzione del partito a incarichi
nazionali: vice di Gerardo Chiaromonte nella Commissione Meridionale.
Nel 1969
viene chiamato a Roma dal partito alla Direzione centrale del PCI dove
ricoprirà gli incarichi di responsabile della Sezione agraria e poi di quella
Sezione Meridionale.
Nel 1972
viene eletto al Parlamento dove resterà per tre legislature, facendo parte
delle Commissioni Bilancio e programmazione Agricoltura e Foreste, della
commissione parlamentare per l’esercizio dei poteri di controllo sulla
programmazione e sull’attuazione degli interventi ordinari e straordinari nel
Mezzogiorno ma soprattutto della commissione Antimafia.
La lotta
alla mafia
Appena
eletto in parlamento, nel maggio del 1972, entra a far parte della Commissione
parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. La commissione
era stata istituita nel 1962, durante la prima guerra di mafia e pubblicò il
suo rapporto finale nel 1976. La Torre, insieme al giudice Cesare Terranova,
redasse, e sottoscrisse come primo firmatario, la relazione di minoranza che
metteva in luce i legami tra la mafia e importanti uomini politici, in
particolare della Democrazia Cristiana. Alla relazione aggiunge la proposta di
legge “Disposizioni contro la mafia” tesa a integrare la legge 575/1965 e a
introdurre un nuovo articolo nel codice penale: il 416 bis.
Una proposta che segna una svolta radicale nella lotta contro la criminalità mafiosa. Fino ad allora, infatti, l’appartenenza alla mafia non era riconosciuta come passibile di condanna penale. La proposta di legge La Torre prevedeva l’introduzione nel diritto penale di un nuovo articolo, il 416 bis, che introduce il reato di associazione mafiosa punibile con una pena da tre a sei anni per i membri, pena che saliva da quattro a dieci nel caso di gruppo armato. Stabiliva la decadenza per gli arrestati della possibilità di ricoprire incarichi civili e soprattutto l’obbligatoria confisca dei beni direttamente riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati.
Una proposta che segna una svolta radicale nella lotta contro la criminalità mafiosa. Fino ad allora, infatti, l’appartenenza alla mafia non era riconosciuta come passibile di condanna penale. La proposta di legge La Torre prevedeva l’introduzione nel diritto penale di un nuovo articolo, il 416 bis, che introduce il reato di associazione mafiosa punibile con una pena da tre a sei anni per i membri, pena che saliva da quattro a dieci nel caso di gruppo armato. Stabiliva la decadenza per gli arrestati della possibilità di ricoprire incarichi civili e soprattutto l’obbligatoria confisca dei beni direttamente riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati.
Pio La Torre
ha una grande conoscenza del fenomeno mafioso e del suo sistema di potere. È
conscio delle sue trasformazioni, dalla mafia agricola e del latifondo,
combattuta negli anni dell’adolescenza, alla mafia urbana e dell’edilizia che,
grazie ad appalti pilotati, perpetrò, grazie alle connivenze con le dirigenze
politiche locali, il cosiddetto “Sacco di Palermo”, fino alla mafia imprenditrice
dedita al traffico internazionale di droga con agganci nell’alta finanza.
Non ha paura
di fare chiaramente i nomi e i cognomi dei conniventi politici, famosi i suoi
giudizi su Vito Ciancimino, assessore ai lavori pubblici del comune di Palermo
dal 1959 al 1964 e poi sindaco del capoluogo siciliano fino al 1975. Dalla sua
analisi del rapporto tra il sistema di potere mafioso e pezzi dello Stato
emerge la sua convinzione che “[la] compenetrazione è avvenuta storicamente
come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le
parti (mafia e potere politico)…La mafia è quindi un fenomeno di classi
dirigenti”.
Nel 1981 Pio
La Torre decide di tornare in Sicilia, in un momento storico in cui la
strategia mafiosa di intimidazione dei rappresentanti più impegnati nell’azione
di contrasto da parte dello Stato contro la mafia, era al massimo fulgore.
Negli anni precedenti erano stati uccisi illustri rappresentanti dello stato
come il giudice Cesare Terranova (il 25 settembre 1979), il procuratore della
repubblica Gaetano Costa (6 agosto 1980) e il Presidente della Regione
Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980). Proprio lui decide di assumere
l’incarico di segretario regionale del PCI, carica che assume nell’autunno del
1981, sostituendo Gianni Parisi.
Immediatamente,
al ritorno in Sicilia, intraprende la sua ultima battaglia, quella contro
l’istallazione dei missili nato nella base militare di Comiso.
Il governo
italiano aveva annunciato il 7 agosto del 1981 l’accordo con la Nato per
l’installazione degli euromissili nucleari Cruise nella base militare di Comiso
in provincia di Ragusa. Siamo in piena guerra fredda. La Torre dà forza e
organizzazione ad un movimento crescente di protesta contro l’istallazione
vista come minaccia alla sicurezza, non solo siciliana, e non come possibile
fonte di ritorno economico. Il clima di tensione tra gli Stati Uniti e la
Russia comportava l’adozione di un atteggiamento prudente e di trattativa che,
non per questo, rendeva meno convinte le richieste da parte dei protestanti.
Furono mesi, a cavallo tra il 1981 e il 1982, durante i quali il movimento
pacifista internazionale dispiegò una capacità d’iniziativa straordinaria, che
è restata unico per la sua vastità, magnitudine ed efficacia degli strumenti di
lotta adottati.
La prima
grande manifestazione si tiene l’11 ottobre 1981, a Comiso, con un gran numero
di partecipanti, provenienti, in marcia, da Palermo. La manifestazione di
Palermo era stata preceduta da quella di Bonn, alla quale partecipano 300.000
persone e seguita il 17 ottobre dalla Marcia per la pace a Torino con oltre
50.000 partecipanti. La mobilitazione continua il 24 ottobre quando a Roma si
svolge la prima grande manifestazione nazionale, cui partecipano 300.000
persone. Sempre il 24 ottobre si tengono manifestazioni pacifiste oceaniche a
Londra ed Helsinki. Il 25 ottobre la manifestazione per la pace a Milano con
100.000 partecipanti. Nella stessa giornata si scende in piazza ad Oslo
(Norvegia), Bruxelles e Parigi. Il 28 ottobre due manifestazioni di massa si
tengono in Veneto: la prima, a Venezia, vede scendere in piazza 50.000 persone;
oltre 20.000 i partecipanti alla marcia organizzata a Vicenza. Il 15 novembre
nuove manifestazioni pacifiste in Europa: 300.000 manifestanti a Madrid,
500.000 ad Atene. Il 21 novembre, ad Amsterdam, 400.000 persone manifestano
contro l’installazione degli euromissili. A Messina, oltre 5.000 studenti
scendono in piazza contro i Cruise a Comiso. Il 28 novembre la manifestazione
nazionale per la pace e per la “sospensione della costruzione della base di
Comiso”, organizzata da CGIL-CISL e UIL a Firenze. Vi partecipano oltre 150.000
persone. Critica l’adesione dei partiti della sinistra e dei comitati per la
pace, che rimproverano ai sindacati una “posizione troppo subalterna all’esito
delle trattative di Ginevra”. Il 29 novembre a Palermo si tiene una
manifestazione regionale per la pace, indetta da CGIL-CISL-UIL, PCI, PDUP, ACLI
e alcuni Comitati per la pace della Sicilia. Vi partecipano oltre 50.000
manifestanti. Il 5 dicembre grandi manifestazioni antinucleari si tengono ad
Atene (40.000 persone), Berna (30.000), Copenaghen (65.000). Il 6 dicembre
centomila manifestanti invadono la città di Barcellona, per protestare contro
le nuove armi nucleari in Europa. A Bruxelles si tiene un Congresso
internazionale ‘contro l’armamento nucleare’ a cui intervengono le maggiori
organizzazioni pacifiste europee. Un gruppo di lavoro è dedicato all’
‘Opposizione locale alle armi nucleari: l’esempio di Comiso’. Il 9 dicembre
1981, il sindaco di Mistretta, Messina, Vincenzo Antoci (PCI), si rifiuta di
collaborare con gli ufficiali delle forze armate nella notifica dei decreti ai
proprietari terrieri per i sopralluoghi dei militari nell’area dove sono
previsti gli espropri per la realizzazione del megapoligono di tiro sui
Nebrodi. Il 10 gennaio 1982 si riunisce a Comiso l’Assemblea Siciliana dei
Comitati per la pace e il disarmo a cui partecipano delegati di oltre un
centinaio di realtà organizzate dell’isola. Date le divergenze politiche e
strategiche tra le differenti anime del movimento, si giunge solo
all’approvazione di un documento che afferma con genericità “l’impegno perché
l’inizio dei lavori non avvenga”, pur ribadendo come “Comiso rappresenti lo
snodo strategico del riarmo e della Pace”. Il 6-7 marzo si tiene nei locali del
Teatro Comunale di Comiso l’Assise nazionale dei Comitati per la pace sorti
alla vigilia della manifestazione di Roma del 24 ottobre ‘81. Il 13 marzo a
Livorno si tiene una manifestazione nazionale antimilitarista anarchica alla
quale partecipano 3.000 persone. Il 26 marzo viene assegnato l’appalto per
l’abbattimento delle vecchie strutture dell’aeroporto ‘Magliocco’ di Comiso.
L’impresa assegnataria è l’ICI, un consorzio locale che riceverà 825 milioni di
lire. Il 2 aprile giungono a Comiso i primi tecnici della ‘General Dinamics’,
impresa costruttrice dei missili Cruise. Il 3 aprile 1982 il consiglio comunale
di Vittoria (Ragusa), riunitosi in seduta straordinaria, dichiara il territorio
‘Zona denuclearizzata’ come gesto di rifiuto di tutti i missili nucleari. E’ il
primo comune siciliano a dichiarare la denuclearizzazione del territorio, uno
dei primi in tutta Italia. Nei 3 anni successivi saranno dichiarati nell’isola
“zona denuclearizzata” i comuni di Caronia (Me), Castelbuono (Pa), Castel di
Lucio (Me), Fiumefreddo, Isnello (Pa), Lentini (Sr), Mistretta (Me), Monreale
(Pa), Ramacca (Ct), Sambuca di Sicilia (Ag), San Cipirello (Pa), Santa Teresa
di Riva (Me), Sciacca (Tp), Scordia (Ct), e l’intera provincia di Messina. Il 4
aprile nuova manifestazione regionale per la pace a Comiso a cui partecipano
oltre 80.000 manifestanti. La marcia si conclude con il concerto del gruppo
cileno ‘Inti Illimani’. Il 6 aprile 1982 una delegazione pacifista
internazionale effettua un sit-in silenzioso di fronte l’aeroporto ‘Magliocco’
di Comiso contro il ventilato inizio dei lavori di realizzazione della base. Vi
partecipano, tra gli altri, Giacomo Cagnes del Cudip, il parlamentare dei
‘Grunen’ tedeschi Roland Vogt, Janne Kuik dell’IKV olandese, Michael Friese
dell’END britannico e Alberto L’Abate del Movimento Nonviolento. L’8 aprile
iniziano i lavori di demolizione dei vecchi edifici dell’aeroporto ‘Magliocco’.
Il 16 aprile
1982, La Torre lancia dal Circolo della Stampa di Palermo una petizione –
nell’ambito di un convegno, cui parteciparono esponenti di ogni
orientamento politico, culturale e religioso – indirizzata al Governo italiano
per la “sospensione dei lavori della base di Comiso”. L’obiettivo era
raccogliere un milione di firme: la richiesta degli organizzatori è che non “si
dia inizio ai lavori di costruzione della base di Comiso quale contributo
italiano al buon esito della trattativa di Ginevra”.
Il successo
della protesta fu enorme e la raccolta di firme straordinaria. Lo stesso La
Torre spiegò, in un articolo pubblicato postumo su “Rinascita” del 14 maggio
1982, che le ragioni dell’opposizione ai missili era basata sulla assoluta
contrarietà alla “trasformazione della Sicilia in un avamposto di guerra in un
mare Mediterraneo già profondamente segnato da pericolose tensioni e conflitti.
Noi dobbiamo rifiutare questo destino e contrapporvi l’obiettivo di fare del
Mediterraneo un mare di pace”.
I suoi
propositi furono bruscamente interrotti una mattina di aprile del 1982.
Il 30 aprile
del 1982, alle nove del mattino Pio La Torre, insieme a Rosario Di Salvo, sta
raggiungendo in auto, una Fiat 132, la sede del partito. In via Turba, di
fronte la caserma Sole, si affiancano alla macchina due moto di grossa
cilindrata: alcuni uomini mascherati con il casco e armati di pistole e
mitragliette sparano decine di colpi contro i due. La Torre muore all’istante
mentre Di Salvo ha il tempo di estrarre la pistola e sparare alcuni colpi in un
estremo tentativo di difesa. Rosario Di Salvo non l’ho mai incontrato, ma ho
potuto conoscerlo attraverso sua moglie Rosa e sua figlia Tiziana.
Il 12
gennaio 2007la Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha emesso l’ultima di una
serie di sentenze che ha portato a individuare in Giuseppe Lucchese, Nino
Madonna, Salvatore Cucuzza, e Pino Greco, gli autori materiali dell’omicidio.
Dalle rivelazioni di Cucuzza, diventato collaboratore di giustizia, è stato
possibile ricostruire il quadro dei mandanti dell’eccidio, identificati nei
boss Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca e
Antonino Geraci.
Il quadro
delle sentenze ha permesso di individuare nell’impegno antimafia di Pio La
Torre la causa determinante della condanna a morte inflitta dalla mafia del
politico siciliano.
Quattro anni
dopo la sua uccisione, nel maggio del 1986, nasce, ad Alcamo, su iniziativa di
Ino Vizzini, deputato regionale, il Centro di studi ed iniziative culturali
“Pio La Torre”. Missione del Centro è quella di valorizzare il patrimonio
ideale e politico segnato dalla vita e dall’opera di Pio La Torre realizzando e
promuovendo studi, iniziative e ricerche originali riguardanti aspetti e
problemi della Sicilia contemporanea. Perché, come ha sottolineato il primo
Presidente del Centro, l’ing. Francesco Artale, nel suo discorso
d’inaugurazione del Centro: “il patrimonio lasciato da Pio La Torre […]
appartiene a tutti i lavoratori, alla gente onesta, a tutti quelli che lottano
e operano contro la mafia e contro lo sfruttamento, a tutti quelli che lavorano
per una Sicilia libera e produttiva e per un mondo senza missili e senza
guerre”.
Nel 2012, in
occasione del trentesimo anniversario dell’omicidio, la Camera dei Deputati lo
ha ricordato, solennemente, in Aula e in occasione di una giornata di
riflessione e dibattito sulla sua eredità politica, durante la quale, il
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha insignito lui e Rosario Di
Salvo della Medaglia d’Oro al Valore Civile. Lo stesso anno, anche l’Assemblea
Regionale Siciliana gli ha dedicato una cerimonia pubblica.
Tratto dal Forum Legalità del Pd di Firenze
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