La lunga marcia dal Bosforo al
vecchio continente di un rifugiato politico in Italia. Le piste del
narcotraffico. I trattamenti dei servizi segreti dell’Est. Le tratte di esseri
umani. Le disillusioni della «terra promessa»
È una storia
emblematica quella di Gabriel M. di Istanbul, 37 anni, sposato e residente in
Italia, dove dopo il 2000 ha
ottenuto dallo Stato il riconoscimento di rifugiato politico.
Condannato perché
simpatizzante di una organizzazione di estrema sinistra, il Dhkp-C, da cui si è
dissociato con molta convinzione, Gabriel si è dato alla fuga nel 1997, quando
aveva 22 anni. Per sopravvivere, ha dovuto imparare numerosi mestieri, talvolta
difficili e, come vedremo, qualcuno ad altissimo rischio. Parla quattro lingue
e ha una buona conoscenza della geopolitica, soprattutto quella asiatica e
mediterranea, anche per averla conosciuta e subita di persona, passo dopo passo.
Egli ha percorso, seppure in parte minima, quella che medioevo era stata
chiamata la Via della Seta e che oggi è diventata, tra l’altro, la via
dell’eroina e dei mercanti di schiavi. Lungo queste piste Gabriel, intrecciando
la sua storia con quella di tantissimi altri in fuga come lui, ha subito la segregazione,
nelle carceri e nei campi per immigrati, ha dormito all’addiaccio, nelle
stazioni e in case diroccate, ha attraversato foreste, anche a piedi. Ha dovuto
lavorare per funzionari dei servizi segreti bulgari, dell’ex KGB. Ha conosciuto,
per forza di cose, trafficanti di ogni specie. Dopo questa esperienza, durata
ben 15 mesi, ha dovuto reimpostare la propria vita, con molte difficoltà. Da
allora non ha potuto più ritornare nel suo paese, neppure quando gli è morto il
padre, appena dieci mesi fa. In questi anni egli ha riflettuto molto sul suo
passato, dalle scelte politiche fatte da ragazzo al mito dell’Occidente ricco e
in grado di garantire un futuro. Adesso, disilluso da tante cose, pensa a un
ritorno possibile.
Gabriel, nel 1997, quando era già avvenuta
l’unione doganale tra la Turchia e i paesi della comunità europea, tu hai deciso
di fuggire dal tuo paese. Perché? Cosa ti convinto a intraprendere un percorso
tanto radicale?
Da tempo ero ricercato
perché avevo rapporti con il Dhkp-C. E quell’anno è avvenuto il peggio. Sono
stato trovato in casa dai poliziotti, sono stato condotto in un luogo segreto,
pestato a sangue e torturato. Mi chiedevano dove nascondevo le armi con cui era
stato ucciso il sindaco di una cittadina curda. In realtà non sapevo nulla e
loro agivano a caso. Era un bluff. Mi hanno fracassato la testa con il calcio
dei fucili, lasciandomi una ferita di quasi dieci centimetri. Ho perso i sensi.
Convinti di avermi ucciso, mi hanno abbandonato in un parco per bambini, dove in
poco tempo ho ripreso conoscenza. Nei giorni successivi, dopo che mi ero
ristabilito, mi sentivo in pericolo, avvertivo che mi cercavano per completare
il lavoro. Ho cominciato allora ad organizzarmi per fuggire dalla Turchia. Mi
sembrava la scelta più opportuna, anche perché numerose persone che conoscevo
in quel periodo erano state assassinate.
Come hai attuato il tuo proposito?
Sono andato alla
ricerca di un passaporto falso e presto l’ho ottenuto, sotto il nome di Ibrahim
Cetkin. Per uscire da Istanbul, dopo alcuni mesi di clandestinità sono riuscito
a imbarcarmi, con questo nome, come mozzo in una nave che faceva la spola tra
Istanbul, la Russia e l’Ucraina. Ma era solo un ripiego, per evitare la cattura.
Il mio intento era di rifugiarmi nell’Europa occidentale, entrando dalla
Bulgaria, come facevano in tanti. Ma come muovermi? Ho dovuto rivolgermi ad una
organizzazione criminale, legata alla mafia turca, che organizzava i traffici
di persone verso la Bulgaria utilizzando furgoni e camion carichi di vestiario.
Ho attraversato il confine nascosto su un furgone Ford Transit carico di
giacche di pelle, molto pesanti. Ho quasi rischiato di rimanere schiacciato.
Così, con 700 dollari in tasca mi sono trovato in Bulgaria. Era il 20 ottobre
1999.
Come ti sei mosso dopo che sei arrivato in
Bulgaria?
Da Plovdiv, dove
sono sceso dal Ford Transit, mi sono recato in treno a Sofia, dove ho preso
contatto con le autorità per richiedere l’asilo. Mi hanno sistemato in un buon
hotel, mi hanno garantito un avvocato, e tutto questo mi faceva sentire al
sicuro. Ho preso contatto allora con un mio compagno di appena 19 anni, Mahir
Goktas, anche lui di Istanbul, perseguitato perché pure lui simpatizzante del Dhkp-C.
Era stato arrestato perché aveva scritto su un muro “No alla guerra”, ed era
stato il detenuto politico più giovane della terra. Per questo intorno al 1995
aveva fatto ricorso alla Corte di Strasburgo dei diritti dell’uomo, aveva
ottenuto una sentenza favorevole, che obbligava lo Stato turco a concedergli un
risarcimento di 20mila euro. Questo ragazzo, di cui ho un bellissimo ricordo,
nel 2006, quando aveva 26 anni, è stato ucciso e buttato in mare, probabilmente
con il nulla osta dei servizi segreti bulgari.
Perché i servizi segreti bulgari hanno agito
in questo modo? Qual era il loro atteggiamento con i reclusi?
Nel caso del mio
amico non saprei, forse Mahir era entrato in qualche giro compromettente. Il
sistema usato nei riguardi dei reclusi era comunque quello del bastone e della
carota. Ho ottenuto l’asilo con il nome di Ibraim Cektin. Ho evitato di dare il
mio vero nome perché in Bulgaria i servizi segreti sono capaci di tutto. Da
alcuni afghani e persiani avevo saputo che essi avevano venduto un rifugiato
dell’Iran al Savama, il servizio segreto iraniano. Ho scoperto inoltre che
operavano come una mafia coperta. Lasciavano passare eroina, si accordavano con
i trafficanti che erano disposti a pagare un pizzo. Ho scoperto che passavano
dalla frontiera turca enormi quantitativi di droga. Nel periodo in cui ero lì i
turchi transitavano solo se pagavano, e il denaro contante veniva nascosto in
sacchi di zucchero.
E nei tuoi riguardi come hanno agito? Mi
dicevi che hai ricevuto un trattamento particolare …
Infatti. Io ho
avuto a che fare con un certo Arabaciyev. Era un uomo poco più che
cinquantenne, aveva studiato a Mosca e, da quel ho capito, aveva avuto un ruolo
non secondario nel KGB. Si trattava formalmente di un alto funzionario di
polizia che si occupava dei rifugiati politici. Nel primo incontro era solo, ma
nel secondo c’erano con lui altri due funzionari, forse di grado superiore. Si
sono presentati con i nome di Ivan e di Gioro, ma ritengo che si trattasse di
nomi falsi. Mi hanno fatto capire che anche loro facevano parte dei servizi
segreti bulgari. Mi hanno detto che non mi avrebbero fatto del male e che
ravvisavano in me una persona perbene, lontana dai traffici di droga. Mi hanno
“chiesto” quindi se intendessi collaborare con loro. Si trattava di una
proposta di tipo ricattatorio. Se avessi rifiutato, avrei pagato chissà quale
prezzo. Ho deciso quindi di accettare.
In cosa consisteva questa collaborazione?
Premetto che
eravamo ospitati in un edificio enorme, di sette-otto piani, situato in un
luogo completamente deserto, in via Montevideo. E dietro questo edificio c’era
un grandissimo dormitorio dove erano stipate due-tre mila persone, afghane,
persiane, macedoni, curde. E il loro problema maggiore era costituito proprio dai
rifugiati curdi. Tra questi si nascondevano infatti gli «esattori» del PKK, che
esigevano il pizzo da tutti: curdi, turchi, afghani e di altri paesi. Erano del
resto i curdi a gestire il traffico di esseri umani per la Grecia, attraverso Komotina,
in Tessalonica. Questa situazione per i servizi segreti bulgari non andava
bene, pure per ragioni di concorrenza, perché anche loro erano parte in causa
nel traffico di esseri umani e dell’eroina. Va tenuto presente che il governo
bulgaro di allora, socialdemocratico e legato al passato regime comunista, si
diceva favorevole alla causa curda, e non poteva rispedire i curdi nel loro
paese, dove sarebbero stati perseguitati. L’obiettivo era allora quello di
controllare la situazione estirpando dalla massa dei rifugiati, i collettori
del PKK. E la loro tecnica era quella dell’infiltrazione. Introducevano due-tre
persone all’interno dei cameroni curdi, facendoli passare come simpatizzanti, e
in questo modo erano in grado di monitorare e di contrastare il racket. Questi
funzionari, in cambio della mia collaborazione, mi hanno assicurato l’asilo
politico, una carta d’identità bulgara e un lavoro.
Come vivevi il ruolo che queste persone ti hanno assegnato?
In fondo denunciavo
malfattori, trafficanti di uomini, ma ti confesso che ero attanagliato da un
forte senso di colpa. Non era la mia causa. Tutto questo non rientrava nei miei
principi. Ho quindi sofferto molto in quei mesi. Ho fatto questo lavoro di
infiltrato tra marzo e il giugno 2000. E ho conosciuto cose terribili.
Naturalmente ho rischiato tantissimo perché se mi avessero scoperto mi
avrebbero ucciso. Nel 2003 ho letto che Guevara, quando è passato dal Guatemala,
ha avuto qualche intrigo con ambienti loschi dei servizi segreti, ma il rimorso
per quanto ho fatto in quei mesi rimane in me vivo.
Come funzionava il racket del PKK, che tu
allora avevi il compito di denunciare?
Si trattava di
un vero e proprio potere che si era ramificato a Sofia e nelle aree geografiche
abitate della minoranza turca, che equivale a circa il 22 per cento della
popolazione complessiva. Ho scoperto che gli uomini del PKK erano in grado di
imporre alle fabbriche tessili, e di altri comparti, fino al il pagamento del
20 per cento dei guadagni. Le autorità bulgare ne erano profondamente
infastidite. Nello specifico dei rifugiati era stato messo in opera un meccanismo
molto ben congegnato. Esistevano circa 50 emissari del partito curdo, e ognuno
di essi aveva il compito di taglieggiare e controllare un gruppo di duecento
persone. Questi funzionari avevano un potere di soggiogamento enorme, incutevano
timore, e non si trattava di un fatto locale, ma di una regola che vigeva in
tutta Europa.
In che senso?
Questi individui
avevano mansioni speciali perché erano stati feriti nelle montagne del
Kurdistan. Quando i combattenti vengono feriti, non vengono congedati ma
inviati «in vacanza» in Europa, per svolgere altri lavori. Diventano allora
«esattori» di pizzo, anche nei riguardi dei trafficanti di eroina, o veri e
propri killer. Tutto questo ho potuto costatarlo, pure di persona. Il PKK non è un quindi il partito che intende
liberare i curdi dalla lunga oppressione turca, ma una organizzazione antidemocratica,
di stampo terroristico e con forti venature mafiose. Solo per questo riuscivo a
vincere il rimorso e a svolgere il compito d’informazione che mi era stato
assegnato con zelo.
Puoi dire di qualche operazione di polizia che
ha preso spunto dal tuo lavoro informativo?
Grazie alle mie
informazioni sono stati disarticolati alcuni traffici importanti di esseri
umani e di eroina, che avevano il loro punto di snodo a Varna, la maggiore
città portuale del paese. I miei committenti volevano informazioni su un boss
che faceva la spola tra questa città e Sofia. Ho fornito loro delle notizie, e
alla fine sono riusciti a espellerlo con il foglio di via per l’Europa.
Perché tutto si è concluso in appena quattro
mesi? Era il senso di colpa che covava, per un lavoro che non ti apparteneva?
Questo c’era,
ovviamente, ma c’era anche altro. I servizi bulgari erano in procinto di
trovarmi un lavoro, ma non mi sentivo al sicuro, non solo a livello economico.
Per loro ero una pedina, uno strumento. Alla prima occasione sarei potuto
diventare merce di scambio, come era accaduto appunto ad altri. Essi mi hanno
mandato in un quartiere bene di Sofia, in montagna, Parcerevo, dove avevo vitto
e alloggio gratuito. Ero ospitato da un giovane turco, Ugur, che curiosamente
si diceva anarchico, proveniente da una famiglia ricchissima, fuggito anche lui,
e ritornato poi in Turchia nel 2004. Ho passato quattro mesi lì, e ho capito
che non intendevano mollarmi. Ho fatto amicizia allora, senza che Arabaciyev e
gli altri sapessero nulla, con un altro ex funzionario del KGB, tale Alexander
Rashev, che fabbricava documenti falsi in cambio di denaro. Mi ha chiesto mille
dollari in cambio di un passaporto che mi avrebbe consentito di entrare
nell’Unione Europea. Ho sborsato questo denaro, e dopo un mese ho avuto il
nuovo passaporto, con un nome bulgaro di etnia turca, e alla fine ce l’ho
fatta.
Cosa è successo dopo?
Sono arrivato a
Budapest in Ungheria. Ho raggiunto poi Bratislava, in Slovacchia. Era il 22
settembre del 2000. Qui ho preso il treno per Vienna, con un gruppo di rom, ma
a Graz si è scoperto che il passaporto era falso e mi sono ritrovato in cella.
Sono stato trattenuto due giorni. La cella era piccola, di appena quattro
metri, ma ben riscaldata e molto igienica. Rispetto alle prigioni turche era
una favola. Sono stato trattato con rispetto. Ho richiesto l’asilo politico, ma
poiché sono stato fermato entro i 25 chilometri dalla frontiera, per effetto
della legge Frontex, sono stato rispedito in Ungheria. Il 25 settembre mi sono
ritrovato quindi in un carcere per stranieri, tipo CPT, a Gyor. La situazione
che ho trovato è indescrivibile. Questo carcere era in mano a una specie di
«legione straniera» di militari dal passato turbolento, per rissa, droga,
alcolismo e altro. Si trattava di gente molto pericolosa e i prigionieri non
erano da meno. Nel mio capannone c’erano individui che avevano alle spalle
omicidi, di cui pure si vantavano. Mi è stato detto che sarei rimasto lì per un
anno e mezzo. Ma al quarantacinquesimo giorno io e un pugno di ragazzi con cui
avevo fraternizzato abbiamo deciso di tentare fuga. Abbiamo convinto alcuni
compagni a simulare una rissa. L’attenzione delle guardie si è spostata verso di
loro, e noi saltando due recinti alti ognuno quattro metri, ce l’abbiamo fatta.
La legge in casi simili consente di sparare, ma quella volta per fortuna non è
accaduto.
Eri ormai sulla strada da mesi. Avevi
vissuto esperienze terribili Come riuscivi a sostenerti? Da dove traevate, tu e
i tuoi compagni, la forza per continuare?
Ci sosteneva la speranza.
In Turchia si dice «La speranza è il pane dei poveri». Io e Sultan, un ragazzo
iracheno, abbiamo fatto a piedi decine di chilometri, abbiamo attraversato
diversi fiumi, foreste pullulanti di cervi e cinghiali. Era tremendo trovarci
in quei posti, ma era anche bellissimo. La Slovenia e l’Austria sono piene di
vigne, da cui vengono tratti vini pregiati. I guai comunque non sono finiti. Ci
siamo trovati in una cittadella slovena, Lendava, e lì siamo stati fermati da
un’auto della polizia. Abbiamo detto loro di essere diretti in Germania. Ci
hanno portati con loro e sistemati in una cella, estremamente pulita, con il
pavimento scaldato. Era occupata da un kosovaro. Ci hanno rifocillati con
formaggio e scatolette di carne. La Slovenia allora premeva per entrare
nell’Unione Europea e prestava molta attenzione alle regole. Era l’8 dicembre
quando siamo entrati nel campo di rifugiati di Lubiana, un enorme edificio di
sei piani, sovraffollato, dove c’era un gran numero di afghani, somali,
sudanesi, alcuni iracheni. Quando siamo arrivati c’era una troupe della
televisione locale, perché era in atto una protesta dei prigionieri. Ai
poliziotti che ci hanno interrogati io e Sultan abbiamo detto, mentendo, che
venivamo dalla Turchia ed eravamo diretti in Germania. Ci hanno creduti.
Eravate già a un passo dall’Europa che
sognavate. Notavate delle differenze?
C’era forse una
maggiore organizzazione. La tratta degli esseri umani era più spedita. Nel
campo eravamo tutti divisi per nazione, e la gestione delle nazionalità era
gestita, d’intesa con i poliziotti sloveni, da trafficanti, che apparivano comunque
meno cinici e spietati di quelli che avevamo conosciuto altrove, in grado di
ucciderti senza pietà. Essi seguivano un copione perfetto. Organizzavano il viaggio
in pullman per destinare i migranti nei paesi dell’Unione Europea, e il punto
di snodo era Nuova Gorizia, città al confine con l’Italia, metà italiana metà
slovena. Pagata la somma pattuita siamo arrivati quindi in questa città, dove
c’era un gran viavai di gente per via del Casinò, frequentato da molti italiani.
Qual è stato il primo impatto con l’Italia?
Tutto sommato
l’impatto è stato positivo. Vado per ordine. A Nuova Gorizia sono stato
intercettato da un trafficante tunisino, Hassan, che aveva bisogno di un
traduttore per comunicare con iraniani, che conoscono il turco. Mi sono
ritrovato quindi in un garage dove erano stipate diverse decine di persone, cui
il tunisino intendeva imporre un supplemento di denaro. Questo trafficante mi
ha ripagato, offrendoci i biglietti del treno per Venezia, dove sono arrivato
il 13 dicembre 2000. Ho deciso allora di richiedere l’asilo politico. Sono
andato dai carabinieri che mi hanno trattato con una umanità che mi ha sorpreso.
Volevano farmi arrivare del cibo ma ho detto di no. Mi sono ritrovato poi, di
mattina, alla questura di Marghera. C’era un grande affollamento. Sembrava che
fosse confluito lì il mondo intero. C’erano afghani, cinesi, iraniani,
marocchini, curdi e gente di molti altri paesi. Una ispettrice, gentilissima,
mi ha sistemato in un albergo di Chioggia, e mi ha detto che per l’asilo
politico si doveva aspettare la decisione del tribunale. Cominciava in quel momento
il mio percorso italiano di rifugiato. Lo status mi sarebbe stato riconosciuto
tuttavia un anno e mezzo dopo.
Non era una storia a lieto fine, vero
Gabriel?
Assolutamente
no. Dell’Italia lentamente ho avuto modo di conoscere gli aspetti più
problematici. Ho dovuto fare i conti con la mafia e la corruzione. In questo
paese i rifugiati politici siamo 25mila, su circa quattro milioni di immigrati,
ma non mi sento garantito. A dispetto delle leggi europee, a lungo sono stato
senza lavoro, ho dovuto vivere anni interi alla giornata. Mi è anche capitato,
in certi momenti, per fortuna passati, di dover cercare pane nei cassonetti
della nettezza urbana. E tutto questo non credo sia civile.
Cosa è per te allora l’Europa, adesso che l’hai conosciuta e l’hai vissuta già da
dodici anni?
Direi che
rimane, malgrado la crisi, una Disneyland, in cui però non puoi sentirti
appagato, dove non puoi uscire dalla parte che ti hanno assegnato. Mi sento
come un venditore di popcorn. Tutti attorno a me fanno festa, tranne io. Sei
condannato a lavori che ti alienano, che ti fanno sentire diverso. Ancora oggi
non esiste uno stato sociale, un vero welfare, per gli immigrati. Pur avendo la
pelle chiara mi sento quindi un «negro». Niente per me ha il colore della libertà.
Ormai da molti anni non sogno più. Ho lavorato al Petrolchimico di Marghera e
portavo a casa 920 euro al mese, mentre i miei colleghi italiani ne
guadagnavano 1600, perché loro, per effetto dei contratti di lavoro nazionali,
godevano delle trasferte. Casa mia è a 5 mila chilometri di distanza, e,
paradossalmente, non posso godere di questi benefici. In definitiva, lavorando
tanto io ho ricevuto poco, e questo è, nella sostanza, quello che accadeva agli
schiavi neri dell’Ottocento, in Luisiana, nel Texas nel Mississipi, quelli che
hanno creato l’economia americana del cotone, quelli che producevano i blue
jeans.
Fonte: Rivista mensile Narcomafie
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