Il lungo corteo di Firenze del 16 marzo... |
È stato un
vero un fiume in piena, quello che ha invaso per due giorni Firenze, 150mila
persone arrivate da tutta Italia per partecipare alla diciottesima edizione
della “Giornata della Memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle
mafie”, organizzata come sempre da Libera. Due giorni di vera e propria festa,
nonostante i protagonisti fossero i familiari di chi, nella maggior parte dei
casi, ha perso i propri cari, uccisi dalle mafie – cosa nostra, camorra,
‘ndrangheta, sacra corona unita -, ma anche i padri, le madri, le mogli, i figli
di coloro i quali sono rimasti vivi e sono stati dichiarati “vittime innocenti”
di una criminalità che non guarda in faccia nessuno, non potendo mai e poi mai
far credere al vecchio detto che “la mafia non uccide donne e bambini”. Si,
perché proprio della morte di una giovane madre e dei suoi due fratellini
potrebbe parlare Margherita Asta, che il 2 aprile del 1985 vide distrutto il
suo mondo, una famiglia sino a quel momento serena, “falciata” per caso, per
essersi trovata al posto sbagliato nel momento sbagliato. Lei, Margherita, è
una delle anime del corteo che sabato scorso ha colorato le strade di Firenze,
piene per l’occasione di fiori e girandole, animate da un dolce vento che per due
giorni ha spazzato via le nubi e la pioggia, consentendo il sereno svolgimento
di una manifestazione piena di anima e cuore, della quale si ricorderanno tutti
sino alla prossima edizione.
Sono le 8.40
circa del 2 aprile del 1985 quando Barbara Rizzo, 32 anni, sta accompagnando a
scuola con una Volkswagen Scirocco Salvatore e Giuseppe Asta, i suoi gemelli di
6 anni, quando sul ciglio della statale che attraversa Pizzolungo, esplode l’autobomba
destinata al sostituto procuratore Carlo Palermo, che si sta recando a bordo di
una 132 blindata al palazzo di Giustizia di Trapani. È, però, proprio
l’utilitaria di Barbara a fare da scudo alla blindata di Carlo Palermo, che
dalla strage uscirà ferito leggermente, insieme all’autista Rosario di Maggio e
Raffaele Mercurio, mentre Antonio Ruggirello e Salvatore La Porta, gli altri
agenti che lo seguivano nella Fiat Ritmo di scorta non blindata, verranno colpiti
alla testa e in diversi parti del corpo dalle schegge, con conseguenze non
indifferenti. “Dopo 28 anni non so ancora perché la vita di mia madre e dei miei
fratelli è stata spezzata - afferma Margherita Asta -. Per questo sono ancora
alla ricerca di verità e giustizia, non solo nei confronti di chi è morto ma
anche di chi è rimasto in vita. Il giudice Carlo Palermo, per esempio, non
viene ricordato perché ha avuto la fortuna-sfortuna di rimanere vivo. E mi fa
proprio arrabbiare il fatto che lo Stato, invece di aiutarlo a scoprire la verità,
gli abbia proposto quello che si propone a un collaboratore di giustizia, cioè
di cambiare identità. Ho voluto incontrarlo anche perché vorrei superasse quel
senso di colpa diventato per lui come una tara”. Un sentimento che attanaglia
non poche delle vittime, nonostante non abbiano nulla da farsi perdonare, se
non il fatto di essere rimaste vive. “Solo dopo anni sono riuscita a fare pace con
il senso di colpa per avere ancora accanto mio marito - racconta Lucia Calì,
moglie di Salvatore La Porta - mentre quei due bambini non ci sono più. L’ho
capito solo dopo tanto tempo. Mio marito era il classico poliziotto che non
voleva stare dietro la scrivania, amava il servizio attivo. Paradossalmente,
poi, quello era il suo primo giorno di servizio con il giudice Palermo. Pensavo
fosse un incubo, dal quale mi sarei risvegliata, trovando tutto come prima. Invece,
per anni ho dovuto crescere due figli, uno di 4 anni e l’altro un po’ più adulto.
Qualcuno dei colleghi mi ha detto che, prima di entrare in coma, malconcio per
com’era, Salvatore ha detto ai colleghi “salutatemi mia moglie”, forse perché
pensava di dovere morire. Dopo 9 ore di intervento al cervello, il primario mi
disse che le possibilità che rimanesse vivo erano molto poche. Sarebbe anche
potuto rimanere paralizzato, invece solo grazie alla forza, che non so bene da
dove mi arrivasse, oggi mio marito è accanto a me e il mio matrimonio è più
saldo di prima. Lui, però, non ricorda più nulla, solo di essere arrivato
davanti alla villa del giudice a Bonagia per prenderlo e portarlo al lavoro,
poi il buio assoluto. A causa di tragedie del genere la vita ti cambia; la mia
è stata stravolta. Oggi, però, riesco a parlare di questa nostra esperienza con
serenità, facendo in modo che, anche grazie a realtà come Libera, i ricordi
diventino memoria attiva”.
Di storie di
questo genere, la “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle
vittime delle mafie” ne raccoglie migliaia. Tutte toccanti, tutte importanti,
l’una come l’altra. “Non uccideteli una seconda volta”, però, é stato il
messaggio forte e chiaro arrivato dal serpentone del capoluogo toscano e
ripetuto più volte da don Ciotti non solo nel corso del corteo, momento clou del
sabato, ma anche durante tutta la giornata precedente, contraddistinta dalla
veglia interreligiosa celebrata nella Basilica di San Carlo, dove sono stati
ricordati i nomi delle 900 vittime delle mafie, alla presenza commossa e
silenziosa dei loro familiari. Senza ovviamente dimenticare, anche sul palco,
le vittime di stragi come quella del 27 maggio 1993, quando, in via dei Georgofili,
esplose un Fiorino imbottito di tritolo. O quelle di tutti i grandi misteri
dello Stato, dai morti per l’Eternit a quelli della strage di Viareggio, dalla
Thyssen a Ustica, come anche l’anniversario della strage di via Fani, che diede
il via al rapimento di Aldo Moro.
A leggere
“per non dimenticare” i nomi, tanti personaggi più o meno noti: il Ct della Nazionale,
Cesare Prandelli; la segretaria della Cgil, Susanna Camusso; l’ex presidente della
CommissioneAntimafia, Francesco Forgione; l’ex sostituto procuratore di
Palermo, Antonio Ingroia; i sindaci di Firenze e Bari, Matteo Renzi e Michele
Emiliano. Ma anche i tanti familiari di magistrati e forze dell’ordine
impegnati nella lotta alla mafia. “La vostra battaglia - ha affermato il Premio
Nobel per la Pace, Perez Esquivel - è anche la nostra, siamo uniti per un mondo
migliore. E quando si vede questa moltitudine di gente si capisce che c’è
speranza per sconfiggere la mafia. Anche noi abbiamo resistito grazie al fatto
di essere rimasti uniti”. “La mafia è come la peste. Dobbiamo unire ciò che le
mafie e i potenti vogliono dividere” ha, poi, tuonato don Ciotti, rivolgendosi
per un attimo ai politici: “Mi auguro che le Camere si diano una mossa e si trovi
il modo di governare, perché abbiamo bisogno di risposte chiare. Pietro Grasso
e Laura Boldrini, oggi rispettivamente alla presidenza di Camera e Senato, sono
persone di grande valore, con una storia significativa. Facciamo il tifo per loro”.
Toccante anche il momento in cui il presidente nazionale di Libera ha dato
l’annuncio che, mentre raggiungeva Firenze per prendere servizio alla
manifestazione, Vittorio Giordano, un ragazzo della Pubblica sicurezza delle
scorte, è morto in un incidente. L’ennesimo nome che si aggiunge alla lunga
lista, “anche lui caduto per la democrazia, per fare il suo dovere”.
Un altro
lungo applauso e poi ecco le note de “La storia siamo noi” e di “Io non ho
paura”, cantate da Fiorella Mannoia, alle quali si sono unite le voci di tutti
i familiari, pronti a rivendicare giustizia, a chiedere verità, con coraggio,
anche loro “senza più paura”. Si è così voluto salutare Firenze, ridandosi
appuntamento alla prossima edizione, ancora più forte, ancora più numerosa. E
così, con lo stesso spirito combattivo con cui hanno calpestato il rinascimentale
suolo fiorentino, il nutrito gruppo di siciliani ha ripreso il volo per la sua
bella Isola, raccogliendosi ancora per qualche altra ora l’uno accanto
all’altro per raccontarsi e raccontare dei propri cari, che non ci sono più
fisicamente ma vivono ancora nei loro cuori. Avendo detto e ribadendo che quei
ricordi non potranno essere mai cancellati, custoditi in una memoria che, anche
grazie a Libera, da 18 anni è diventata patrimonio di tutti.
Da: A Sud'Europa
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