Donne operaie nella fabbrica COTTONS di Chicago |
“Corleone
non è una repubblica indipendente” ci diceva. E a Corleone potevano arrivare
quindi le idee, gli influssi, potevano aprirsi spazi, soprattutto mentali, che
sembrava avessero diritto di cittadinanza altrove, ma non nel nostro paese. Nei
pochi metri quadrati di questo circolo cominciavano a prendere forma i nostri
primi fasci di energia. Può sembrare incredibile che allora noi ragazze
entrassimo in questo circolo di nascosto, camminando sul corso, guardandoci
attorno circospette, infilandoci dentro solo se non viste da nessuno. Erano
tempi, quelli, in cui non si era soliti uscire assieme maschi e femmine,
passeggiare assieme. Magari si cominciava a stare assieme a scuola, nelle
associazioni cattoliche (uniche agenzie di socializzazione vigenti) ma non per
strada o, come in quel caso, in un circolo in cui si imparava a fare cultura, a
fare politica, pietra su pietra, pagina su pagina, parola su parola.
Per
l’8 marzo Nino ci suggerì di scrivere di noi, della nostra realtà, di come la
sentivamo stretta e asfittica, della nostra ricerca di altro, di un “altro” in
noi ancora indistinto. E facemmo così il nostro primo e unico giornaletto
ciclostilato, “L’alternativa”, in cui (per timore di ripercussioni familiari
pesanti, come pure andava succedendo nelle diverse famiglie delle poche che
eravamo) non avemmo il coraggio di firmare coi nostri veri nomi e cognomi i
“pezzi” da noi scritti, in cui raccontavamo del sessismo netto che vigeva,
delle proibizioni, del clima da coprifuoco che respiravamo, delle nostre ansie
di libertà, di avere un tempo e uno spazio per incontrarci senza patemi
d’animo, alla luce del sole, senza il terrore di incorrere in punizioni, anche
fisiche, e in ulteriori restringimenti del nostro già risicato spazio vitale.
Nella
villa comunale appendemmo dei manifesti, scritti da noi su cartoncini, mettemmo
palloncini colorati che li rendessero più visibili, e attendemmo che
arrivassero a fare gruppo con noi almeno i ragazzi e le ragazze che uscivano
dalle scuole, frequentate, come ora, anche da giovani di paesi vicini. Vennero
in pochi, ma noi sentivamo di avere fatto, almeno solo per noi, un piccolo
passo verso l’affermazione delle nostre insorgenti idee.
Nelle
nostre case il casino: le punizioni per quella che veniva comunque percepita
come una nostra disobbedienza alla Norma vigente arrivarono comunque. Fu una
tappa del percorso che, personalmente (ma non solo), mi condusse da lì a non
molto ad avere travagliatissime e soffertissime (per tutti!) vicende familiari.
Ma questa è un’altra storia, troppo lunga per essere raccontata in poche righe
che ricordino il mio primo 8 marzo, quando avevo 15-16
anni circa, una vita fa. E non fa poca rabbia pensare che questa data, che
ricorda il rogo in cui morirono bruciate non so quante operaie in una fabbrica*,
sia diventato per molti e molte solo il giorno delle mimose, delle mangiate
collettive a ristorante (con menù apposito) o degli spogliarelli di qualche
macho nerboruto.
Maria
Di Carlo
* La data simbolo dell’8 marzo è legata all’incendio divampato in un
opificio (Cottons) di Chicago nel 1908, occupato nel corso di uno sciopero da
129 operaie tessili che morirono bruciate vive. ( Nella foto: Donne operaie
nella frabbrica COTTONS di Chicago giorni prima dell’08 marzo 1908.)
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