di ANTONIO MAZZEO
I cinesi pronti a finanziare il ponte sullo Stretto. E forse pure a costruirlo. Del progetto definitivo ancora neanche l’ombra ma il Celeste Impero si sarebbe innamorato di Scilla e Cariddi e vorrebbe consacrarne l’unione con il padre di tutte le Grandi opere, costi quel costi. Stando alle rivelazioni di ministri e sottosegretari, manager ed amministratori delegati dell’immortale Stretto di Messina Spa, i nuovi mandarini del capitale globale salveranno in corner il mito del Ponte. E a forza di pompare mediaticamente la cosa, in prima linea l’editorialista de La Sicilia Tony Zermo, coerente pontista da tempi non sospetti, alla fine ci han creduto tutti.
Certo, i forzieri delle banche di
Pechino e di Shangai straripano di denaro e c’è la spasmodica rincorsa a
investire nei mercati del pianeta, assorbire industrie e realizzare
megainfrastrutture. Ma rimettendo in ordine i tasselli della storia sul Ponte
ed i cinesi sembra tornare a rivivere le avventure di quegli invisibili
investitori stranieri, prima giapponesi, poi nordamericani, in procinto di
approdare nelle spiagge dello Stretto con grandi piloni di acciaio e di
cemento, poi inspiegabilmente dileguatisi per lasciare il posto solo ad un
anziano padrino di mafia di Montreal e a un petromonarca della penisola
arabica. Forse l’ennesimo bluff per non staccare la spina all’incubo del Ponte
ma - alla fine - il niente del niente del niente.
I cinesi pronti a finanziare il ponte sullo Stretto. E forse pure a costruirlo. Del progetto definitivo ancora neanche l’ombra ma il Celeste Impero si sarebbe innamorato di Scilla e Cariddi e vorrebbe consacrarne l’unione con il padre di tutte le Grandi opere, costi quel costi. Stando alle rivelazioni di ministri e sottosegretari, manager ed amministratori delegati dell’immortale Stretto di Messina Spa, i nuovi mandarini del capitale globale salveranno in corner il mito del Ponte. E a forza di pompare mediaticamente la cosa, in prima linea l’editorialista de La Sicilia Tony Zermo, coerente pontista da tempi non sospetti, alla fine ci han creduto tutti.
In verità l’immagine dei
mirabolanti capitali cinesi alla conquista di Villa e di Messina non è poi così
recente. Se ne parla perlomeno dal 2006, quando la Regione Siciliana governata
da Totò Cuffaro lanciò con l’Istituto per il Commercio Estero e il ministero
dello Sviluppo economico il cosiddetto “Progetto Cina” con l’obiettivo
d’intercettare gli investitori orientali. Il tutto si ridusse in una serie di
fallimentari visite dei funzionari isolani a Pechino e in una mostra sulla
“cultura siciliana” al museo di Tienanmen. Qualche anno più tardi furono il presidente
Raffaele Lombardo e l’assessore all’Istruzione Mario Centorrino a rilanciare la caccia al
dragone cinese. Il 10 agosto 2010, a Roma, i due incontrarono
l’ambasciatore Ding Wei per annunciare la presenza dell’Isola all’esposizione
universale di Shangai prossima all’inaugurazione. Un intero padiglione
intitolato “Sicilia, un ponte tra le culture” e il plastico del Ponte di
Messina a fare da “testimonial come opera di altissima ingegneria e luogo di
passaggio e collegamento tra due sponde del mondo per un futuro ad alta
tecnologia”, secondo la nota emessa da palazzo d’Orleans. A Shangai,
“nell’ambito della missione istituzionale della regione Sicilia”, giunse il
successivo 23 agosto l’ingegnere Fortunato Covelli, direttore relazioni estere
della Stretto Spa. “Il progetto è stato molto apprezzato dalle autorità
cinesi”, dichiarò il professionista all’agenzia Ansa. “Ci hanno fatto i
complimenti, ma soprattutto ci hanno chiesto di aprire un tavolo di dialogo e
contatto tra i tecnici nostri e i loro”. Covelli poi incontrò a Pechino pure i
responsabili dei più importanti gruppi finanziari e bancari cinesi per
illustrare il piano finanziario dell’opera e verificare la loro disponibilità
ad entrare nel project financing.
Nell’ottobre del 2010 i primi frutti del pressing
siciliano: mister Lombardo firmò una dichiarazione d’intenti con la
China Development Bank, principale banca governativa d’investimento finanziario
specializzata in infrastrutture, con una presenza diretta in decine di grandi
progetti in Europa e nel continente americano per un valore superiore ai 100
miliardi di euro. Altrettanto efficienti i “cugini” d’oltre Stretto: nel dicembre dello
stesso anno il presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti ricevette
la visita dell’ambasciatore in Italia Ding Wei per “studiare insieme forme di
cooperazione sul versante turistico, produttivo e culturale”, rilanciare il
porto di Gioia Tauro e – ovviamente - investire nella costruzione del Ponte.
Il 30 agosto 2011,
Raffaele Lombardo, il dirigente generale del Dipartimento per il
collegamento con l’Unione europea e il Bric della Regione Sicilia Francesco
Attaguile e l’architetto Pier Paolo Maggiora incontrarono a Roma la consigliera
d’ambasciata Zhang Junfang e il viceministro del Commercio Yang Yaoping. La
Sicilia di Catania annunciò a tutta pagina che la Cina “nutre il desiderio
di fare della Sicilia la piattaforma logistica del Mediterraneo”, ma a scorrere
le note e le dichiarazioni riportate nel testo dell’articolo si comprende che
fu in verità la delegazione siciliana a promuovere in estremo oriente
l’immagine di un’isola stile Manhattan con al centro un “asse Ponte sullo
Stretto e un hub aeroportuale (a Centuripe) con autostrade, strade e ferrovie
che si dipartono a raggiera e la contestuale ristrutturazione dei porti di
Augusta e Pozzallo”. I cinesi promisero di pensarci ma chiesero perlomeno
l’elaborazione delle schede tecniche progettuali. Il tutto mentre strizzavano
l’occhio alle lobby politiche ed economiche del più ricco nord-est che con
Unicredit sponsorizzavano l’ipotesi di una piattaforma logistica nel nord
Adriatico.
Intanto però sulla sostenibilità tecnica e finanziaria
del Ponte erano sempre in meno a scommetterci e il parlamento, con una
maggioranza bipartisan, arrivò ad approvare una mozione che impegnava il
governo a cassare i fondi riservati all’avvio dei lavori. Puntuale la
controffensiva degli instancabili fautori del collegamento stabile: il 3
settembre 2011 il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, in missione a
Messina per inaugurare la scuola di formazione per il sistema radar marittimo
Vts, annunciò a sorpresa di avere avviato contatti con le banche cinesi per
finanziare l’opera. Tre giorni più tardi lo stesso Matteoli rivelava il “forte
interesse” per il Ponte della China Investment Corporation (CIC). Si tratta di
uno dei maggiori fondi di investimento cinese: con sede a Pechino, due uffici
di rappresentanza a Hong Kong e Toronto e appena 246 dipendenti, la CIC vanta
un capitale di 409 miliardi di dollari, utili operativi per 44,7 miliardi e
rendimenti annui superiori all’11% sugli investimenti globali. In cinque anni
dalla sua creazione la Corporation ha investito più di 3 miliardi di dollari
nel fondo di private equity americano Blackstone, 5 miliardi nella banca
d’affari Morgan Stanley (oggi controlla il 9,9% del suo pacchetto azionario) e
altri svariati miliardi nella compagnia energetica Suez-Gas de France e nella
Thames Water Utilities Ltd, la società idrica della capitale britannica. Il
Ponte non è però l’unica grande infrastruttura sottoposta dal ministro
all’amministratore delegato della China Investment Corporation, l’ex ufficiale
della marina militare della Repubblica popolare cinese ed ex viceministro delle
finanze, Low Jiwei. Si chiede invece di finanziare l’intero libro dei sogni dei
signori del cemento, dall’Alta velocità ferroviaria ad alcune nuove autostrade
nazionali, passando dagli hub portuali in Sicilia, Liguria e nord Adriatico e
alla “trasformazione di edifici storici di pregio in strutture alberghiere di
lusso”. Anche il ministro dell’Economia Giulio Tremonti incontrò Low Jiwei,
suggerendo l’acquisizione di altri titoli di debito italiani (secondo il Financial
Times la China Corporation ne detiene già il 4% circa dell’ammontare),
l’investimento nei fondi strategici italiani e in alcuni possibili settori
d’intervento, “turismo, privatizzazioni (Eni ed Enel comprese), infrastrutture
ed energie alternative”. “Solo un incontro interlocutorio”, ammise Tremonti
anche se il suo sottosegretario Antonio Gentile annunciò entusiasta che,
immancabilmente, i cinesi erano “interessati al ponte sullo Stretto”.
Il successivo 16 settembre una delegazione composta dai
delegati di diversi ministeri della Repubblica popolare incontrò i
rappresentanti della società Stretto di Messina nella sua sede romana. “Ci è
stato chiesto di condividere il know how italiano sviluppato per il
ponte di Messina, al fine di acquisire elementi utili alla realizzazione del
progetto di collegamento stabile attraverso lo Stretto di Qiongzhou”, fece
sapere la concessionaria statale. I titoli sui quotidiani parlavano già però di
soldi cinesi per il ponte, ma a freddare gli entusiasmi ci pensò lo
stesso presidente della Spa, Giuseppe Zamberletti. “L’incontro è durato a
lungo, ma i cinesi non hanno fatto alcuna promessa, perché ancora siamo nella
fase iniziale”, commentò laconico.
Cade il governo Berlusconi, arrivano i “tecnici” alla
corte di Mario Monti e di ponte e cinesi non se ne parla più per un anno
intero. Il 18 ottobre 2012, all’interno del decreto legge n. 179 recante
“ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”, l’esecutivo decide di non
decidere la fine del progetto, autorizzando la società dello Stretto ad avviare
“le necessarie iniziative per la selezione della migliore offerta di
finanziamento dell’infrastruttura con capitali privati”. “In caso di mancata
individuazione del soggetto finanziatore entro il termine per l’esame del
progetto definitivo - aggiunge il Dl - sono caducati tutti gli atti che
regolano i rapporti di concessione, nonché le convenzioni ed ogni altro
rapporto contrattuale stipulato dalla società concessionaria, previo il
pagamento al general contractor di un indennizzo costituito dalle prestazioni
effettivamente prestate con una maggiorazione del 10%”. Neanche il tempo di
pubblicare sulla gazzetta ufficiale il testo del decreto che arriva la
comunicazione della concessionaria di avere già individuato i possibili
investitori privati stranieri. “C’è un interesse accertato a finanziare l’opera
non solo del fondo sovrano China Investment Corporation, ma anche di imprese di
costruzione e fornitura cinesi e, in questa prospettiva, la finestra di due
anni aperta dal Governo Monti per la eventuale realizzazione del Ponte viene
salutata come una opportunità”, annunciava Zamberletti il 1° novembre 2012. Non
solo soldi, dunque, ma anche l’intervento diretto per i lavori del colosso
China Communication and Construction Company (Cccc), 30 miliardi all’anno di
fatturato, costruttore del ponte di Huagzhou, il più lungo del mondo (36
chilometri) e di quello di Su Tong Yangtze (32 chilometri). Conflitti
d’interesse con l’associazione temporanea d’imprese general contractor? “No,
per nulla”, rispondeva lo stesso Zamberletti sul quotidiano La Sicilia.
“Penso che si possano mettere insieme interventi convergenti, industriali e
finanziari, perché, ad esempio, ci sono anche problemi di forniture di acciaio.
Il Ponte non è in cemento armato…”.
Al presidente della concessionaria pubblica faceva eco
sul Giornale di Sicilia Enzo Siviero, ordinario
dell’Università IUAV di Venezia e consulente Anas, il gestore della rete stradale ed
autostradale azionista della Stretto di Messina Spa. “Nelle
scorse settimane a Istanbul, dove Astaldi sta per iniziare la costruzione del
terzo ponte sul Bosforo, c’è stato un incontro fra rappresentanti della Cccc e
Giuseppe Fiammenghi, direttore generale della società dello Stretto”, spiegava
Siviero. “I cinesi hanno consegnato un memorandum in cui si dichiara la
disponibilità a realizzare l’opera. La Cccc ha pure presentato un piano,
chiamato Ulisse, per realizzare una piattaforma logistica da
Gioia Tauro ad Augusta ed è interessata a interventi sulle ferrovie dalla
Campania alla Sicilia. Si tratta di risorse finanziarie sostanzialmente
illimitate, anche cento miliardi se servono. E ci sarebbe lavoro per 40 mila
persone per almeno dieci anni”. Stavolta la piattaforma logistica per
l’Europa e il Nord Africa, dalla Sicilia si estende all’intero Mezzogiorno con
un numero di occupati uguale a quello che avrebbe dovuto creare il Ponte da
solo. Libero aggiunge però una chicca che ha di certo fatto impallidire
l’ingegnere israeliano che sogna di realizzare un’infrastruttura abitativa
galleggiante tra Scilla e Cariddi: la Cccc avrebbe chiesto agli italiani di
modificare un po’ il progetto originario, trasformando i due piloni che reggono
l’impalcato in altrettanti grattacieli.
Dal bombardamento mediatico non poteva restare assente
l’amministratore delegato della Stretto di Messina, Pietro Ciucci. “Da tempo
sono stati avviati contatti con i grandi investitori cinesi, il Fondo Sovrano
Cinese, le grandi banche di investimento, le banche commerciali, da ultimo
anche con alcuni grandi operatori industriali che hanno dimostrato un interesse
nei confronti dell’opera”, ha dichiarato Ciucci lo scorso 9 novembre durante
una trasmissione di Rai Uno Mattina. Poi subito un piccolo passo
indietro. “Noi abbiamo illustrato le caratteristiche, le potenzialità e la grande
valenza strategica del Ponte, ma al momento, non c’è un contratto, ma un
sentiment favorevole all’operazione da parte della China Communication
Construction Company che è interessata sia alla realizzazione del ponte sia ad
un’assistenza finanziaria. Noi non vendiamo fumo e fintanto che non c’è la
possibilità di una trattativa non si può avere l’impegno”. Nessun
pre-pre-accordo dunque, appena l’ennesima e stanca dichiarazione d’interesse
per un’opera che certo riesce assai poco ad apparire accattivante, redditizia e
sostenibile.
A rendere ancora più improbabile l’esistenza di una reale
volontà a finanziare e/o costruire il Ponte, le innumerevoli promesse cinesi
d’investire in Italia assai raramente concretizzatesi. Un susseguirsi di flop e
veri e propri bluff, sempre più spesso made in Italy ma spacciati come esotici.
Il caso più eclatante è certamente quello del piano infrastrutturale in Sicilia
della China Development Bank, promesso da Lombardo nell’autunno 2011 ma mai
venuto alla luce. Fantomatici investitori asiatici avrebbero dovuto rilevare
l’azienda automobilistica
De Tomaso di Gianmario Rossignolo salvando
così duemila operai e i due stabilimenti di Torino e Livorno. Desaparecidos i
cinesi che avrebbero dovuto affiancare l’imprenditore Massimo Di Risio
per impedire la chiusura degli stabilimenti Fiat di Termini Imerese o
quelli che avrebbero dovuto creare una joint venture per rilevare l’azienda
Irisbus
di Avellino. Per lungo tempo i mercati hanno salutato l’“integrazione” nel
settore delle telecomunicazioni tra l’italiana Telecom, la cinese Huawei e
l’operatore mobile Tre, di proprietà della cinese Hutchinson Wampoa, operazione
mai verificatasi, e a Milano c’è chi aspetta ancora di vedere la China Railway
Construction Corporation acquistare il 15% della quota sociale dell’Inter
footbal club, affare che per la famiglia Moratti era già bello e pronto prima
dell’avvio del campionato 2012-13.
Tra le rare operazioni felicemente andate in porto di
recente c’è l’acquisizione dei cantieri nautici Ferretti di
Forlì da parte del colosso statale Shandong Heavy Industries-Weichai Group e, a
fine novembre, i sei accordi sottoscritti durante la visita in Italia del
presidente della Conferenza consultiva politica del Popolo cinese, Jia Qinglin,
quarta carica della Repubblica popolare. Tra questi ultimi, i più importanti,
quello tra Hua Wei Italy e Fastweb e quello tra China General Technology
Holding Ltd. e Fata Spa, società del gruppo Finmeccanica. Poco più di un
miliardo di euro il valore complessivo degli accordi, veramente poco se
confrontato con quanto banche e fondi d’investimento cinesi stanno facendo in
altre parti d’Europa e negli Stati Uniti d’America. La tanto invocata China
Investment Corporation, ad esempio, ha appena acquistato il 10% di Heathrow Airport
Holdings, la società di gestione dell’omonimo aeroporto londinese, il più
trafficato d’Europa ed il terzo al mondo dopo Atlanta e Pechino (oltre 69
milioni di viaggiatori nel 2011). Un’operazione che da sola vale 561 milioni di
euro, denaro in buona parte finito nelle casse di Fgp Topco, il consorzio
guidato dal gruppo spagnolo Ferrovial Agroman, alla guida della holding
aeroportuale. Ferrovial compariva originariamente in cordata con Astaldi per
concorrere al Ponte sullo Stretto, ma alla vigilia della presentazione delle
offerte scelse di defilarsi dalla gara poi vinta dall’associazione d’imprese
con capofila Impregilo. Ancora più rilevante (4,23 miliardi di dollari)
l’affare concluso dal consorzio cinese costituito da
New China Trust Co. Ltd., China Aviation Industrial Fund e P3 Investments Ltd.,
acquirente dell’80% del pacchetto azionario di ILFC - International Lease
Finance Corporation, società di leasing con sede a Los Angeles proprietaria di
una flotta di oltre mille aerei che sono messi a disposizione delle più
importanti compagnie al mondo (Air France-KLM, Lufthansa, American Airlines,
United Airlines, Delta Air Lines, Emirates, ecc.).
Gli investitori cinesi non si comportano né da
benefattori né da mecenati. Sono uomini d’affari cinici che ponderano
attentamente ogni modalità d’investimento. Vanno dove li portano mercati e
profitti certi, non certo dove i progetti sono un azzardo o peggio ancora
insostenibili. Difficile credere allora che dopo la Grande Muraglia i moderni
imperatori della finanza di Pechino sognino l’immortalità realizzando l’ottava
meraviglia del mondo in un modesto e periferico corridoio marittimo.
Pubblicato
in Rete No Ponte - Comunità dello Stretto, Il Ponte sullo Stretto
nell'economia del debito (a cura di Luigi Sturniolo), Sicilia Punto L,
Ragusa, 2013.
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