Cosimo Scordato (2° da sx) e Vito Lo Monaco (3° da sx) |
Esattamente trent’anni fa, il 26 febbraio del 1983, un giovane
comunista (Vito Lo Monaco, oggi presidente del Centro studi “Pio La Torre”) e
un giovane prete (Cosimo Scordato, oggi rettore della Chiesa “S. Francesco
Saverio”), stanchi di vedere moltiplicarsi i cadaveri nel “triangolo della
morte”, organizzarono una marcia popolare contro la mafia da Bagheria a
Casteldaccia. Che non se ne perda memoria è necessario per molte ragioni,
convergenti nell’intento di evitare che ogni generazione ricominci ogni volta
daccapo, come se non fosse stata preceduta da esperienze, risultati positivi ed
errori. Che ci insegna uno sguardo retrospettivo su quell’avvenimento, allora
clamoroso?
Prima di
tutto che il coinvolgimento popolare in manifestazioni affollate svolgono una
funzione importante di denunzia, di risveglio delle coscienze. I cortei non
sono delle sceneggiate inutili. Ma – e questo va aggiunto immediatamente –
possono diventarlo quando, da momento eccezionale di mobilitazione,
diventano riti ciclici che si
autointerpretano come sufficienti. Quando non sono l’avvio di una fase nuova
d’impegno diuturno, di lungo periodo, le manifestazioni di piazza sono destinate
a illudere e a deludere. Non è un caso che i promotori della marcia di allora,
in questi tre decenni, hanno lavorato e continuano a lavorare sodo, spesso
lontano dai riflettori, sia nel campo culturale dell’informazione e della
formazione (Centro studi “Pio La Torre”) sia nel campo dell’evangelizzazione e
della promozione sociale (Chiesa e Centro sociale “S. Francesco Saverio”).
Istruttivo, poi, il fatto che i
promotori di quella marcia storica appartenessero a organizzazioni diverse come il PCI e la
Chiesa cattolica. Significativo perché dimostra che la pregiudiziale
antimafiosa, in linea di principio, non dovrebbe conoscere barriere ideologiche
e che solo di caso in caso vanno operate le necessarie esclusioni.
Significativo, inoltre, che quell’iniziativa suscitò qualche emulazione sia fra i comunisti sia fra i
cattolici, ma altrettanto significativo, infine, che da allora ad oggi né il
PCI – PDS – DS – PD né la Chiesa cattolica hanno assunto come centrale il
contrasto con il sistema di potere mafioso. Non lo ha fatto lo schieramento di
centro-sinistra che, per non andare lontano, ha giocherellato con Raffaele
Lombardo sul filo di lana della differenza fra responsabilità penale (ancora da
dimostrare) e responsabilità politica (di evidenza oggettiva). Non lo ha fatto
la Chiesa siciliana che, allora, tirò le orecchie ai presbiteri così pericolosamente vicini a
comunisti (tanto che, per protesta, don Francesco Michele Stabile si
autosospese per più di un decennio dal ministero ecclesiastico) e che, in tempi
più recenti, non si è preoccupata di sconfessare neppure uno dei tanti politici
finiti in galera per collusioni mafiose dopo carriere vistosamente costruite
sventolando l’appartenenza cattolica.
Fortuite coincidenze temporali (le dimissioni di Benedetto XVI e le
elezioni politiche) hanno evidenziato in questi giorni le crisi parallele della
Chiesa cattolica e del sistema parlamentare italiano. La rinnovata consapevolezza di dover troncare
legami con ambienti corrotti e criminali potrebbe costituire, per entrambe le
Istituzioni, un’occasione di recupero di credibilità e di rilancio del loro
ruolo.
Augusto Cavadi
“Repubblica- Palermo”, 27.2.2013
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