di PIPPO LA BARBA
Grido di allarme di Piera Aiello alla presentazione del 9 gennaio scorso presso la sede della “Bottega dei sapori e dei saperi della legalità” di Palermo, associazione promossa da Libera, del suo libro “Maledetta mafia”, scritto a quattro mani con Umberto Lucentini e edito dalla San Paolo. Piera Aiello, una dei primi testimoni di giustizia, dimostra che il ruolo delle donne è decisivo per sconfiggere la mafia sul proprio terreno, quello delle coperture familiari e ambientali. Piera ha iniziato a collaborare nel 1991, subito dopo l’uccisione del marito Nicola Atria, figlio del boss mafioso di Partanna Vito, che era stato a sua volta eliminato nel 1985, poco dopo il matrimonio di Nicola e Piera. In realtà la sua ribellione era iniziata molto prima, quando aveva gridato in faccia al suocero di essere un mafioso, e quando aveva preteso da Nicola trasparenza, ottenendone in cambio solo botte. Con il suo esempio trascinò anche la cognata Rita Atria che, spinta dal giudice Paolo Borsellino, divenne anche lei collaboratrice di giustizia e alla morte di Borsellino, in preda alla disperazione, si uccise buttandosi dall’appartamento in cui viveva.
Grido di allarme di Piera Aiello alla presentazione del 9 gennaio scorso presso la sede della “Bottega dei sapori e dei saperi della legalità” di Palermo, associazione promossa da Libera, del suo libro “Maledetta mafia”, scritto a quattro mani con Umberto Lucentini e edito dalla San Paolo. Piera Aiello, una dei primi testimoni di giustizia, dimostra che il ruolo delle donne è decisivo per sconfiggere la mafia sul proprio terreno, quello delle coperture familiari e ambientali. Piera ha iniziato a collaborare nel 1991, subito dopo l’uccisione del marito Nicola Atria, figlio del boss mafioso di Partanna Vito, che era stato a sua volta eliminato nel 1985, poco dopo il matrimonio di Nicola e Piera. In realtà la sua ribellione era iniziata molto prima, quando aveva gridato in faccia al suocero di essere un mafioso, e quando aveva preteso da Nicola trasparenza, ottenendone in cambio solo botte. Con il suo esempio trascinò anche la cognata Rita Atria che, spinta dal giudice Paolo Borsellino, divenne anche lei collaboratrice di giustizia e alla morte di Borsellino, in preda alla disperazione, si uccise buttandosi dall’appartamento in cui viveva.
“Capisco il gesto di Rita – afferma Piera –
lei, a differenza di me, si è trovata sempre la famiglia contro, in primo luogo
la madre e la sorella, che avevano una cultura mafiosa. Poi, quando è stato
assassinato Borsellino, che era per lei un padre, non ha retto alla
disperazione e si è uccisa”.
Tu invece hai avuto dalla tua parte i familiari?
“Sì. Mia madre mi è stata sempre
a fianco; mio padre, amico del giudice Rocco Chinnici, mi sosteneva ugualmente,
anche se mi raccomandava di stare molto attenta, perchè temeva per la mia
vita”.
Rita è divenuta l’emblema della battaglia delle donne contro la mafia,
un’icona, anche per merito del film di Marco Amenta La siciliana ribelle.
“Quel film non è nè una fiction, perchè fa nomi e cognomi, nè un
film verità, perchè rappresenta i due personaggi principali, Rita Atria e Paolo
Borsellino, in un modo molto lontano dalla realtà. Amenta non è stato
autorizzato dalla nostra famiglia ed è in corso un procedimento legale da noi
promosso”.
Tu racconti nel libro episodi e circostanze che lasciano allibiti
poichè mettono in luce carenze e distorsioni nell’utilizzo dei testimoni di
giustizia.
“Non lo faccio per me, che alla
fine me la sono cavata, ma per mia figlia, che a ventiquattro anni si ritrova
senza una identità e un ruolo sociale, e per i tanti casi analoghi.
Che cosa non ha funzionato nei programmi di gestione dei collaboratori?
“Il termine gestione mi fa orrore, quasi fossimo strumenti inerti e non
persone. E poi l’assimilazione sul piano dei benefici dei collaboratori ai
pentiti, che sono nel migliore dei casi ex criminali ma più frequentemente opportunisti incalliti, è la cosa più
ingiusta e inumana”.
Ti senti tradita dallo Stato?
“Rifarei tutto, anche gli errori,
perchè bisogna tener conto dei contesti in cui si opera. Credo che la denunzia
sia l’unica arma alla lunga vincente, anche se i costi sono elevati. Ma la mia
serenità, che tutti mi riconoscono, è la riprova che alla fine tutto questo
paga ”.
Quali sono in pratica le refluenze della denunzia sulla società?
“La cosa importante è il
messaggio che trasmetti, per questo giro continuamente le scuole per far capire
ai ragazzi le ragioni della mia scelta”.
Pippo La Barba
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