lunedì, dicembre 03, 2012

LE PRIMARIE DEL CENTRO-SINISTRA TRA MONTISMO E BERLUSCONISMO

Lo storico Giuseppe Carlo Marino
di Giuseppe Carlo Marino
Alle amiche e agli amici sottopongo questa nota sulle primarie (di prossima pubblicazione nella rivista on-line A SUD D'EUROPA) come  personale contributo critico ad una questione  che mi sembra così sintetizzabile: queste benedette primarie rilanciano la democrazia e la Politica (con la "p" maiuscola) o ne verificano e ne sanciscono il declino definitivo verso il populismo? Ci vorrà, forse, una certa pazienza per leggerla con attenzione, ma spero di attivare un po' di dibattito e di ricevere osservazioni, critiche e proposte di integrazione.

LE PRIMARIE E LA CRISI ORGANICA DELLA DEMOCRAZIA E  DELLA POLITICA
Ottimo, sotto il sole incredulo e incredibile di questa quasi-estate di fine novembre: c’è in Italia un cosiddetto popolo di sinistra (invero, per la precisione, di  centro-sinistra) che ancora pare nutrirsi e  appassionarsi di politica. Dibatte poco da quando  del dibattito  ha perduto l’istanza e il costume. Però ascolta quei pochi che del dibattere in pubblico (specie in televisione) hanno fatto una professione e va a votare in lunghe code pazienti e disciplinate. Questo, a lume di naso, sarebbe da dirsi “democrazia”, se la democrazia ha un credibile presente  e avrà un riconoscibile futuro.  
Tuttavia il dubbio è d’obbligo perché queste “primarie” di imperfetta importazione americana costituiscono una specie di gara (qualcuno direbbe una singolare kermesse) nella quale i  gareggianti, aspirano a conquistarsi in proprio, singolarmente, in singolare appropriazione integrata alle loro facce, ben più che un’investitura democratica, un uso personale della democrazia purché gentilmente legittimato da un voto popolare: quasi a dire “permettete, se non vi dispiace, che comandi io!”.
Mentre è  certo che poi il vincitore, chiunque egli sia,  comanderà  in un ambito assai ristretto di modeste questioni di contea  e di conteggi amministrativi perché, come è noto, sulle grandi decisioni gravano ormai, imperiosi e ineludibili, i diktat del potere economico e in specie quelli  del capitalismo globalizzato; la gara, o  kermesse che dir si voglia,  tende a ridurre il ruolo dei partiti – come si avrà qui modo di spiegare  più avanti −  dal loro ruolo storico di centrali  stabili di  coerente militanza e di  elaborazione politico-ideologico-culturale  a quello  di  macchine organizzative il cui uso, un uso competitivo   in  condominio da parte degli  iscritti, consente ad alcuni di  entrare in concorrenza con altri  per la conquista di una leadership personale.  Vedremo meglio in seguito come e perché  si tratti di un  andamento della lotta politica  in qualche modo riconducibile al populismo, fenomeno  assai tipico dei nostri tempi che ognuno, se proprio vuole, e  con generosità  e molto rischio nel giudizio, può continuare a vedere come una versione abnorme e imbastardita della  democrazia nelle società postmoderne.
Trattandosi comunque  di un processo in corso che appartiene per intero alla crisi della democrazia  nell’era della globalizzazione, la questione non è specificamente italiana. Ma è specifica per l’Italia la dinamica di tale processo  nella cosiddetta “seconda repubblica” fino agli esiti odierni  che incidono  sulle istituzioni e sulla stessa  “Costituzione materiale”, nonché  sul quadro politico-sociale nel quale si sono svolte le “primarie” del centro-sinistra.
In Italia, se  questa storia ,  quanto alle sue origini  e cause ormai remote,   non può prescindere dal  crollo del sistema di potere democristiano sotto la bufera di Tangentopoli  e  dal  quadro degli effetti  provocati nel contesto nazionale dagli  eventi internazionali successivi al 1989 ( fine del ciclo storico del  bipolarismo Usa-Urss, implosione  del  “socialismo reale”  con conseguente disorientamento, fino all’autodistruzione, del Pci , esaurimento del ruolo storico della Dc come antemurale al comunismo, ecc.); nel suo svolgimento, è una storia che  si è concretizzata nell’affermazione del regime populistico di Berlusconi nell’orizzonte opaco della  transizione a una “seconda repubblica”  rimasta sempre ipotetica e mai concretamente realizzatasi. Nel contempo, è  accaduto che un ventennio di berlusconismo abbia di fatto generato  strada facendo, in un modo tanto profondo quanto informale e generalmente inavvertito, una rilevante modificazione del  profilo  istituzionale della repubblica parlamentare nata nel 1947. E’ stato proprio l’originario carattere parlamentare della repubblica ad esserne sostanzialmente investito, pur senza cambiare di una sola virgola  la  Costituzione per quanto riguarda i rapporti tra governo e parlamento.
Nel ventennio, a fronte della leadership populistica di Berlusconi, le forze politiche alternative sempre più confuse e incapaci di compattamento unitario  (anche negli intervalli  di temporanea rivalsa con i governi dell’”Ulivo” e di centro-sinistra) hanno espresso la tendenza ad affidare de facto  soprattutto alla presidenza della repubblica  la funzione estrema e faticosa  di difendere il più possibile  dal populismo  berlusconiano le prerogative e i poteri del parlamento. Ne è conseguita, per la presidenza della repubblica (da Ciampi a Napolitano),  un’informale acquisizione di crescenti  compiti di intervento politico  molto più consistenti di una mera  moral suasion  (compiti e funzioni sostanzialmente digoverno), al di là del formale dettato costituzionale. La stessa caduta di Berlusconi  è  da vedersi come un successo  dell’informale azione di  governo della presidenza della repubblica, un successo reso possibile da una gravissima emergenza nazionale  che, contestualmente all’evidente discredito internazionale di  un ormai ridicolo Caimano,  aveva sollevato l’angoscia collettiva per un prossimo  “fallimento” dello  Stato italiano sotto i colpi della speculazione  internazionale nei mercati.
Caduto Berlusconi, adesso il presidente Napolitano si appresta  a consegnare al suo successore l’eredità di una repubblica  che, da parlamentare che era e dovrebbe ancor essere  sulla carta, è diventata di fatto quasi  una repubblica semipresidenziale, con un parlamento  sotto il discredito  della corruzione ormai non più occultabile dell’intera classe politica, attaccato dal dilagare dell’”antipolitica”, complessivamente delegittimato nelle pubbliche opinioni, largamente deprivato delle sue funzioni istituzionali perché  rassegnato ad elargire una sequela  interminabile di voti di fiducia  ai provvedimenti elaborati  da un “governo tecnico” e di “tecnici” che potrebbe anche dirsi un “governo del Presidente”.  Il tutto, in un assetto parlamentare dai caratteri  vistosamente trasformistici nel quale  la maggioranza (per molti versi una finta e costretta maggioranza!) è così larga da coincidere quasi con la totalità, mentre le residuali istanze di differenziazione politica  tra i suoi membri appaiono sempre meno possibili e credibili.
 Seppure sotto la pressione di un’emergenza nazionale-internazionale, siamo pervenuti al punto forse estremo delle gravi deformazioni  causate dal populismo berlusconiano al  sistema politico italiano. Ed è quasi scontato che non saranno deformazioni reversibili.  Il “governo tecnico” di Monti  è nato con una dinamica piuttosto simile a quella del governo Badoglio dopo la caduta di Mussolini: certo non per decreto regio, ma  per  un atto di investitura  presidenziale  giustificato da uno stato di necessità impostosi sui partiti. E, data quella strana maggioranza “trasformistico-totalitaria” costituitasi ambiguamente a suo sostegno in parlamento, si è posto in un rapporto contradditorio e ambiguo dicontinuità-rottura  con la fase precedente: ciascuno , dentro quella strana maggioranza, sarebbe stato autorizzato – fatto salvo l’impegno a sostenerlo – a rappresentarselo di volta in volta comecontinuità o come rottura. In ogni caso, per tutti, il professor Monti ha subito incarnato, con qualità e risorse di prestigio personale ben maggiori di quelle dell’ormai indecente Berlusconi,  quella stessa leadership carismatica fondata su un rapporto diretto tra il principe  e l’opinione pubblica (largamente a prescindere dall’organizzazione della politica in partiti)  alla quale il  populismo berlusconiano aveva già abituato il Paese e il suo  discreditato parlamento. E non pare che, giunto al termine di un anno di governo, il professor Monti disdegni l’eventualità di ritornare a governare sui partiti e sul  parlamento dopo le prossime elezioni, senza essersi sottoposto alla verifica del voto popolare ma ancora investito da esigenze di “salute pubblica”, ancora in virtù del suo prestigio, dato per insostituibile, nelle sedi europee e mondiali del capitalismo globalizzato. Naturalmente, estimatori, sodali e consorti, complici e famigli presenti trasversalmente un po’ in tutti i partiti, sotto l’assedio dell’”antipolitica”  fomentata e gestita dall’imponente movimento “grillino”, sono all’opera per  propiziare  la realizzazione  di una siffatta eventualità, mediante una legge elettorale studiata ad hoc.  
Nel complesso, in un ventennio, si è passati dall’”unto del popolo” che presumeva di essere egli stesso la legge al di sopra delle leggi in virtù del larghissimo “consenso”  conquistato,  ovvero estorto, con le sue televisioni,  all”unto dei mercati finanziari” che presume di non aver bisogno di essere eletto perché legittimato, per competenza e merito, dalle ragioni sovrane del capitalismo internazionale alle quali  il popolo non  potrebbe sottrarsi senza rischiare di  perdere del tutto, in un Paese condannato a pagare amaramente i debiti accumulati dalla sua classe dirigente corrotta e spendacciona,  la possibilità di continuare ad essere  ciò che da decenni  è stato e si è abituato ad essere, cioè, soprattutto,  un popolo di “consumatori”. Naturalmente, tra  le due unzioni  si svolge il passaggio da un’idea decisamente  populistica  del governo (Berlusconi) a  un’altra idea del potere, che potrebbe dirsi “meritocratica” (Monti). Il filo che le unisce, nonostante la loro diversità,  è il fatto – lo si è già rilevato e giova ripetere – di essere entrambe riferibili ad una concezione carismatica del potere, recitata al singolare, nella figura, appunto carismatica, del leader  nella sua eccellente e dominante  individualità, ovvero, come è meglio dire, del principe. Il che è mille miglia lontano  da una qualsiasi repubblica parlamentare fondata su quei soggetti collettivi che si chiamano partiti. In un certo senso,  con buona approssimazione, si potrebbe dire che il berlusconismo ha generato il montismo che  potrebbe avviarsi a costituirne  non proprio l’alternativa ma la trasformazione (non necessariamente in progress),  in ubbidienza a criteri di legittimazione internazionale (la conclamata  competenza al posto di un inaffidabile consenso  elettorale) richiesti dai cosiddetti “mercati”. Aggiungasi che la sostanza del progetto di governo è quasi identica   sia per l’uno che per l’altro perché  per entrambi  consiste in  un’integrale  sottomissione agli indirizzi del  liberismo e in  una visione dell’attuale corso storico  e delle  sue prospettive che  assume e valuta il capitalismo nella sua attuale forma globale come un  ordine economico-sociale di per sé  naturale e senza alternative (capitalismus  sive natura, per dirla con il linguaggio di Spinoza).
Nelle condizioni sopra descritte, se si consolideranno e diventeranno così come è da prevedersi  irreversibili, c’è da chiedersi che cosa sia rimasto della democrazia come potere popolare sulle  istituzioni e sul governo. E’ rimasto il nome, ritualmente invocato, con enfasi  e quasi con ansiosa ricerca di forme concrete per renderlo credibile. E, certamente,  è in linea con questa ansiosa ricerca il lodevole impegno  manifestato soprattutto dal PD per l’introduzione e l’attuazione in Italia delle primarie con un fine di parte e un altro di ben più rilevante portata generale: il  primo,  quello di  misurare ed ampliare la  forza di partito e del cosiddetto centro-sinistra; il secondo, quello di stimolare, tramite la scelta dal basso dei candidati ai ruoli di governo, la partecipazione dei cittadini alla vita politica, opponendo appunto  una prova di  partecipazione sia all’astensionismo che all’antipolitica. Una prova,  a quanto pare, ben riuscita in entrambe le direzioni. Ma, a meglio vedere, si è data soprattutto la prova  di un’ormai definitiva “personalizzazione” della politica  e se ne  sono potenziate le costumanze, le ambizioni carismatiche, le  ideazioni e  recitazioni  spettacolari.  Il che in evidente antitesi con la tradizione democratica della  politica “pensata”, dibattuta, molecolarmente  elaborata e pesata nei suoi progetti e nei suoi fini nelle operose assemblee dei militanti dei partiti: un passato certo ormai assai lontano nel tempo, ma definitivamente  annientato  soltanto dopo il 1989, particolarmente, in Italia,  nei più recenti anni  di Berlusconi.
In definitiva, le primarie hanno evidenziato  quella tendenza ad un esercizio di tipo carismatico-populistico della politica inaugurato, con la maggiore  evidenza e con i peggiori effetti, dal berlusconismo. A prescindere  da una preliminare e organica  elaborazione di progetti e proposte del  centro-sinistra (un’elaborazione peraltro quasi impossibile date le assai rilevanti  differenze che corrono tra componenti come SEL  e PD e tra correnti  all’interno stesso del PD), l’intera area  politica  ha offerto un suo spettacolo di  potenziale vitalità  politica  articolandosi, sulla pubblica  scena, nelle figure fisiche e nelle voci di Bersani, Renzi e Vendola, ed evidenziando quanto  ormai siano i leader   e sempre meno i partiti a dettare la linea e a formulare, se ci riescono,  delle proposte convincenti. Non a caso è entrata con prepotenza  nel linguaggio comune e in quello politico, a dispetto  della buona lingua e del ben pensare, l’orrenda espressione “metterci la faccia”.
Paradossalmente, con le primarie i partiti che l’hanno organizzate hanno evidenziato che non sono più dei soggetti collettivi e neppure dei soggetti tout court. A volere usare una lente di ingrandimento sulle previsioni,  si potrebbe dire, per esempio, che in un prossimo futuro non si saprà mai più che cosa significhi la parola PD  se non  considerandola di volta in volta sinonimo di  un Bersani (con il suo proprio corredo oligarchico)   o di un  Renzi (con il suo proprio corredo oligarchico)  e sarà una cosa darle senso e significatività politica   tramite un Bersani e un’altra cosa  tramite un  Renzi. Naturalmente, per questa via già tracciata, si perviene al massimo grado di un leaderismo coincidente con un’apparente de-ideologizzazione della politica (un altro frutto della stagione berlusconiana, molto gradito soprattutto a Renzi) che è in verità, nel contempo, un’adesione  più o meno consapevole  al “pensiero unico”, e pertanto all’ideologia, del capitalismo (un comune portato sia del berlusconismo che del suo succedaneo  montiano).
Viste in quest’ottica, le primarie  del centro-sinistra (e saranno inevitabilmente analoghe, seppure più modeste e confuse, anche quelle del centro-destra  se riusciranno a svolgersi)   evidenziano soprattutto che è in corso un processo  di autodistruzione dei partiti, impegnati come sono nel far da piedistalli alla vanità dei  singoli  aspiranti a più o meno  illusorie leadership  carismatiche  con l’obiettivo di  conquistare e stabilizzare un loro rapporto diretto, senza mediazioni, con  un  “popolo” adulato, ma soprattutto adescato, con  messaggi estemporanei di studiata  efficacia propagandistica e analizzato con i sondaggi di opinione nella variabilità dei suoi gusti e delle sue emozioni come si fa normalmente con un “popolo di consumatori”.  In un siffatto sviluppo dei processi politici, sarà ancor più  la Politica (con la maiuscola) a perder di senso e di valore, riducendosi a mero marketing   in un contesto complessivo nel quale la  de-ideologizzazione, perseguita come una nuova  pubblica virtù, in realtà induce a rinunziare alle grandi “visioni del mondo”  e ad appiattire il lavoro politico sulla  mera “amministrazione” dell’esistente. Le primarie confermano  questa crisi , persino  tentano di esorcizzarla facendone uno spettacolo di massa, ma certo  non la arginano, non ne rimuovono le cause, non ne intaccano la natura autodistruttiva.
Di quel che di sempre più intristente sta accadendo alla Politica, Bersani (che è uomo di “apparato” con ancora un qualche filo di lucida memoria che lo lega al vecchio Pci)  è apparso consapevole e afflitto dichiarando  in più occasioni  la sua opposizione al leaderismo,  ma in evidente contraddizione con il suo ruolo di  organizzatore della stessa gara per la leadership; al contrario, un Renzi,  che delle vocazioni leaderistiche emergenti da una generazione formatasi nel berlusconismo  è insieme l’alfiere e il testimone più spregiudicato, non è neanche in grado di porsi la questione.
Per quanto, poi, riguarda i messaggi programmatici diffusi nella campagna elettorale (in specie per l’economia), sia l’uno che l’altro – seppure con diversità non irrilevanti – restano nell’orbita (alla quale accede anche Vendola, avendo firmato una comune dichiarazione di intenti prima della gara) delle  linee strategiche fondamentalmente  di tipo capital-liberiste  indicate e perseguite dal governo Monti, accampando gli imperativi e i limiti che vengono dai  cosiddetti “mercati” e da ineffabili “richieste” dell’Europa. Assai singolare è che il giovane sindaco di Firenze, con ben maggiore ardimento rispetto a  Bersani e a Vendola,  nel suo professato impegno  innovatore-rottamatore, si sia spinto ad assumere come un programma di “sinistra” quello stesso, del prof. Zingales della scuola di Chicago, che è stato ed è il programma della destra statunitense. Ed è altrettanto singolare che, nell’operare questa disinvolta conversione di idee di destra in ipotesi per una politica di sinistra abbia tentato di accreditarsi come l’Obama italiano.
Evidentemente, il punto estremo e vistoso della crisi della Politica consiste nel non riuscire più a distinguere tra progettualità di “destra” e progettualità di “sinistra” e poi nel miscelarle entrambe in una melma di pseudoconcetti  e di proposte  sempre “fluide” e ambivalenti e sempre ritraibili. Il che rivela un degrado, oltre che “ideologico”, anche e soprattutto culturale, della Politica che lascia intravedere  un paradossale esito della corsa al leaderismo: la sua inadeguatezza persino al fine di produrre un leaderdegno di questo nome, uno che sia minimamente rappresentabile come uno statista. Entra perfettamente nel quadro descritto l’avvilente e avvilita confusione dello stesso “popolo” che era detto  il “popolo di sinistra” nelle cosiddette regioni rosse del Paese: in quel contenitore di confusioni e di disorientamenti funzionali al trasformismo dei politici, è diventato consueto  che si scambino  per  proposte “progressiste” (e pertanto di “sinistra”) genericamente le idee di cambiamento e di “innovazione”, si tratti pure di quelle di Renzi  che innovative, per quanto vogliano essere, in realtà “innovano”  indicando  una prospettiva  che mai potrebbe appartenere ad un’autentica sinistra, ovvero la prospettiva di una specie di gestione sociale del liberismo, nel capitalismo contemplato – per tornare a una riflessione già svolta innanzi – come un definitivo e intangibile status  naturale della storia. In breve, idee reazionarie assunte come progressiste; e la confusione è possibile perché anche la reazione, a pensarci bene, propone  a suo modo di “innovare”, seppure a ritroso. Nel caso specifico, a ritroso rispetto allo Stato sociale e alle conquiste dei lavoratori.
Ma, c’è proprio da domandarci, in conclusione:  che cosa di meglio potremmo aspettarci in un contesto nel quale  un importante quotidiano progressista  ha  titolato “Bersani-Renzi, duello finale”, mentre il leader  più dotato di memoria, cioè Bersani, continua a chiamare il partito la ”ditta” e Renzi, dal canto suo, si  è immaginato  che vincere le primarie fosse come vincere il Festival di San Remo?  Un ventennio di berlusconismo ha prodotto irreversibili mutazioni antropologiche,  anche nel “popolo della sinistra” e soprattutto nei  personaggi che aspirano ad esserne i campioni. Nelle loro teste, nel loro stile di far politica, nel loro linguaggio.  Stiamo affogando in un’immensa palude. Quanto sarà difficile in un indeterminato  futuro che si formino delle nuove avanguardie di massa per uscirne e  far rinascere una credibile civiltà della democrazia!
GIUSEPPE CARLO MARINO         
Lunedì 3 dicembre 2012

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