Lo storico Giuseppe Carlo Marino |
Alle amiche
e agli amici sottopongo questa nota sulle primarie (di prossima
pubblicazione nella rivista on-line A SUD D'EUROPA) come personale
contributo critico ad una questione che mi sembra così sintetizzabile: queste
benedette primarie rilanciano la democrazia e la Politica (con la "p"
maiuscola) o ne verificano e ne sanciscono il declino definitivo verso il
populismo? Ci vorrà,
forse, una certa pazienza per leggerla con attenzione, ma spero di attivare un
po' di dibattito e di ricevere osservazioni, critiche e proposte di
integrazione.
LE PRIMARIE
E LA CRISI ORGANICA DELLA DEMOCRAZIA E DELLA POLITICA
Ottimo,
sotto il sole incredulo e incredibile di questa quasi-estate di fine novembre:
c’è in Italia un cosiddetto popolo di sinistra (invero, per la precisione,
di centro-sinistra) che ancora pare nutrirsi e appassionarsi di
politica. Dibatte poco da quando del dibattito ha perduto l’istanza
e il costume. Però ascolta quei pochi che del dibattere in pubblico (specie in
televisione) hanno fatto una professione e va a votare in lunghe code pazienti
e disciplinate. Questo, a lume di naso, sarebbe da dirsi “democrazia”, se la
democrazia ha un credibile presente e avrà un riconoscibile futuro.
Tuttavia il
dubbio è d’obbligo perché queste “primarie” di imperfetta importazione
americana costituiscono una specie di gara (qualcuno direbbe una singolare
kermesse) nella quale i gareggianti, aspirano a conquistarsi in proprio,
singolarmente, in singolare appropriazione integrata alle loro facce, ben più
che un’investitura democratica, un uso personale della democrazia purché
gentilmente legittimato da un voto popolare: quasi a dire “permettete, se non
vi dispiace, che comandi io!”.
Mentre è
certo che poi il vincitore, chiunque egli sia, comanderà in
un ambito assai ristretto di modeste questioni di contea e di conteggi
amministrativi perché, come è noto, sulle grandi decisioni gravano ormai,
imperiosi e ineludibili, i diktat del potere economico e in specie quelli
del capitalismo globalizzato; la gara, o kermesse che dir si
voglia, tende a ridurre il ruolo dei partiti – come si avrà qui modo di
spiegare più avanti − dal loro ruolo storico di centrali
stabili di coerente militanza e di elaborazione
politico-ideologico-culturale a quello di macchine
organizzative il cui uso, un uso competitivo in condominio da
parte degli iscritti, consente ad alcuni di entrare in concorrenza
con altri per la conquista di una leadership personale. Vedremo
meglio in seguito come e perché si tratti di un andamento della
lotta politica in qualche modo riconducibile al populismo, fenomeno
assai tipico dei nostri tempi che ognuno, se proprio vuole, e con
generosità e molto rischio nel giudizio, può continuare a vedere come una
versione abnorme e imbastardita della democrazia nelle società postmoderne.
Trattandosi comunque
di un processo in corso che appartiene per intero alla crisi della
democrazia nell’era della globalizzazione, la questione non è
specificamente italiana. Ma è specifica per l’Italia la dinamica di tale
processo nella cosiddetta “seconda repubblica” fino agli esiti
odierni che incidono sulle istituzioni e sulla stessa
“Costituzione materiale”, nonché sul quadro politico-sociale nel
quale si sono svolte le “primarie” del centro-sinistra.
In Italia,
se questa storia , quanto alle sue origini e cause ormai
remote, non può prescindere dal crollo del sistema di potere
democristiano sotto la bufera di Tangentopoli e dal quadro
degli effetti provocati nel contesto nazionale dagli eventi
internazionali successivi al 1989 ( fine del ciclo storico del
bipolarismo Usa-Urss, implosione del “socialismo reale” con
conseguente disorientamento, fino all’autodistruzione, del Pci , esaurimento
del ruolo storico della Dc come antemurale al comunismo, ecc.); nel suo
svolgimento, è una storia che si è concretizzata nell’affermazione del
regime populistico di Berlusconi nell’orizzonte opaco della transizione a
una “seconda repubblica” rimasta sempre ipotetica e mai concretamente
realizzatasi. Nel contempo, è accaduto che un ventennio di berlusconismo
abbia di fatto generato strada facendo, in un modo tanto profondo quanto
informale e generalmente inavvertito, una rilevante modificazione del
profilo istituzionale della repubblica parlamentare nata nel 1947.
E’ stato proprio l’originario carattere parlamentare della
repubblica ad esserne sostanzialmente investito, pur senza cambiare di una sola
virgola la Costituzione per quanto riguarda i rapporti tra governo
e parlamento.
Nel
ventennio, a fronte della leadership populistica di Berlusconi, le forze
politiche alternative sempre più confuse e incapaci di compattamento
unitario (anche negli intervalli di temporanea rivalsa con i
governi dell’”Ulivo” e di centro-sinistra) hanno espresso la tendenza ad
affidare de facto soprattutto alla presidenza della
repubblica la funzione estrema e faticosa di difendere il più
possibile dal populismo berlusconiano le prerogative e i poteri del
parlamento. Ne è conseguita, per la presidenza della repubblica (da Ciampi a
Napolitano), un’informale acquisizione di crescenti compiti di
intervento politico molto più consistenti di una mera moral
suasion (compiti e funzioni sostanzialmente digoverno),
al di là del formale dettato costituzionale. La stessa caduta di Berlusconi
è da vedersi come un successo dell’informale azione di governo della
presidenza della repubblica, un successo reso possibile da una gravissima
emergenza nazionale che, contestualmente all’evidente discredito
internazionale di un ormai ridicolo Caimano, aveva sollevato
l’angoscia collettiva per un prossimo “fallimento” dello Stato
italiano sotto i colpi della speculazione internazionale nei mercati.
Caduto
Berlusconi, adesso il presidente Napolitano si appresta a consegnare al
suo successore l’eredità di una repubblica che, da parlamentare che era e
dovrebbe ancor essere sulla carta, è diventata di fatto quasi una repubblica
semipresidenziale, con un parlamento sotto il discredito della
corruzione ormai non più occultabile dell’intera classe politica, attaccato dal
dilagare dell’”antipolitica”, complessivamente delegittimato nelle pubbliche
opinioni, largamente deprivato delle sue funzioni istituzionali perché
rassegnato ad elargire una sequela interminabile di voti di fiducia
ai provvedimenti elaborati da un “governo tecnico” e di “tecnici” che
potrebbe anche dirsi un “governo del Presidente”. Il tutto, in un assetto
parlamentare dai caratteri vistosamente trasformistici nel quale la
maggioranza (per molti versi una finta e costretta maggioranza!) è così larga
da coincidere quasi con la totalità, mentre le residuali istanze di
differenziazione politica tra i suoi membri appaiono sempre meno
possibili e credibili.
Seppure
sotto la pressione di un’emergenza nazionale-internazionale, siamo pervenuti al
punto forse estremo delle gravi deformazioni causate dal populismo
berlusconiano al sistema politico italiano. Ed è quasi scontato che non
saranno deformazioni reversibili. Il “governo tecnico” di Monti è
nato con una dinamica piuttosto simile a quella del governo Badoglio dopo la
caduta di Mussolini: certo non per decreto regio, ma per un atto di
investitura presidenziale giustificato da uno stato di necessità
impostosi sui partiti. E, data quella strana maggioranza
“trasformistico-totalitaria” costituitasi ambiguamente a suo sostegno in
parlamento, si è posto in un rapporto contradditorio e ambiguo dicontinuità-rottura con
la fase precedente: ciascuno , dentro quella strana maggioranza, sarebbe stato
autorizzato – fatto salvo l’impegno a sostenerlo – a rappresentarselo di volta
in volta comecontinuità o come rottura. In ogni caso,
per tutti, il professor Monti ha subito incarnato, con qualità e risorse di
prestigio personale ben maggiori di quelle dell’ormai indecente
Berlusconi, quella stessa leadership carismatica fondata su un rapporto
diretto tra il principe e l’opinione pubblica
(largamente a prescindere dall’organizzazione della politica in partiti)
alla quale il populismo berlusconiano aveva già abituato il Paese e
il suo discreditato parlamento. E non pare che, giunto al termine di un
anno di governo, il professor Monti disdegni l’eventualità di ritornare a
governare sui partiti e sul parlamento
dopo le prossime elezioni, senza essersi sottoposto alla verifica del voto
popolare ma ancora investito da esigenze di “salute pubblica”, ancora in virtù
del suo prestigio, dato per insostituibile, nelle sedi europee e mondiali del
capitalismo globalizzato. Naturalmente, estimatori, sodali e consorti, complici
e famigli presenti trasversalmente un po’ in tutti i partiti, sotto l’assedio
dell’”antipolitica” fomentata e gestita dall’imponente movimento
“grillino”, sono all’opera per propiziare la realizzazione di
una siffatta eventualità, mediante una legge elettorale studiata ad
hoc.
Nel
complesso, in un ventennio, si è passati dall’”unto del popolo” che
presumeva di essere egli stesso la legge al di sopra delle
leggi in virtù del larghissimo “consenso” conquistato, ovvero
estorto, con le sue televisioni, all”unto dei mercati
finanziari” che presume di non aver bisogno di essere eletto perché
legittimato, per competenza e merito, dalle ragioni sovrane del capitalismo
internazionale alle quali il popolo non potrebbe sottrarsi senza
rischiare di perdere del tutto, in un Paese condannato a pagare
amaramente i debiti accumulati dalla sua classe dirigente corrotta e
spendacciona, la possibilità di continuare ad essere ciò che da
decenni è stato e si è abituato ad essere, cioè, soprattutto, un
popolo di “consumatori”. Naturalmente, tra le due unzioni
si svolge il passaggio da un’idea decisamente populistica del
governo (Berlusconi) a un’altra idea del potere, che potrebbe dirsi
“meritocratica” (Monti). Il filo che le unisce, nonostante la loro
diversità, è il fatto – lo si è già rilevato e giova ripetere – di essere
entrambe riferibili ad una concezione carismatica del potere, recitata al
singolare, nella figura, appunto carismatica, del leader nella sua
eccellente e dominante individualità, ovvero, come è meglio dire, del principe. Il
che è mille miglia lontano da una qualsiasi repubblica parlamentare
fondata su quei soggetti collettivi che si chiamano partiti. In un certo
senso, con buona approssimazione, si potrebbe dire che il berlusconismo
ha generato il montismo che potrebbe avviarsi a costituirne non
proprio l’alternativa ma la trasformazione (non necessariamente in progress),
in ubbidienza a criteri di legittimazione internazionale (la conclamata
competenza al posto di un inaffidabile consenso elettorale) richiesti dai
cosiddetti “mercati”. Aggiungasi che la sostanza del progetto di governo è
quasi identica sia per l’uno che per l’altro perché per
entrambi consiste in un’integrale sottomissione agli
indirizzi del liberismo e in una visione dell’attuale corso
storico e delle sue prospettive che assume e valuta il
capitalismo nella sua attuale forma globale come un ordine
economico-sociale di per sé naturale e senza alternative (capitalismus
sive natura, per dirla con il linguaggio di Spinoza).
Nelle
condizioni sopra descritte, se si consolideranno e diventeranno così come è da
prevedersi irreversibili, c’è da chiedersi che cosa sia rimasto della
democrazia come potere popolare sulle istituzioni e sul governo. E’
rimasto il nome, ritualmente invocato, con enfasi e quasi con ansiosa ricerca
di forme concrete per renderlo credibile. E, certamente, è in linea con
questa ansiosa ricerca il lodevole impegno manifestato soprattutto dal PD
per l’introduzione e l’attuazione in Italia delle primarie con un fine di parte
e un altro di ben più rilevante portata generale: il primo, quello
di misurare ed ampliare la forza di partito e del cosiddetto
centro-sinistra; il secondo, quello di stimolare, tramite la scelta dal basso
dei candidati ai ruoli di governo, la partecipazione dei cittadini alla vita
politica, opponendo appunto una prova di partecipazione sia
all’astensionismo che all’antipolitica. Una prova, a quanto pare, ben
riuscita in entrambe le direzioni. Ma, a meglio vedere, si è data soprattutto
la prova di un’ormai definitiva “personalizzazione” della politica
e se ne sono potenziate le costumanze, le ambizioni carismatiche,
le ideazioni e recitazioni spettacolari. Il che in
evidente antitesi con la tradizione democratica della politica “pensata”,
dibattuta, molecolarmente elaborata e pesata nei suoi progetti e nei suoi
fini nelle operose assemblee dei militanti dei partiti: un passato certo ormai
assai lontano nel tempo, ma definitivamente annientato soltanto
dopo il 1989, particolarmente, in Italia, nei più recenti anni di
Berlusconi.
In
definitiva, le primarie hanno evidenziato quella tendenza ad un esercizio
di tipo carismatico-populistico della politica inaugurato, con la
maggiore evidenza e con i peggiori effetti, dal berlusconismo. A
prescindere da una preliminare e organica elaborazione di progetti
e proposte del centro-sinistra (un’elaborazione peraltro quasi
impossibile date le assai rilevanti differenze che corrono tra componenti
come SEL e PD e tra correnti all’interno stesso del PD), l’intera
area politica ha offerto un suo spettacolo di potenziale
vitalità politica articolandosi, sulla pubblica scena, nelle
figure fisiche e nelle voci di Bersani, Renzi e Vendola, ed evidenziando
quanto ormai siano i leader e sempre meno i partiti a dettare
la linea e a formulare, se ci riescono, delle proposte convincenti. Non a
caso è entrata con prepotenza nel linguaggio comune e in quello politico,
a dispetto della buona lingua e del ben pensare, l’orrenda espressione
“metterci la faccia”.
Paradossalmente,
con le primarie i partiti che l’hanno organizzate hanno evidenziato che non
sono più dei soggetti collettivi e neppure dei soggetti tout court. A volere
usare una lente di ingrandimento sulle previsioni, si potrebbe dire, per
esempio, che in un prossimo futuro non si saprà mai più che cosa significhi la
parola PD se non considerandola di volta in volta sinonimo di
un Bersani (con il suo proprio corredo oligarchico) o di un
Renzi (con il suo proprio corredo oligarchico) e sarà una cosa darle senso
e significatività politica tramite un Bersani e un’altra cosa
tramite un Renzi. Naturalmente, per questa via già tracciata, si perviene
al massimo grado di un leaderismo coincidente con un’apparente
de-ideologizzazione della politica (un altro frutto della stagione
berlusconiana, molto gradito soprattutto a Renzi) che è in verità, nel
contempo, un’adesione più o meno consapevole al “pensiero unico”, e
pertanto all’ideologia, del capitalismo (un comune portato sia del
berlusconismo che del suo succedaneo montiano).
Viste in
quest’ottica, le primarie del centro-sinistra (e saranno inevitabilmente
analoghe, seppure più modeste e confuse, anche quelle del centro-destra
se riusciranno a svolgersi) evidenziano soprattutto che è in
corso un processo di autodistruzione dei partiti, impegnati come sono nel
far da piedistalli alla vanità dei singoli aspiranti a più o
meno illusorie leadership carismatiche con l’obiettivo
di conquistare e stabilizzare un loro rapporto diretto, senza mediazioni,
con un “popolo” adulato, ma soprattutto adescato, con
messaggi estemporanei di studiata efficacia propagandistica e analizzato
con i sondaggi di opinione nella variabilità dei suoi gusti e delle sue
emozioni come si fa normalmente con un “popolo di consumatori”. In un
siffatto sviluppo dei processi politici, sarà ancor più la Politica (con
la maiuscola) a perder di senso e di valore, riducendosi a mero marketing in
un contesto complessivo nel quale la de-ideologizzazione, perseguita come
una nuova pubblica virtù, in realtà induce a rinunziare alle grandi
“visioni del mondo” e ad appiattire il lavoro politico sulla mera
“amministrazione” dell’esistente. Le primarie confermano questa crisi ,
persino tentano di esorcizzarla facendone uno spettacolo di massa, ma
certo non la arginano, non ne rimuovono le cause, non ne intaccano la
natura autodistruttiva.
Di quel che
di sempre più intristente sta accadendo alla Politica, Bersani (che è uomo di
“apparato” con ancora un qualche filo di lucida memoria che lo lega al vecchio
Pci) è apparso consapevole e afflitto dichiarando in più
occasioni la sua opposizione al leaderismo, ma in evidente
contraddizione con il suo ruolo di organizzatore della stessa gara per la
leadership; al contrario, un Renzi, che delle vocazioni leaderistiche
emergenti da una generazione formatasi nel berlusconismo è insieme
l’alfiere e il testimone più spregiudicato, non è neanche in grado di porsi la
questione.
Per quanto,
poi, riguarda i messaggi programmatici diffusi nella campagna elettorale (in
specie per l’economia), sia l’uno che l’altro – seppure con diversità non
irrilevanti – restano nell’orbita (alla quale accede anche Vendola, avendo
firmato una comune dichiarazione di intenti prima della gara) delle linee
strategiche fondamentalmente di tipo capital-liberiste indicate e
perseguite dal governo Monti, accampando gli imperativi e i limiti che vengono
dai cosiddetti “mercati” e da ineffabili “richieste” dell’Europa. Assai
singolare è che il giovane sindaco di Firenze, con ben maggiore ardimento
rispetto a Bersani e a Vendola, nel suo professato impegno
innovatore-rottamatore, si sia spinto ad assumere come un programma di
“sinistra” quello stesso, del prof. Zingales della scuola di Chicago, che è
stato ed è il programma della destra statunitense. Ed è altrettanto singolare
che, nell’operare questa disinvolta conversione di idee di destra in ipotesi
per una politica di sinistra abbia tentato di accreditarsi come l’Obama
italiano.
Evidentemente,
il punto estremo e vistoso della crisi della Politica consiste nel non riuscire
più a distinguere tra progettualità di “destra” e progettualità di “sinistra” e
poi nel miscelarle entrambe in una melma di pseudoconcetti e di
proposte sempre “fluide” e ambivalenti e sempre ritraibili. Il che rivela
un degrado, oltre che “ideologico”, anche e soprattutto culturale, della
Politica che lascia intravedere un paradossale esito della corsa al
leaderismo: la sua inadeguatezza persino al fine di produrre un leaderdegno
di questo nome, uno che sia minimamente rappresentabile come uno statista.
Entra perfettamente nel quadro descritto l’avvilente e avvilita confusione
dello stesso “popolo” che era detto il “popolo di sinistra” nelle
cosiddette regioni rosse del Paese: in quel contenitore di confusioni e di
disorientamenti funzionali al trasformismo dei politici, è diventato consueto
che si scambino per proposte “progressiste” (e pertanto di
“sinistra”) genericamente le idee di cambiamento e di “innovazione”, si tratti
pure di quelle di Renzi che innovative, per quanto vogliano essere, in
realtà “innovano” indicando una prospettiva che mai potrebbe
appartenere ad un’autentica sinistra, ovvero la prospettiva di una specie di
gestione sociale del liberismo, nel capitalismo contemplato – per tornare a una
riflessione già svolta innanzi – come un definitivo e intangibile status naturale
della storia. In breve, idee reazionarie assunte come progressiste; e la
confusione è possibile perché anche la reazione, a pensarci bene, propone
a suo modo di “innovare”, seppure a ritroso. Nel caso specifico, a
ritroso rispetto allo Stato sociale e alle conquiste dei lavoratori.
Ma, c’è
proprio da domandarci, in conclusione: che cosa di meglio potremmo
aspettarci in un contesto nel quale un importante quotidiano progressista
ha titolato “Bersani-Renzi, duello finale”, mentre il leader
più dotato di memoria, cioè Bersani, continua a chiamare il partito la
”ditta” e Renzi, dal canto suo, si è immaginato che vincere le
primarie fosse come vincere il Festival di San Remo? Un ventennio di
berlusconismo ha prodotto irreversibili mutazioni antropologiche, anche
nel “popolo della sinistra” e soprattutto nei personaggi che aspirano ad
esserne i campioni. Nelle loro teste, nel loro stile di far politica, nel loro
linguaggio. Stiamo affogando in un’immensa palude. Quanto sarà difficile
in un indeterminato futuro che si formino delle nuove avanguardie di
massa per uscirne e far rinascere una credibile civiltà della democrazia!
GIUSEPPE
CARLO MARINO
Lunedì 3 dicembre 2012
Nessun commento:
Posta un commento