di Rino
Giacalone
Non è una
invenzione né giudiziaria né giornalistica il tentativo della mafia di rivolgersi
allo Stato, alla sua solita maniera, senza bussare alla porta ma spalancandola
a colpi di di stragi, per ottenere un “41 bis” (le norme per il carcere duro)
meno restrittivo. La “trattativa” tra lo Stato e Cosa nostra oggi è oggetto di
un processo a Palermo, sicuramente trattativa ci fu e il lavoro inquirente sta
servendo a individuare i responsabili.
Ma non ci sono stati soltanto i
“papelli” o i proclami come quello fatto da Bagarella, il cognato di Riina, nel
2002 durante un processo a Trapani, o ancora non ci sono stati solo gli
striscioni come quello comparso un giorno al «Renzo Barbera», lo stadio di
Palermo, che aveva chiare parole di rimprovero per quei politici che sulla
riduzione del carcere duro non avevano mantenuto i patti; sul fronte della
guerra dichiarata sul 41 bis ci sono anche i morti ammazzati, anzi c’è un morto
ammazzato che non ha mai suscitato sufficiente indignazione. Giuseppe Montalto
era un agente penitenziario, lavorava all’Ucciardone, a Palermo, dopo avere
prestato servizio a Torino. Fu ucciso il 23 dicembre 1995. Antivigilia di
Natale. Giuseppe Montalto non è stato mai considerato una vittima eccellente,
perché non era uomo che sedeva nei posti alti delle istituzioni. Era una
persona semplice, un “cittadino” che lavorava facendo l’agente di polizia
penitenziaria, secondino si diceva una volta, oppure guardia carcere, fredda
dizione cancellata dalla modifica di norme e regolamenti che hanno finito con
il dare a questi agenti maggiori e precise responsabilità. Giuseppe Montalto
era soprattutto un servitore dello Stato, fedele sempre: comportamento che,
dopo la sua morte, gli è valsa una medaglia alla memoria che non ha restituito
pieno onore, perché sono mancate nel tempo memoria e ricordo del suo
sacrificio. Montalto ha pagato con la vita il suo essere onesto e il rispetto
per la divisa che indossava, come altri hanno pagato con la vita la loro
dedizione alla legalità e contro le mafie. Una morte che è stata patrimonio
doloroso e sconvolgente della società civile e delle istituzioni solo per poche
ore, per poi rimanere ricordo solo dei suoi familiari. Un eroe da ricordare
solo velocemente nella data della ricorrenza del delitto, il 23 dicembre, senza
mai interrogarsi sul perché di quel delitto efferato, violento. Un omicidio che
per i mafiosi era “una cosa buona”, parole di Matteo Messina Denaro, il
superlatitante, capo di Cosa nostra trapanese e forse non solo.
Giuseppe
Montalto fu ammazzato l’antivigilia di Natale di 17 anni fa. Quando fu ucciso
era in procinto di salire sulla sua auto, una Fiat Tipo targata Torino, dopo
essersi fermato davanti alla casa dei suoceri, in contrada Palma, per portare
loro delle bombole di gas. In auto era rimasta seduta sul sedile anteriore del
passeggero la moglie, la giovanissima Liliana Riccobene, che ancora non sapeva
di essere in attesa della seconda figlia, Ilenia, che mai conoscerà il padre;
in braccio Liliana teneva la primogenita, Federica, di 10 mesi. Arrivarono i
killer, due uomini, con giubbotti neri e passamontagna: uno di loro sparò,
Giuseppe vide sicuramente quelle canne di fucile che minacciosamente gli
venivano puntate contro, Liliana invece sentì solo uno, due colpi, dei botti
che dapprima le sembrarono dei petardi, per poi vedere invece Giuseppe caderle
addosso, come a proteggere lei e la bambina. Liliana chiese al marito cosa
stesse accadendo mentre vedeva andare in frantumi il vetro dello sportello del
lato guida, ma non ebbe risposta perché nel frattempo ci fu un altro colpo
ancora, quello di grazia, alla testa. Il killer era Vito Mazzara, valdericino,
professionista che vestiva la divisa azzurra nei campionati nazionali di tiro a
volo. Ma era un uomo della mafia e non dello sport. Il processo ha sentenziato
che fu lui a uccidere, ma non era solo quella sera. A raccontare il delitto è
stato il pentito Francesco Milazzo, ex uomo d’onore di Paceco, uomo d’onore che
aveva allevato i suoi figli con i valori dell’onorata società, figli cresciuti
tanto bene da rinnegare il padre quando questi decise di collaborare con la
giustizia. Milazzo ha fatto i nomi di Vito Mazzara e Franco Orlando,
consigliere comunale del Psi a Trapani, all’epoca segretario particolare del
deputato regionale Bartolo Pellegrino, che in Corte di Assise andò a
testimoniare a suo favore. La cosidetta “monochiamata” di Milazzo non servì
alla condanna e Orlando fu assolto dal delitto, ma condannato per associazione
mafiosa. Oggi il “punciutu” dal boss Vincenzo Virga è tornato libero, abita
nella sua Dattilo, frazione di Paceco, e pare che vada in giro a vendere i famosi
cannoli di ricotta che si fanno in quella zona.
Vito Mazzara
e l’ignoto (sic!) complice dopo avere ucciso andarono via con freddezza,
lasciandosi alle spalle il dramma di una giovane madre e della sua piccola
bambina che in quella macchina si stava consumando. Maria Gabriella Riccobene,
sorella di Liliana, ha raccontato al processo di avere visto distintamente due
uomini allontanarsi solo dopo che uno dei due si era proteso dentro l’auto come
a volersi accertare dell’effettiva morte.
Giuseppe
Montalto è stato una vittima della mafia. In quei giorni i killer agli ordini
del capo mafia di Trapani Vincenzo Virga si stavano preparando a commettere un
altro omicidio. Il pentito Francesco Milazzo, che raccontò i retroscena
dell’omicidio Montalto, raccontò che obiettivo della mafia erano due
investigatori, il maresciallo dei carabinieri Bartolo Santomauro e uno dei
poliziotti che aveva cominciato a dare filo da torcere alla cupola, il
dirigente della Squadra Mobile Giuseppe Linares. In seguito arrivò una richiesta
specifica da Palermo attraverso i mafiosi di Salemi. Milazzo ha ricostruito un
colloquio avuto con Vito Mazzara al quale disse che era arrivato «l’ordine di
fermarsi, bisognava fare altro, si doveva uccidere uno “sbirro” per fare un
regalo di Natale a qualche amico che si trovava in carcere». C’era stata una
riunione di mafia a Salemi, un summit, durante il quale un mafioso palermitano
parlò per dire ai mafiosi trapanesi che era arrivato un messaggio da
“Ninuccio”, ossia Nino Madonia, indiscusso capo mafia di Palermo. “Ninuccio
manda a dire, dice, che vuole fatta una cortesia, voleva eliminata una guardia
carceraria” perché “si comportava male”. Il pentito Giovanni Brusca, anche lui
presente, in Corte di Assise ebbe a spiegare che “questa eliminazione aveva un
valore simbolico di monito nei confronti delle altre guardie carcerarie in
quanto in quel periodo circolava la voce che nelle carceri di Pianosa e
dell’Asinara si verificavano maltrattamenti ai danni dei detenuti”. Proprio nei
mesi precedenti, in carcere Nino Madonia aveva avuto modo di dire: “Non ci
dimentichiamo quello che ci stanno facendo passare, dobbiamo, finché viviamo,
non dimenticare tutte queste cose che ci stanno facendo”.
Il passa
parola tra i mafiosi trapanesi fu immediato: “Dobbiamo vedere di fare il più
presto possibile, così per Natale ci facciamo un regalo a qualche amico che è
in carcere…”. Con il delitto di Giuseppe Montalto i detenuti al 41 bis “si
facevano il Natale più allegro”.
Giuseppe
Montalto lavorava all’Ucciardone, il carcere di Palermo, si occupava dei
mafiosi al 41 bis. Nell’aprile del 1995, durante l’ora d’aria, si trovarono a
distanza ravvicinata alcuni pezzi da novanta: Mariano Agate, il capo della
mafia di Mazara, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e Raffaele Ganci, tutti
e tre boss palermitani. Un agente notò uno strano movimento, decise di mettere
a parte i quattro per la perquisizione, in questo frangente Giuseppe Montalto
vide Raffaele Ganci far scivolare dietro una tubatura un foglietto, lo prese e
lo consegnò al suo superiore raccontando quello che aveva visto. Per avere
intercettato quel «pizzino» fu segnato a morte dai boss e per questa ragione fu
ucciso (l’ordine venne dato con un altro pizzino alla maniera mafiosa). E in
questa morte c’entrano proprio la mafia violenta e la mafia che trattava con i
politici… eletti dai boss. Oggi proprio mentre si parla di 41 bis e trattative,
la morte di Giuseppe Montalto sembra dimenticata. Solo grazie all’associazione
Libera quella morte appartiene ad una fetta di società civile e non solo ai
familiari dell’ucciso. Il super boss (latitante) Matteo Messina Denaro, il capo
mafia di Trapani, Vincenzo Virga, il killer valdericino Vito Mazzara, e il
palermitano Nicolò Di Trapani, boss di Resuttana, sono stati condannati
all’ergastolo per questo delitto.
Anni dopo,
nel 1999, un’intercettazione della squadra Mobile colse il colloquio tra due
cugini di Virga, Franco e Baldassare: «A pecora mia “dammaggio” non ne fa, ma
sempre pecora è», così, con questa frase tipicamente trapanisi, Vincenzo Virga
spiegava a loro perché Giuseppe Montalto era stato ucciso, nell’immaginario
crudele dei mafiosi la pecora era lui, lui era l’animale, perché faceva il suo
lavoro onestamente, e aveva fatto tanto danno da meritare di essere ucciso, una
frase calzante nello scenario di Trapani, dove l’illegalità è diventata sistema
legale, e chi vuole essere onesto finisce per passare per disonesto. Montalto,
perché onesto, aveva fatto e poteva fare ancora danno a Cosa nostra.
I mesi
precedenti al delitto erano stati ad alta tensione dentro il carcere
dell’Ucciardone, circostanza che si apprenderà non durante le indagini sul
delitto Montalto, ma durante il processo. Liliana Riccobene, sentita dai
giudici, raccontò di quello che alcuni colleghi del marito andarono a dirle
facendole visita per il lutto, anche se alcuni in seguito negarono, tanto che
in Corte di Assise furono necessari imbarazzanti confronto tra qualcuno di loro
e la vedova dell’agente. E così durante il dibattimento si apprese che “girava
voce” dentro il IX braccio dell’Ucciardone, quello del 41 bis, che “era giunta
l’ora di farla pagare a qualcuno”. Si apprese che due agenti penitenziari erano
stati intimiditi, ad uno fecero trovare una foto dei giudici Falcone e Borsellino,
ritagliata dai giornali, sul sedile della sua auto; ad un altro dapprima dei
proiettili, poi falsi colleghi erano andati a cercarlo a casa della madre che
però insospettita non aprì loro la porta dell’abitazione. Tutto questo era
accaduto dopo una perquisizione nella cella di due “mammasantissima”, Salvatore
Biondino (l’autista di Totò Riina, arrestato dai carabinieri del Ros il 15
gennaio 1993 assieme al capo dei capi di Cosa nostra) e Francesco Tagliavia
(uno degli ultimi ad essere stato scoperto essere stato stragista mafioso di
quel tragico 1993, l’anno della trattativa a suon di bombe). Agli atti del
processo si continuerà a parlare di “voci dentro al carcere”, perché gli agenti
penitenziari chiamati a testimoniare non ebbero il coraggio di parlare.
Ci sono, in
questo omicidio, l’efferatezza del latitante Matteo Messina Denaro e la
freddezza del sicario, Vito Mazzara, che il pentito di Marsala Antonio Patti ha
definito “un pericolo con la scupetta”. Matteo Messina Denaro viene celebrato
dai suoi complici – ma non solo – come una persona da adorare; Giuseppe
Montalto non ha mai ricevuto una adeguata celebrazione, e fino a quando avremo
a che fare con queste contraddizioni la lotta alla mafia sarà sempre una strada
in salita.
La storia
della provincia di Trapani insegna che nel territorio non sono mai state poste
molte resistenze contro la mafia: ci hanno provato in pochi, qualcuno è passato
per untore, qualcun altro è stato isolato, qualcuno è stato trasferito o
cacciato dal posto occupato, qualcun altro è stato ammazzato. «Giuseppe – ci
racconta la vedova – non si è piegato alla volontà di chi all’interno di quella
sezione voleva eseguire alcuni favori. È morto da uomo libero portando con sé
il contenuto di quel messaggio da lui intercettato e mai arrivato al
destinatario».
«Eroe
silenzioso di questa terra» disse nella sua requisitoria in primo grado del
relativo processo (che si svolse nell’aula bunker del carcere di San Giuliano
in territorio di Erice) uno dei due pm, Ignazio De Francisci; l’altro era
Andrea Tarondo. Quel delitto era l’ultimo degli attacchi sferrati dalla mafia
allo Stato, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, dopo le bombe del
1993 a Roma, Firenze e Milano. Un omicidio da inserire nel contesto della
strategia stragista di Cosa nostra. «Eppure – si legge nella sentenza che ha
ripreso molti passaggi della requisitoria dei pm De Francisci e Tarondo – siamo
in presenza di uno Stato che è pronto a piangere i suoi servitori uccisi dalla
mafia, ma che spesso non fa nulla per evitare che la comunità finisca con il
dimenticare». «La metà degli anni 90 – ha ricordato in diverse occasioni il pm
Tarondo – furono anni di una guerra che Cosa nostra condusse anche nel
trapanese, approfittando anche di uno Stato che si comportava in modo anomalo,
diceva di combattere le mafie e invece cercava il dialogo, in centro come nelle
periferie del Paese. Oggi la mafia è più pericolosa perché cela la sua
presenza, è una mafia sommersa, non uccide perché segue in modo diverso i suoi
affari». Ma questo non significa che gli omicidi non fanno più parte dei suoi
piani, la mafia sparerà di nuovo, quando sarà il momento di sparare.
«L’evocazione
del martirio di Montalto – ha scritto in un libro l’ex capo della Procura di
Palermo, Gian Carlo Caselli, che all’epoca coordinò le indagini degli
investigatori della squadra mobile di Trapani guidata allora dal vice questore
Giuseppe Linares – ripropone poi l’interrogativo che sempre ci si deve porre di
fronte a una vittima della violenza mafiosa. I tanti morti di mafia, sono forse
morti anche perché noi non siamo stati abbastanza vivi? Perché tutti noi (noi
cittadini, noi Stato) non ci siamo abbastanza indignati? Non abbiamo vigilato a
dovere? Coloro che sono morti hanno visto la sopraffazione, l’illegalità, lo
scialo della violenza, la ricchezza facile e ingiusta, la debolezza delle
istituzioni. Questo hanno visto e per questo sono morti. Noi invece pur vedendo
le stesse cose, quante volte ci siamo accontentati dell’ipocrisia? Quante volte
abbiamo sentito e praticato, invece di spezzarlo, il giogo delle mediazioni e
degli accomodamenti, magari solo per quieto vivere? La storia del servizio di
Montalto nel carcere dell’Ucciardone è anche storia di isolamento e di
solitudine e quindi di sovraesposizione alla rappresaglia criminale. Storia di
una morte che deve costituire – per tutti noi – una condanna».
La morte di
Giuseppe Montalto è una ferita, e in questi giorni che si sente parlare tanto
di «trattative» con la mafia, di 41 bis da modificare o revocare, è una ferita
che è tornata a sanguinare, una ferita che mai potrà davvero rimarginarsi.
A Giuseppe
Montalto sono oggi intitolate le caserme degli agenti dei reparti di Palermo
Ucciardone e Agrigento e la Sala Convegno del Reparto di Ragusa. A Trapani la
piazza nella frazione di Palma. Poi nient’altro nella sua città, che in un
battibaleno, invece, nell’autunno del 2005 ricordò le fantastiche regate della
Coppa America chiamando una strada come “via dei grandi eventi”. Ci sono voluti
20 anni e passa per dare una strada a Mauro Rostagno, per Montalto andò bene
una piazzetta di campagna, non una scuola, non una via centrale, la Provincia
gli ha dedicato una borsa di studio ogni anno consegnata a studenti meritevoli.
Ma a Trapani accade che c’è chi guarda alla morte di Giuseppe Montalto e pensa
che grazie a quella morte la sua famiglia ha trovato, come si dice dalle nostre
parti, una “sistemazione”, a proposito di lavoro. Di questo se ne sente
talvolta parlare quasi con indignazione, con quella indignazione che non si concede
a chi la merita, a chi ha ucciso.
«Niente è
stato ed è come quando lui era tra noi – ricorda Liliana Riccobene –. Giuseppe
vivrà per sempre nei nostri ricordi e nei nostri cuori, ci ha lasciato un
grande vuoto e tanta sofferenza. Non ho mai chiuso con quel passato, penso a
lui solamente rivivendo i momenti più belli. Non si può morire per un ideale di
giustizia. La mia amarezza è che uno dei due sicari non ha ancora pagato il
conto con la giustizia. Non è facile andare avanti, ci vuole molto coraggio e
il mio desiderio è che le mie figlie realizzino i loro sogni e che il Natale
possa tornare ad essere per noi un giorno di festa. La mafia dimostra di sapere
scegliere bene le date per i suoi eccidi, perché il 23 dicembre non è solo una
data prossima al Natale, ma per noi segnava anche i 10 mesi della nostra
primogenita Federica». Nel giorno del suo primo compleanno Federica di suo
padre poté avere solo la foto. Guardandola esclamò “papà!” quasi a chiedere
dove fosse. Anni dopo, studentessa oramai cresciuta, consapevole di quello che
era accaduto al padre, scrisse queste parole: “Caro Papà, mi manchi. Siamo
stati insieme per pochi mesi e non mi ricordo niente di te. Ho imparato a
conoscerti solo attraverso i racconti della mamma che mi diceva molte cose belle
sulla nostra vita insieme. Mi sarebbe piaciuto conoscerti e trascorrere dei bei
momenti con te, come tutti i papà fanno con i propri figli. Ma questo non ci è
stato permesso perché ti hanno portato via da me quando ancora non potevo
capire cosa stava succedendo. Non mi ricordo il momento in cui hanno detto che
non c’eri più e sono cresciuta con il vuoto della tua assenza. Quella sera
quando te ne sei andato, io la mamma e Ilenia, che era nella sua pancia,
abbiamo corso un grande pericolo e tu sei morto per salvarci. Tante volte mi
sono chiesta perché ti hanno portato via da me e a questa domanda non ho mai
saputo rispondere. La mia vita con te sarebbe stata più facile perché è molto
difficile crescere senza un padre. Ogni volta che ti penso, ti immagino felice
e sorridente, come nelle poche foto che abbiamo insieme. Per quello che sei
stato, ti voglio bene e sei il mio eroe”. Eroe, perché ancora oggi in questa
società chi fa il suo dovere passa per eroe. Questo perché altri non fanno il
proprio dovere: la coscienza civile, la corresponsabilità, ancora non sono
patrimonio di tutti. E invece la morte di Giuseppe Montalto come altre morti è
questo che pretende e ancora oggi attende che si compia.
21 dic 2012
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