martedì, dicembre 25, 2012

Concerto di Natale per soli, coro e orchestra

Coro:
Andiamo amici, non è serata da stare in casa, usciamo, si sta bene insieme.
Evitiamo le luci e le vetrine esauste per gli ultimi acquisti, le false cornamuse e i venditori di sogni. Le case spoglie della periferia non hanno alberi illuminati, dalle finestre si sente pianto di bimbo, cellulari, televisori, solo in lontananza una madre canta, forse, una nenia o canto nativo in lingua non nota. Il parco è spoglio e nero di buio, lo percorriamo ai margini fra cartacce e bottiglie.


I Voce ( Ahmed):
        
Ci addentriamo per strade grasse di nebbia e di silenzio.
Le case si fanno compagnia e si scaldano accucciate.
I vicoli sono  fette disfatte come avanzi di festa.
Nella penombra bagnata di un lampione, Ahmed, incredulo, sta sbriciolando fra le dita l’ultima Emmesse.
Solo come ogni sera, sale la scala stretta e ripida del suo basso e se ne sta a fumare e guardare la sua fetta di cielo scuro appoggiato ad un resto di muro in fondo al vicolo.
Stasera il cielo è più nero del carbone, la luce fioca della lampada tenta di sbiancarlo ma senza riuscirvi, la nebbia forma come un alone grigiastro che si perde in alto nel buio. 
Amari e soli, gli occhi grandi di Ahmed, vedono le spiagge della sua Nigeria,  le rade luci delle lampare in lontananza, sente il ritmo dell’onda che accarezza le conchiglie.
Una notte senza luce come questa, prima che giungesse l’alba, Ahmed s’è messo in cammino dando ascolto alla voce di dentro che non sapeva se essere desiderio, canto o fame di pane. Lasciò il villaggio in riva al mare, per cercare un lavoro vero, una paga sicura e le piccole comodità dell’occidente.














Ahmed lava i vetri delle auto al semaforo del bivio, sorride a tutti, sa dire grazie, un grazie da clandestino che sa distinguere un’auto qualsiasi da una volante al cui arrivo deve sparire con il suo secchio e le sue spugne.
Ahmed fuma sotto il lampione ma la sua mente rivede coloro che erano con lui su quel rottame maledetto, coloro che scomparvero fra le onde nella tempesta invocando la madre.
Lui vide un villaggio stretto in un anfratto di rocce nere che le onde coprivano con il ritmo che lui sentiva dentro.Si strinse agli altri nel suo terrore, lo raccolsero, lo portarono a riva, lo soccorsero, pane, acqua, vestiti nuovi e puliti e poi un pulman azzurro che attraversò paesi e montagne sconosciute prima di arrivare fin qui. Sperava di trovare un amico, non c’era nessuno ad accoglierlo quando l’autobus lo depositò davanti alla stazione dei treni in una delle prime serate di nebbia e di freddo.
La sua fabbrica, non certo quella promessa, la trovò lì, a quell’incrocio che puzzava di gas e di auto.
Il suo turno lavare i vetri appena la luce gialla diventava verde così simile al suo mare.
Sogna Ahmed, stasera nel vicolo scuro, sogna i suoi colori, il suo cielo mai spento, la sua casa, i volti che l’hanno visto giocare bambino. Adesso ha schiacchiato la cicca ma prima che se ne torni a distendersi nel suo giaciglio, sottovoce lo chiameremo per nome, forse gli piacerà camminare un pò con noi.
Il silenzio ci darà coraggio, incrocieremo gli sguardi e con gli occhi bassi, voltato l’angolo, attraverseremo i giardini lasciando sulla destra le strade della festa.

II Voce ( Giulia):
        
Su una panchina, il capo chino tra le braccia, Giulia non piange ma affonda lo sguardo nel vuoto.
E’ pallida Giulia così simile alla luna, all’ultimo quarto appena prima del novilunio quando è appena una falcetta luminosa appesa al suo vuoto.
Non piange Giulia, anzi non piange più, guarda la sua vita. Storia comune, lunga vent’anni, tanti per invecchiare, un volo per nutrire un sogno bruciato in un referto.












Un amore? Forse si, un sogno breve consumato con Andrea che l’accompagna ancora incerto se fu amore o tenerezza, ferita che brucia per la fine di un amore o piacere di soffrire, perdonami ma sono stato felice del tuo martirio.
Giulia ha un cappotto a quadri. Sotto indossa un vecchio jeans e una maglietta rossa.
Le sue mani scarne e venose, quante flebo ti hanno fatto Giulia?
Con quante analisi cominciava a farsi chiaro dopo la notte Giulia?
Quante volte hai girato il cuscino bagnato di sudore e pianto Giulia?
Viene dall’ospedale più grande della città, Giulia, quello tutto bianco in cima alla collina, un grande viale di palme, giardini in bell’ordine, la statua di Padre Pio al centro di un’aiuola, discreto e seminascosto il Padiglione 73, INFETTIVOLOGIA, quello dell’aids per intenderci.
E’ stato lì che l’hai saputo, Giulia, lì ti è parso che il mondo ti crollasse addosso, come se i tuoi anni si fossero consumati all’improvviso e tu,Giulia, lontana la tua gioventù leggera, vedesti all’improvviso la strada apparirti nera e impervia, tutta in  salita dove tu, così debole e senza fiato, tu, Giulia, dovevi farcela anche quando le forze parevano abbandonarti e i tuoi occhi bruciavano di freddo Giulia, i tuoi brividi  di paura e di febbre.
Andrea è rimasto accanto, ognuno col suo grumo di sconfitte, ognuno con la sua porzione di fiele, col suo incubo che lo rode dal profondo e ogni giorno che passa lascia tracce che s’incidono nella carne e non vanno più via anzi feriscono fino a sanguinare e diventano profonde e purulente e tu sai perché, ti chiedi solo com’è potuto accadere proprio a te che nutrivi i tuoi sogni con la forza e l’ardore dei tuoi vent’anni, tu che ti ostinavi a disegnare un futuro di madre che culla il suo bimbo e lo riempie di baci mentre dorme. Quel sogno che avevi chiamato Andrea, ora ti resta accanto, non ti lascia, la tua ombra di silenzio, tu sapevi che gli uomini, di fronte al pericolo e alle difficoltà, diventano meschini e sciocchi















come le donnette di paese, ma pavidi sostano avvoltolati come gatti che sornioni controllano lo spazio. A volte ti fa rabbia Andrea e lo scacci fra le lacrime, poi lui torna in silenzio e ti accarezza la mano e tu trovi la forza per uno sguardo e un sorriso.
Andrea s’appoggia al vecchio platano, non lontano da Giulia.

III Voce ( Salvo):

Vent’anni, padre giramondo, madre puttana, terza elementare, poi, per scuola la strada, per famiglia il branco del bar della stazione.
Vent’anni, un volto di alabastro sospeso nel vuoto della sera, statua del dio abbandonata nei depositi di un museo, vagone di ruggine sul binario morto.
Vent’anni per incollare un’assenza, per continuare un silenzio assordante, per perpetuare il parlottio del fiume che ti scorre dentro e scava e ti scava nel profondo e corrode le ossa e le raffredda piegate come dalla silice l’abile mastro vetraio.    
No, niente elucubrazioni stasera.
Salvatore se ne sta col braccio teso quasi volesse col dito a grilletto far fuori un nemico.
Gli occhi stralunati fissano un punto sul prato marcio di pioggia e di freddo dove una siringa si moltiplica cento volte nei suoi occhi di cera.
E’ bello come un angelo Salvo, un angelo dal volto ancora bambino.
Un corpo già cresciuto ma implume, d’uccello che ha bisogno del nido.
Lo sguardo duro parla e sussurra una storia mentre il suo corpo racconta ancora di corse a rompicollo per le spiagge del suo sud, di lunghe partite a pallavolo, di nuotate con gli amici, di pizza a forno nei locali di periferia.
Le labbra si muovono appena, vogliono dire della sera che il padre tornò ubbriaco e picchiò la mamma, di quella sera in cui il sangue le usciva a fiotti dal naso, delle sue implorazioni a smetterla per pietà, per riguardo al bambino.
















Un tonfo chiuse la porta alle spalle quella maledetta sera, anche i singhiozzi si persero nello scrosciare del rubinetto del bagno e lui restò solo al buio della sua camera e cominciò a piangere.
Salvo vorrebbe parlare del Treno del Sole che, quasi a gridare il suo dolore fischiava e fischiava nella sera, sulla strada ferrata, sugli scogli, nelle nere gallerie. Il treno ogni tanto si fermava poi un ridicolo fischietto lo rimetteva in moto a correre sbuffando fra gli oleandri e i neon di deserte stazioni finchè giunse alla fine dell’isola e una nave bianca si prese il treno nella pancia e poi, dopo un triste rullio, questo, approdato a terra, riprese a correre e fuggì tutta la notte. Lui dormiva la testa sulle spalle della madre che ogni tanto gli accarezzava le mani mentre il lungo treno continuava la sua corsa insensata. Era appena giorno quando posarono esausti la valigia di cartone dietro la porta di una casa di ringhiera col gabinetto in comune con altri, quella stanza dove la mamma tornava tardi, sempre più tardi, vestita di molti colori ma avvizzita nell’incavo degli occhi, lo sguardo che non si posava su di lui, le mani che non osavano più toccarlo.
Salvo dove sei, dove vai Salvo, perché te ne stai solo appollaiato come un gufo a giocare con le tue dita di pistola-giocattolo.
Perché non sorridi Salvo, chi t’ha rubato il tempo, a quale silenzio hai consegnato l’alba?  

Coro:        

Andiamo Ahmed, alzati Giulia, appoggiati così, e tu Salvo smettila di guardare il tuo dito indice, guardami, almeno una volta, guardami.
Torna Ahmed a sognare tutti i colori della tua terra, i tuoi tramonti infuocati, i fiumi che s’inarcano fra le foreste.
Giulia, solleva lo sguardo da terra e incrocia lo sguardo, solo un attimo... così, sono lontane le mura bianche e il letto d’acciaio, il dito benedicente del Padreterno che ti sapeva tanto di condanna e non ti riusciva di pensare ad altro.












Salvo, unisciti per un po’, metti in tasca la tua mano fredda e lascia che l’altra sia scaldata dal tuo vicino.
E’ sera, è una fredda sera d’inverno, percorreremo nuove strade sostando agli angoli sotto i lampioni, non smetteremo di cercare qualcuno che ci cerchi.

Orchestra:
        
Andiamo per le strade polverose di Bagdad, clandestini, muovendo incerti passi ai margini della città dei morti.
Era bella Bagdad nelle sue notti così affollate di stelle e così vicine da illuminare il mondo e il fiume di giorno giallo oro come le terre di Mesopotamia e di notte azzurro come il cielo senza nuvole della sua città.
Era bella Baghdad dove i minareti svettavano sui cento suk e le cupole d’oro echeggiavano le preghiere dei muezzin.
Baghdad bella d’anni e di storia, le sue melodie cantate nei matrimoni e ballate nei cortili ombrosi delle sue dimore.
Brava gente gli abitanti di Baghdad, abituati a soffrire in silenzio il lungo embargo, dignitosa e allegra, severa e pronta al sorriso
Il sangue ora tinge l’acqua del fiume come il cotone dei campi e sui giardini s’adagia la polvere delle macerie.
I cortili silenziosi tengono il lutto per i bimbi morti e all’urlo delle madri risponde la preghiera della sera… Allah akbar…
Le saracinesche accartocciate, le luci spente, non si fa festa nelle strade di Bagdad, gli spari li chiamano fuoco amico ma tutti sanno che spargono altro sangue innocente e che altro ne chiameranno.
A Baghdad si piange senza fine, la propria sorte e quella del mondo.


















Coro:
                  
No… noi… noi… no, noi questa notte percorreremo strade che sanno di sterco e di mangiatoie vicine, sentiremo il profumo del gelsomino appena schiuso e intrecceremo ghirlande di nenie orientali.
Laggiù, ben oltre la città, fra le dune di sabbia, ci fermeremo sulle piste maledette che portano ai pozzi e lì aspetteremo l’alba cogliendo gigli di mare.
E tu città offesa, non esalerai l’ultimo respiro, altri figli avrai e gli uomini torneranno dai campi la sera a vendere nei mercati frutta fresca.
Ricomporremo mosaici sulle pareti delle tue moschee, stenderemo preghiere di seta e con argilla faremo cuscini ove posare il capo per la preghiera del venerdì.
Anche su te, città sacra di millenni, Allah stenderà misericordioso le sue mani.  
Così noi sosteremo sull’uscio a testimoniare il mondo offeso.


Orchestra:

         Lontano, molto lontano da qui, in queste ore, i meniños de rua nella favela del Barrio del Nord si tengono per mano improvvisando un girotondo intorno alla baracca di cartone e lamiere.
Nel cielo stellato di Bhaia, a molte miglia da Cocabana e dal Cristo imponente sul Pao de Azucar, una stella sembra staccarsi e andare lontano dalle altre, più leggera, nel cielo scuro,

son qui,
sono io,
Nadir,
la più bella di questa notte


















II Voce ( Giulia):

         Ahmed, ascolta, senti che sparano? Le mie orecchie sono stremate di lampi e di tuoni, non voglio più sentire suoni di morte, queste tempeste dalle quali continuo a fuggire non so dove.
Io che ho sempre sognato grida di bimbi, che vedevo in ogni  amore un rimedio al male del mondo, in ogni  culla un canto per il domani,  voglio nascondermi finchè  la tempesta abbia fine.


I Voce ( Ahmed):

No Giulia, non temere, potrebbero essere i mortaretti della festa, da noi in Africa, come in tutti i mezzogiorni del mondo, quando si avvicina una festa, il tempo dell’attesa è scandito dai petardi che tutti si divertono a lanciare.

III Voce( Salvo):
        
Ancora una volta, amici,  la sotterranea città dei morti apre i suoi baratri davanti a noi, morti  vivi si acquattano fra sacchi di sabbia, juta di riso indiano con la scritta ONU, un euro per i bambini del Darfur,  il supermercato squarciato e l’insegna rotta del cinema IMPERO che non c’è più. 
Avanti verso le rive dell’Hudson, hanno chiamato Ground Zero un enorme buco, immenso quanto il ventre vuoto del mondo.
Ai margini del cratere hanno acceso lumini e portano fiori perché il fuoco roditore della lava  fermi  ogni follia.
         Mary in un angolo si asciuga lacrime che non ha più sul volto segnato da un dolore senza fine.
Nella selva di mostri che oggi sfidano il cielo non c’è posto per il suo pianto coperto di polvere.















Urla di vendetta hanno coperto il dolore delle madri, la cupa solitudine delle mogli, le domande degli orfani, spesso enormi aerei grigi depongono a terra bare avvolte nella bandiera.
Morti che si sommano a morti, ecatombe di innocenti.
Non era questo il sacrificio richiesto dai morti.
I corpi bruciati vivi nel rogo delle torri erano sacre colombe di pace,  ora chiedono riposo, rifiutano l’orrido  omaggio di altri innocenti
No, No, Maggie, i bambini non giocano più con le sagome del terrazzo, né corrono festosi nei lunghi corridoi dell’underground.
Qui, nel lungo sonno della ragione, non petardi di festa né di attesa, solo spari, bombe, cannoni, morte e la paura che ti lacera le carni e ti toglie il respiro come quel tragico mattino di settembre mentre, vedi, sull’orlo del cratere hanno adagiato un peluche per il figlio mai nato, per l’ultimo bacio non dato, per l’addio consumato nel volo.
Ora l’ultima candela, lentamente, si spegne.
Maggie non è vero, non può essere vero che a migliaia piangano innumerevoli lutti, ci sarà bene un letto, un po’ di riposo infine, un giaciglio accogliente come nella notte dell’attesa.
         Infine anche qui, nella terra di Ground Zero, nel fragore degli aerei, fra cumuli di macerie che fumano di odio e di barbarie potrebbe....

Nascere.
Nascere, bimbo,
Nascere è cadere nel tempo,
Nascere, bimbo, è riempire il vuoto dell’oggi, del qui e dell’ora,
Nascere bimbo è scelta, pre-scelta, eletta, diletta,
Nascere, bimbo, è atto di amore.

















Orchestra:

La strada corre potente e sicura sui suoi continui viadotti sulle dune del deserto, le gomme delle auto, tutum tutum, segnano il tempo sugli interstizi dei blocchi di cemento armato.
Asfalto ancora caldo di sole trasuda come la pelle dei ragazzi, gli ultimi del lungo sabato che si attardano fino al tramonto sulle rive saline del mar Morto.
 In fondo, fra gli aranceti e il mare blu cobalto, fra i cavalli di Frisia e chilometri di muro una siepe di soldati in assetto di guerra.
Gli sbarramenti dicono che Gaza City non è lontana, nella linea dell’orizzonte si distingue ancora nella luce  della sera il bianco dei nuovi quartieri.
Corre la strada fra gli insediamenti dei coloni nel verde di campi strappati al deserto con l’acqua preziosa del fiume sacro, villaggi ove l’erba lascia il posto al grigioverde di volti bambini pronti a rispondere al fuoco dei katiuscia.
Le pecore brucano quel poco che trovano fra gli sterpi.
Gaza City è là, oltre la buia galleria, con la sua teoria segreta di sogni che tardano a realizzarsi, ingorgo rumoroso di passioni, ansimante nei suoi suk, annegata nella sua sete.
A Jasser Arafat hanno intitolato una di quelle strade non strade, un pomposo viale, spazi di cemento fra condomini spropositati dove tutto si rincorre in simmetria verticale: i salotti, le cucine, i gabinetti, le finestre delle scale.
Il mare è lontano, solo il vento s’infila senza riguardo in quelle vie facendo tremare sinistramente le segrete sui balconi.
Il vento porta in giro nei suoi vortici ogni cosa, suoni di clackson e grida di bimbi, il richiamo dei mercanti e le preghiere dei muezzin.
Così persistente il vento di Gaza come i suoi profumi che s’attaccano alla pelle che sempre sa di cinnamomo e menta, di coriandolo e rosmarino che vi cresce rigoglioso all’ombra del pepe verde.
Gaza la bianca sposa del Sud,  Gaza città simbolo di Palestina, Gaza bruciata dal sole, Gaza bella e vera nelle sue trade di polvere e nei suoi cortili ove nenie orientali addormentano i bimbi.
Anche qui come a Baghdad, a Kabul e Ground Zero non furono petardi della festa, non crepitio di mangiafuochi né tamburi di sbandieratori.
Qui, come su Hiroshima e sui Campi di Sterminio ancora un fungo nero di violenza e di morte imprigionò la città mentre l’asfalto gonfio si sollevava sul viadotto rosso di sangue e di terra.
Da lì, biscia o lampo di tempesta, raggiunse la città coprendola di morte.
Urla di donne, strazio di madri, rabbia di giovani, tappeto di bandiere, mani rugose a coprire il viso, io non vi perdono e noi vinceremo e saremo un popolo nella terra dei nostri Padri.








Fino a quando, fino a quando, quante notti ancora insonni gli occhi gonfi di pianto, Rashid e Leila, nati in un sobborgo della Striscia, aspetteranno la pace ad una fermata di un autobus stracarico?
Entrambi piangono perché vogliono vivere nella tormentata terra dei padri. Sono certi che le suppliche verranno esaudite, che il sangue versato non sarà vano, dopo tanto dolore sanno aspettare.
I fax impazziranno quel giorno, le loro dita già si aprono a V nel segno della speranza, urleranno di gioia anche per la vecchia madre che non resse al dolore. Lei, la vecchia Hanà, il volto di rughe e di pianto, senza più casa né nome né amore di madre, si lasciò morire di solitudine fra i detriti polverosi delle sue stanze.
Forse non l’abbiamo cercata abbastanza ma questa sera piage tutte le sue lacrime la vecchia Madre Hanà, noi che abbiamo avuto cura del dolore irrimediabile dei vecchi, dei loro occhi asciutti, loro che neanche in cielo smetteranno di piangere i figli perduti e ai piedi di Allah misericordioso senza vendetta chiederanno di sapere chi ha permesso il martirio di un popolo.
Ma non succederà più, c’è ancora tanto cammino da percorrere, Aushwitz e Hiroshjma, Baghdad e Gaza City, Beslan e New Jork e altre ancora, terre del mondo e simboli del mondo offeso.
         .... E’ il volto impaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza degli ultimi della terra....
         La paglia per favore, un po’ di paglia infine dopo tanti lutti, un po’ di paglia anche qui in quest’angolo di Gaza riparata dal vento marino dove tutto è dipinto di verde per non dimenticare e il ficus cresce per una sfida d’amore.
         Qui dove l’odore della polvere da sparo ancora ti prende le narici, fra gli ulivi offesi ove solo corvi e avvoltoi s’aggirano fra l’ombra tarda della sera, un po’ di paglia, ne basta solo un po’, ma per favore anche qui.
         Manibus oh date lilia plenis, si coprano di fiori sparsi a piene mani, i suk gioiosi di Gaza e di Baghdad come le favelas di Bahia, i campi di Sabra e Shatila come quelli di Kigali, anche qui dove l’autostrada si curva sul mare dolce di Gaza City e i balconi profumano di zagare e gelsomini, un po’ di paglia anche qui, che ci sia posto per l’attesa.


Coro:

Dal Vangelo secondo Luca 2,6-7.

“In quella stessa contrada c’erano dei pastori che pernottavano nei campi a guardia del loro gregge. Un angelo del Signore apparve a






loro e la gloria del Signore li circonfuse di luce e temettero fortemente”.
               Ma l’angelo disse loro: “Non temete perché, ecco, io vi annuncio una        grande gioia, destinata a tutto il popolo: oggi nella città di Davide è nato a voi un Salvatore, che è il Messia, il Signore. E questo è il segno per voi: troverete un bimbo in fasce, giacente in una mangiatoia”.
In quell’istante si raccolse intorno all’angelo una schiera dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini mandati da lui”.
E quando gli angeli risalendo nel cielo, si furono allontanati da loro, i pastori si dissero gli uni agli altri:
 “Andiamo a Betlemme a vedere questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”.

        
Orchestra:

La terra era piatta e silente, non c’era quasi paesaggio che non fossero filari di eucaliptus e fossi ricchi di canne.
         Rare case, panni stesi ad un sole irriverente, l’aria rafferma di stupore.
Non anima di mercato o scampanio di eventi.
         I portoni del Palazzo di Governo sono chiusi, i corridoi grandi e deserti, non l’ombra di un cronista, ancora sangue sul marciapiede e cadaveri pietosamente coperti di bianco. La carovana dei dromedari è ancora lontana, i baccanali del potere, le feste dei vip, giocate con noi primo premio tre milioni di euro.
         No, non può finire proprio ora che sta per cominciare, le tavolette di Hebla, la biblioteca Alessandrina, la banca dati, la memoria... la nostra memoria proprio ora che sta per cominciare.
        


















Gloria in excelsis Deo, sia pace agli uomini di buona volontà, a Gaza come a Ground Zero, a Baghdad come a Beiruth,  su tutte le terre bagnate dal sangue dei martiri, dei tanti che fra questi fossi e queste valli senza montagne sono morti per affermare contro la violenza il diritto di essere liberi, dei tanti che oggi si battono perché quella memoria viva e quel diritto si faccia storia, perché nulla è dato per sempre, nulla che non debba essere riconquistato.
Ora la carovana dei dromedari si fa più vicina

Coro:

         A oriente il cielo si accende in un punto di rosa leggero, le stelle, le più lontane, s’alleggeriscono fino a spegnersi, la campagna comincia lentamente ad animarsi e giunge il  giorno.
C’è un bar aperto, vado a prendere un caffe, sussurra Ahmed, aspetta risponde Salvo, Giulia piange, stiamo vicini a lei e ad Andrea, poi andremo insieme.
         Ora la città, senza luminarie né sfarzi di vetrine, pare più vera nella luce del mattino.
         I passi battono sotto i portici, i bambini di Soweto e di Bahia già si preparano a tornare nei loro giacigli, un silenzio irreale avvolge Baghdad col suo fiume placido, Giulia prende dalla tasca una foto gualcita di lei infiocchettata fra i dono dell’albero.
Mille luci si accendono e illuminano volti di fanciulli di ogni tempo.

E si strinsero attorno a lui e lo riscaldarono con il calore dei loro corpi e del loro affetto.
E trassero fuori i loro caci e i loro pani, e mangiarono in silenzio, in una santa veglia di pace.








Giovanni Perrino per il Natale 2012

Nessun commento: