La scopertura della targa |
La decisione della Regione Siciliana di apporre il vincolo di “bene culturale, testimonianza della storia collettiva e simbolo della lotta contro la mafia”, alla casa di Peppino e Felicia Impastato, a Cinisi, è una svolta storica. La cerimonia si è svolta venerdì sera a Cinisi, nell’ottavo anniversario della morte di Felicia.
«Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato» adesso è un «bene culturale, testimonianza della storia collettiva e simbolo della lotta contro la mafia». Si tratta del primo vincolo di questo genere, proposto dalla Soprintendenza di Palermo, guidata da Gaetano Gullo, e fatto proprio dalla Regione Siciliana con apposito decreto. La targa, che sancisce il vincolo, posta sul prospetto del civico 220 di corso Umberto a Cinisi, è stata scoperta venerdì pomeriggio dal sindaco Salvatore Palazzolo e dal soprintendente Gaetano Gullo, nell’ottavo anniversario della morte di Felicia Bartolotta Impastato, mamma di Peppino. LEGGI LA PAGINA MONOGRAFICA SU "LA SICILIA" - GUARDA L'ALBUM FOTOGRAFICO
Doveva esserci anche il Presidente della Regione Rosario Crocetta, ma improrogabili impegni di governo l’hanno trattenuto a Palazzo d’Orleans. «Auguriamo buon lavoro al Presidente – ha detto Giovanni Impastato, introducendo la cerimonia – dando atto che già tante volte ha visitato questo luogo della memoria». «Quello di stasera – ha sottolineato il fratello di Peppino Impastato - è un momento storico, perché è la prima volta che la Regione riconosce un bene culturale con questa motivazione. È un riconoscimento che viene da lontano, ha ormai alle spalle 34 anni di storia, da quando, subito dopo la morte di Peppino, mia madre Felicia ha deciso di tenere aperte le porte della sua casa per rinnovare di giorno in giorno la memoria, accogliendo persone comuni, giovani, istituzioni, e continuando a ricordare e raccontare. Questa casa rappresenta fondamentalmente la sua eredità, che assieme a quella di Peppino e delle sue lotte contro il potere politico-mafioso, costituisce la base che ispira il nostro percorso». Non dovette essere facile per questa donna, nel 1978, col cadavere del figlio ridotto a brandelli sul binario della ferrovia e con le forze dell’ordine che volevano in fretta e furia chiudere il caso, archiviandolo come il tentativo maldestro di un attentato terroristico o di un suicidio, resistere e continuare. Eppure, mamma Felicia non si arrese e continuò, sostenuta dal figlio Giovanni, dai compagni di Peppino, da Umberto Santino e Anna Puglisi, che da lì a poco avrebbero intitolato al giovane martire il loro centro di documentazione. La mafia l’aveva in casa Felicia Bartolotta, rappresentata dal marito, Luigi Impastato. Il primo a rompere col padre e con la mafia fu il giovane Peppino. E Felicia – nelle forme possibili - lo sostenne. Dopo la morte del marito e l’assassinio del figlio, la sua scelta di campo fu netta: contro la mafia, per ridare l’onore al figlio, per educare intere generazioni ai principi di legalità democratica. Implacabile contro don Tano Badalamenti, capomafia di Cinisi e mandante dell’assassinio di Peppino, e dolcissima con i giovani che visitavano la sua casa. «Da Felicia – ha sottolineato Giovanni – abbiamo ereditato l’apertura e l’accoglienza che questo posto permette, facendo si che qui possano entrare tutti (quasi tutti), coloro che rispettano i diritti e i doveri fondamentali e la dignità dell’uomo; accettiamo le differenze di ogni tipo, comprese quelle dell’appartenenza politica, senza che nessuno possa mettere in dubbio la nostra appartenenza. Non siamo settari, perché era mia madre a non esserlo, visto che con grande partecipazione emotiva e senza rancore accolse anche i membri della Commissione antimafia che qui le consegnarono il famoso rapporto del 2011 sui depistaggi, che vestivano i panni di quel mondo istituzionale che fino a quel momento non solo l’aveva abbandonata, ma aveva persino bistrattato suo figlio. “Me lo avete resuscitato”, ebbe a dire in quell’occasione. Per varcare le soglie di “Casa Memoria” non bisogna essere “comunisti”, basta essere “umani” nel pieno senso del termine».
Quel 7 dicembre del 2001, a guidare la Commissione antimafia, che doveva consegnare a mamma Felicia (che sarebbe morta lo stesso giorno di tre anni dopo) l’inchiesta sul depistaggio istituzionale accertato, c’era il sen. Giuseppe Lumia, che venerdì sera ha rievocato l’evento. «Fu una grande emozione, un’emozione fortissima – ha ricordato Lumia – perché lo Stato riparava ad un gravissimo torto e Felicia, anche in quella occasione, dimostrò che credeva nella possibilità di uno Stato giusto».
«Quello che sta nascendo a Cinisi, con il riconoscimento
di “Casa Memoria” come bene culturale e con l’utilizzazione dell’ex casa
Badalamenti, può essere l’esempio di una strategia della memoria, che dovrebbe
avere un ruolo fondamentale in un progetto di rinnovamento della politica che
rompa radicalmente con la mafia e con i suoi complici», ha detto da parte sua Umberto
Santino, presidente del Centro Impastato, che ha illustrato i contenuti di una
lettera aperta inviata al Presidente della Regione Crocetta. «Il nostro Centro –
ha spiegato il presidente, entrando nel merito della lettera aperta - è
autofinanziato, perché contesta le prassi clientelari di erogazione del denaro
pubblico con provvedimenti discrezionali e in base a rapporti personali con i
responsabili di comitati, centri studio, associazioni e fondazioni. Con la
legge n. 20 del 13 settembre 1999 sembrava che si fosse venuti incontro alla
nostra richiesta. Infatti l’articolo 16 prevedeva l’istituzione di un Albo
delle associazioni, fondazioni e centri studio e abrogava le norme precedenti.
Ma questa legge non è mai stata applicata. Non vogliamo rassegnarci alla
spartizione dei fondi pubblici su basi personalistiche e clientelari. Per noi è
un principio irrinunciabile, se si vuole sul serio fare antimafia. Chiediamo,
quindi, che il presidente Crocetta s’impegni in questa direzione, mettendo
finalmente fine alle regalie della tabella H». Quindi, Santino ha illustrato la
proposta di dar vita ad un “Memoriale-laboratorio” della lotta alla mafia, che
sia insieme un museo storico della mafia e dell’antimafia, biblioteca,
videoteca, archivio di documenti, ma anche laboratorio per la progettazione di
studi e iniziative, spazio di socializzazione e di incontro. «Un luogo da
vivere, non un museo da visitare», ha sottolineato lo studioso. «Avevamo
chiesto – ha aggiunto - che per il Memoriale venisse assegnato un bene
confiscato alla mafia e ci è stato proposto il villino in cui il capomafia
Riina ha trascorso la sua latitanza. Abbiamo dovuto rinunciare a quella sede
perché ci è sembrata inadeguata, nonostante l’alto valore simbolico, e
soprattutto perché avremmo dovuto restaurarla a nostre spese. Abbiamo indicato
altre sedi, anche di proprietà del Comune di Palermo o della Regione, per
esempio l’Albergo delle povere, un capannone dei Cantieri culturali della Zisa
o della Fiera del Mediterraneo. Pensiamo a un luogo centrale, o comunque di
facile accesso, perchè riteniamo che bisogna dare un segno che qualifichi la
città, e sia insieme memoria e progetto di liberazione. Qualcosa di simile ai
Memoriali della Resistenza nelle grandi città europee. Iniziative del genere a
nostro avviso potrebbero nascere in altre località, in particolare nei paesi
che sono stati al centro delle lotte contadine, fin dagli anni dei Fasci
siciliani. Un museo diffuso sul territorio che ricostruisca la storia della
Sicilia migliore».
Dino Paternostro
Dino Paternostro
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