Uno scorcio della Chiesa restaurata |
La
devozione e l’arte hanno popolato la Sicilia, anche nei centri più appartati,
di opere preziose e a volte addirittura stupefacenti. È il caso della Chiesa di
San Benedetto alla Badia di Caccamo, restituita all’originario splendore dal
restauro condotto dalla Soprintendenza per i Beni culturali di Palermo e
concluso nel settembre 2012.
Questo
gioiello barocco, ricco fra l’altro di uno smagliante pavimento maiolicato del
XVII secolo di 180 metri quadrati, di un monumentale altare in legno intagliato e di
maestose grate in ferro battuto dorato, sarà nuovamente visitabile da domenica 16 dicembre 2012,
quando, alle 10.30, il Soprintendente per i Beni culturali di Palermo Gaetano
Gullo e il Sindaco di Caccamo Andrea Galbo presenteranno ufficialmente il
recupero del monumento. I lavori di restauro verranno illustrati
dall’architetto Lina Bellanca, responsabile dell’Unità operativa Beni
architettonici della Soprintendenza.
Progettisti:
Giulia Davì, Silvana Ciccone, Giovanna Cassata
RUP:
Matteo Scognamiglio, Filippo Davì
Direttori
dei lavori: Giovanna Cassata, Silvana Ciccone, Lina Bellanca
Collaboratori:
Mario Lombardo, Maria Reginella, Martino Ragusa
Istruttori:
Guia Airoldi, Silvana Cafarelli, Manlio Geraci
Foto:
Filippo Crisanti
Disegnatore:
Antonio Conigliaro
Notizie sulla Chiesa del
Convento di San Benedetto alla Badia di Caccamo
Il monastero delle Benedettine di
Caccamo, secondo la tradizione, si trovava fuori dalle mura del paese e alla
fine del XV, secolo a causa delle continue incursioni barbaresche, si ritenne
necessario il trasferimento delle monache in un sito più sicuro all’interno
dell'abitato. Fu scelto un luogo nella zona più antica della città, vicino alla
Chiesa dell’Annunziata e a quella di San Marco, entrambe di fondazione
medievale. Si tramanda che i lavori della Badia risalgono al 1512, mentre
quelli per l’edificazione della chiesa ebbero inizio intorno al 1572 - secondo
la tradizione, per volere di Anna Henriquez Cabrera, che assegnò nel suo
testamento 1000 scudi. I lavori di abbellimento si protrassero per diversi anni
e si conclusero probabilmente nel 1748, data incisa sul portale di ingresso
all’interno dell’emblema benedettino.
Nel 1866, a seguito della legge sulla soppressione
degli ordini religiosi, il monastero e la chiesa furono confiscati dallo Stato
e successivamente, nel 1980, divennero proprietà del Comune, che destinò la
Badia a scuola, mentre la chiesa, pur rimanendo di proprietà del Comune, fu
affidata alla Rettoria alla parrocchia dell'Annunziata.
La Chiesa, ad unica navata con profondo presbiterio a pianta
quadrata, è rivestita da stucchi. Le
due figure femminili in abiti settecenteschi ai lati dell’arco trionfale
raffigurano le due principali virtù ecclesiastiche la “Castità” e l’’“Obbedienza”,
chiaramente ispirate ai modelli di Giacomo Serpotta.
Di particolare interesse è l’altorilievo, all’interno di una lunetta
sopra l’altare maggiore, raffigurante “La cena di Emmaus” con Cristo al
centro tra i due apostoli, vestiti da pellegrini.
L’attribuzione degli stucchi
negli anni è stata controversa, ma si tende a vedervi il frutto di una
collaborazione tra Procopio Serpotta e Bartolomeo Sanseverino. Negli anni 1755 e
il 1756 Procopio Serpotta e Bartolomeo Sanseverino, figlio e allievo di
Giacomo, realizzarono la decorazione della Chiesa dell’Annunziata e
probabilmente nello stesso periodo intrapresero i lavori per la chiesa di San
Benedetto, ma la morte di Procopio interruppe il sodalizio e fu Sanseverino a
completare i lavori già iniziati.
Stilisticamente è possibile
attribuire le Virtù a Bartolomeo, mentre “La cena di Emmaus” per la
composizione meno accademica e un chiaroscuro più drammatico è da attribuire a
Procopio Serpotta. La presenza della serpe sul muretto della composizione,
secondo Bellafiore, avvalora l’attribuzione.
La semplice volta a botte della
navata è arricchita da due affreschi.
Il primo, “Il miracolo di San Benedetto”, raffigurante il Santo tra una folla
di astanti, che dal manto fa cadere del pane che due fanciulli raccolgono su un
vassoio, è firmato in basso dall'autore “Antonino Petringa” e datato 1735.
L’autore, di cui si conoscono poche notizie, non risente della vivace lezione
di Borremans che in quegli anni aveva dipinto il quadro dell’ “Annunciazione”
proprio per l’omonima chiesa, ma rimane ancorato al più rassicurante
immobilismo della cultura marattesca. Il Petringa imposta la scena secondo la
classica fuga barocca dal basso verso l'alto, disponendo i personaggi su vari
piani e ricorrendo anche a particolari espedienti per aumentare la
spettacolarità, infatti fa fuoriuscire dalla cornice il piede e la lancia del
soldato. Sempre dello stesso autore, il secondo affresco, posizionato all’estremità
della navata nella zona dove ricade il coro sopra l’ingresso, l’ “Assunzione di
Maria” raffigura la Vergine che si innalza verso il cielo sorretta da angeli
lasciando meravigliati in basso i dodici apostoli.
Nella volta del presbiterio l’affresco centrale,
sempre dello stesso pittore, raffigura il “Sacrificio di Isacco”; sulla destra è raffigurata l’allegoria
dell’Abbondanza.
Caratteristica
della chiesa è l’estesa pavimentazione maiolicata (ciascuno mattone misura cm.
17,5x17,5), perfettamente leggibile, a disegno unico, che ricopre l'intera
superficie della chiesa.
La fitta decorazione è un
intreccio di tralci e volute blu e gialle, su cui si arrampicano pappagallini,
gufi e uccelli, curati anche nei più piccoli particolari, che secondo la
simbologia religiosa esprimono l’anelito dell’uomo a liberarsi del corpo per
ricongiungersi a Dio. Al centro tra due telamoni, entro una cornice mistilinea
decorata da una robbiana di foglie, fiori e frutti, è dipinto un paesaggio
marino con una nave che si dibatte tra i flutti, mentre sulla costa alcuni
pastori guardano atterriti la scena, all’ombra di una torre costiera; in alto
in un cartiglio la scritta: concutitur non
obruitur, chiara allusione alla Chiesa,
paragonata ad una nave che viene sbattuta dalle onde, ma che non affonda.
Paesaggi agresti, più in basso busti bicromi in giallo e verde su piedistalli
di gusto classico sullo sfondo di una conchiglia circondano un grande
medaglione poco leggibile antistante l'ingresso. Nel presbiterio la
pavimentazione ripropone gli stessi motivi vegetali e zoomorfi, ma diverso è il
tema del medaglione posto davanti l’altare: un paesaggio pastorale con un
grande sole che illumina la scena con la scritta felicitas
omen,
un augurio di felicità derivante solo dalla fede in Dio.
Da Giuliana Alajmo (1956) e da
altri studiosi (Sunseri Rubino, 1928; Giacomazzi, 1965) la bella pavimentazione
della Badia di Caccamo è stata ritenuta opera del Maestro Nicola Sarzana,
attribuzione ritenuta plausibile, dato che egli nel 1751 aveva ricevuto una
commissione per la pavimentazione della chiesa della Compagnia della SS.
Annunziata di Caccamo e l’arciprete di quel tempo era il Sac. Filippo Gallegra,
fratello della Badessa del Monastero benedettino Suor Maria Grazia, che avrebbe
potuto in seguito commissionare la pavimentazione allo stesso Maestro. Una tesi
non condivisa dal Ragona (1975) e da Reginella (1997, 2003) che ritengono
l’opera stilisticamente tardo-barocca e quindi di fattura più antica.
Nel presbiterio trova posto il grande altare in legno intagliato e
dorato (cm.600x360): la mensa poggia su due grandi volute, tra le quali
trovava posto il paliotto, oggi non più esistente; i due gradini d'altare molto
articolati si concludono con due angeli reggicandela; al centro il tabernacolo
contornato da volute e sormontato dà una testa di cherubino privo della porta
d’argento che raffigurava Cristo, oggi conservata nella Chiesa dell'Annunziata.
La parte superiore è realizzata come una architettura a due ordini formata da
volute e colonne scanalate, con capitelli corinzi e completata da una
cupoletta. Nella nicchia centrale inferiore poggiava la statua secentesca di
San Benedetto, oggi non più esistente, nella nicchia superiore invece un
altorilievo dell'Assunta.
L’altare probabilmente è stato
realizzato in due fasi successive: stilisticamente la parte inferiore di gusto
ancora barocco è databile all’inizio del XVII secolo, mentre la parte superiore
fu probabilmente aggiunta successivamente verso la fine dello stesso secolo
quando già il gusto neoclassico cominciava ad influenzare gli artisti locali.
Da tutti gli studiosi l’altare è citato come fulcro della decorazione interna
della Chiesa.
Ai lati del presbiterio vi sono due grate di ferro dorato (cm 119x213),
quella di sinistra arricchita da rilievi lignei intagliati e dorati
raffiguranti ai lati due angeli adoranti, al centro “Eucarestia”, sotto il
pellicano tra le fiamme, in alto festoni e teste di cherubini e un piccolo
baldacchino ancora ricoperto di seta settecentesca. La grata era utilizzata dalle
monache per ricevere la Comunione.
L’opera, citata da numerosi
studiosi, è una preziosa testimonianza dell'esistenza di un colto artigianato
settecentesco che continuava una fiorente tradizione isolana
Particolarmente grandiosa è l’inferriata a ventaglio
che chiude il coro da dove le monache
assistevano alla Messa. La decorazione è realizzata da volute e rosette in
ferro battuto dorato. Non meno artistiche sono le altre inferriate, tutte a
motivi ornamentali diversi, alle finestre che dagli ambienti dell’antico
monastero, si affacciano nella chiesa.
Sul pavimento sono poste quattro
lastre tombali, opere di lapicidi locali di cultura barocca: la prima del sacerdote Giacomo
Amato, morto nel 1644, è collocata davanti al gradino di accesso al presbiterio
ed è in marmo intarsiato; la seconda è al centro della chiesa e segna il punto
di accesso della cripta adibita alla sepoltura delle monache. La lapide in
pietra scolpita (cm 185x120) raffigura una monaca con ai lati i simboli
benedettini. Le altre due lastre marmoree in marmi mischi si trovano ai lati
del pavimento sotto due monumenti funebri, a sinistra una lapide con uno stemma
di difficile interpretazione, alla destra la lastra tombale di Villaragut e
Faso.
Su
ogni altare laterale è posto un dipinto con cornice e tre di questi sono stati
restaurati dalla Soprintendenza di Palermo nel triennio 1991-1993
Il dipinto raffigurante “S.
Benedetto che indica la regola alle Benedettine” olio su tela (cm 345x 230),
posto sul secondo altare a sinistra, citato dagli studiosi (Giacomazzi, Sunseri
Rubino) come anonimo siciliano è attribuito invece, da Cuccia (1988) a Mariano
Rossi, mentre Gioacchino Barbera (1994) lo assegna ad un autore più vicino alla
maniera di Vito D'Anna, o ai fratelli Manno.
Sul primo aitare a sinistra vi è
la “Madonna della Neve con San Lorenzo e S. Stefano”, olio su tela
(cm.300x190), attribuita ad Antonino Spadafora, autore attivo tra il 1572 e il
1594, che usa un linguaggio ancora manierista, ma accoglie istanze di rinascita
religiosa vicine ai canoni della Controriforma.
La tela del secondo altare di
destra, il “Crocifisso tra San Benedetto e Santa Scolastica” (cm 340x230) è
firmato Francesco Quaraisima e datato 1632.
La tela sul primo altare a destra raffigurante
l’“Immacolata Concezione” è opera datata 1613 e siglata VLB, Vincenzo La
Barbera, architetto e pittore. L’opera dell'artista termitano è caratterizzata
dal continuo sperimentalismo della cultura tardo-manieristica, ma nell'opera
della Badia le linee si ammorbidiscono, lo stile è più decorativo e il colore
più morbido. L'opera non è restaurata.
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