di Agostino Spataro
Stamattina
siamo andati al cimitero, a visitare i nostri morti. Non avendo defunti intimi
colà residenti, le nostre visite si svolgono serenamente, quasi in allegria. Per
me sono anche l’occasione per rivangare, guardando i nomi e le foto, le vicende
del nostro paesino. I nostri morti sono nonni, zii e parenti piuttosto larghi,
ai quali portiamo un fiore e accendiamo una candelina, per ravvivarne il
ricordo, come vuole la tradizione. I nonni paterni, purtroppo, sono finiti
nella fossa comune e non possiamo onorarli. Mi sarebbe tanto piaciuto conoscere
mio nonno Calogero Spataro, amante dei viaggi e del buon vino.
Di lui non so
nulla, poiché nessuno ne parla in famiglia, credo per vergogna. La vox populi racconta ch’era un
viaggiatore indefesso e avventuroso. Partiva da Joppolo, con pochi soldi e con
mezzi di fortuna, per lunghi viaggi in nave o in groppa ad un ronzino. Memorabile
è rimasto il viaggio in Tunisia dove si recò per andare a comprare un… asino di
una razza speciale ossia di quelli che lavorano tanto e mangiano poco. Non lo
trovò e ritornò, dopo più di un mese, senza soldi e senz’asino. Insomma, un
vero precursore della cooperazione siculo- araba! O l’altro, a cavallo, alla
volta della Spagna interrotto per mancanza di viveri e mezzi a Civitavecchia da
dove telegrafò alla famiglia per tranquillizzarla e chiedere soccorso. Il nome
della cittadina laziale colpì talmente
la fantasia dei paesani che glielo appiopparono come “ngiuria”. E fu
questo soprannome l’unica eredità che il nonno lasciò a figli e nipoti, quando
mori alla bella età di 85 anni. Alla faccia dei suoi detrattori e critici che,
in gran parte, lo precedettero nell’unico “viaggio” da quale non si torna…
La
sera precedente avevamo parlato di questa visita. Le avevo detto che se avesse
portato i fiori ai nonni la notte successiva questi sarebbero venuti in volo a
portarle tanti regalini. Bastava mettere le scarpine fuori della finestra. Le
spiegai che i morti volano senza avere le ali, non entrano nelle case, si
avvicinano alle finestre e depositano i regalini soltanto dentro le scarpe dei bambini
bravi. Monica appariva perplessa, non tanto sulla capacità di volare dei morti,
quanto per le sue scarpette che, essendo piccole, non potevano contenere molti
regalini. Mi propose: “perché non
mettiamo anche gli stivali tuoi, della mamma che sono grandi?” Mi parve una
buona idea e così facemmo. I morti volanti, i loro doni! Una favola bellissima
che ancora resiste (per quanto ancora?), che rinsalda il legame fra i vivi e i
morti e offre della morte una rappresentazione naturale, umana. Da ricordare
non come un evento tragico ma con una festa, per l’appunto. A nessuno piace
morire, tuttavia la morte è ineluttabile
e pertanto bisognerebbe imparare ad accoglierla senza terrore, con naturalezza. Prima era così. Ho visto
vecchi contadini in punto di morte, serenamente seduti al centro del letto, impartire
alle mogli, ai figli e ai nipoti le ultime raccomandazioni a tutela della
famiglia e della proprietà; inviare saluti ai parenti lontani; ricevere
ambasciate e saluti da recapitare agli amici defunti che sicuramente avrebbero
incontrato nel “viaggio”. Veri testamenti morali, quando non proprio patrimoniali.
Oggi,
temiamo, aborriamo la morte perché ci siamo troppo innamorati della vita! Perciò,
desidero che Monica viva questa ricorrenza come una festa. Come l’abbiamo vissuta noi, da bambini. Ricordo
l’attesa dei morti volanti e le suggestioni che s’impadronivano della nostra
mente: il fruscio, lieve, delle loro tuniche bianche, la ricerca della scarpa giusta dove infilare il regalo
corrispondente. “Ascolta, ascolta! Questa
mi pare la zia Rosina. Speriamo che non sbagli scarpa! Era sbadata in vita
figurarsi da morta”. In certe notti ventose, ci stringevamo intorno al
tavolo, in cucina. Avevamo paura del vento, del suo atroce sibilo. Mia madre
diceva che quello non era il vento, ma il brusio dei morti che ritornano in
paese a cercare le case dove hanno vissuto, a portare i regali ai loro bambini.
E l’indomani mattina presto tutti a guardare dentro le scarpe. Ne uscivano pupi
di zucchero, melegrane dai chicchi dolcissimi e vermigli, taralli e biscotti al
vino cotto, panareddri (panierini)
impreziositi con semi di “diavolina” e con un uovo sodo al centro. Doni
semplici confezionati in casa e frutti della nostra terra generosa. Soprattutto,
c’era grande attesa per i “pupi di zuccaru”,
una sorta di giocattolo commestibile, nelle sembianze di vigorosi paladini
di Francia o di fieri cavalieri saraceni. Eroi-pupi, di zucchero o di latta,
che ancora si contendono il nostro destino! I pupi c’entrano sempre nella tradizione
siciliana, nella vita come nella festa dei morti. Da loro deriva anche un verbo
“pupiddriari” usato per declinare gli
effetti cinetici di un barbaglio agli occhi.
Il
pupo è la chiave per aprire lo scrigno delle nostre finzioni, dei nostri camuffamenti,
dei nostri trucchi. E’ una maschera, che indossiamo per la vita. Siamo tutti
pupi, secondo Pirandello. Ancora lui! Non so quanto sia vero tale assunto che
potremmo anche accettare solo se fossimo pupi liberi di vivere nel mondo del
fantastico e schivare la pessima realtà che ci circonda. Ma nemmeno questa
libertà ci è con- sentita: dietro o sopra i pupi c’è sempre un puparo che tira
i fili. A Palermo sono maestri nel fabbricare pupi di zucchero e di altro
materiale. Ne ho comprato uno per Monica. Rappresenta una principessa araba e
il suo spavaldo cavaliere con elmo e sciabola. Domattina, lo troverà nella sua
scarpina, sulla finestra…
(da “Monica, storia di un’infanzia ritrovata”,
di Agostino Spataro- Edizioni “Il mio
libro”, 2011)
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