L'ammiraglio Giampaolo Di Paola |
Il pomeriggio del 16 novembre 2011 quando giurarono
fedeltà alla Costituzione i ministri-tecnici del primo Governo Monti, lui non
c’era. “L’ammiraglio Giampaolo Di
Paola, alla difesa, è in
missione in Afghanistan per conto dell’Alleanza atlantica”, giustificò
il premier. Da quel momento in poi il ministro con le stellette non si è
fermato un attimo, sempre in giro per il mondo a promuovere la grandeur
dell’Italia e l’efficienza del suo complesso militare industriale.
La prima visita ufficiale dell’ex Capo di stato
maggiore ed ex presidente del Comitato militare della Nato - tredici giorni
dopo l’insediamento - era a Berlino nel nome del ritrovato asse italo-tedesco
per lo sviluppo dei missili e dei droni. Poi, una dietro l’altra, le missioni
in Mauritania, nuovamente in Afghanistan, Gran Bretagna, Libano, Albania,
Tunisia, Belgio, Russia, Stati Uniti (faccia a faccia con il Segretario alla
difesa, Leon Edward Panetta, per predisporre il supporto logistico italiano
alla missione Onu in Siria e parlare di scudo antimissile Nato e Afghanistan),
Giordania, Giappone, Filippine, Francia, una seconda volta in Germania e
Libano, Algeria, Lituania, Lettonia, ancora Afghanistan, Cipro, il Comando Nato
di Bruxelles per il vertice dei ministri dell’Alleanza, Armenia e, a fine
ottobre, a Gerusalemme per il “terzo vertice intergovernativo Italia–Israele” a
riprova di una partnership sempre più fatta di esercitazioni congiunte, in
Sardegna e nel Tirreno, nel deserto del Negev e nel golfo di Haifa, e di
import-export di caccia, missili, satelliti e velivoli spia. Infine, qualche
giorno fa, i bis in Algeria e in Francia (più correttamente a Parigi per la
riunione con i ministri della difesa e degli esteri di Germania, Francia,
Polonia e Spagna).
Quando è rimasto a Roma, l’instancabile ammiraglio è
stato disponibile a ricevere in pompa magna una lunga lista di omologhi
ministri alla guerra e alti ufficiali Usa e Nato: nell’ordine di arrivo in
Italia, quelli di Canada, Sud Africa, Serbia, Filippine, Somalia, Macedonia, il
Segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen (all’ordine del giorno
“l’impegno in Afghanistan al termine della fase di transizione, la situazione
nei Balcani, la difesa missilistica e la riforma dei Comandi e delle Agenzie
dell’Alleanza”), Libia, Polonia, Kazakhstan, Somalia bis, Russia, Montenegro,
Lettonia, il generale James N. Mattis comandante dell’U.S. Central Command, Afghanistan, Senegal, Slovenia, Vietnam,
Azerbaijan, Francia, Colombia. Ovviamente molti dei vertici si sono conclusi
con la firma di memorandum e accordi di mutua cooperazione tra le forze armate,
war games e addestramenti congiunti,
sperimentazione e acquisizioni di sistemi d’arma e attrezzature tecnologiche di
alto valore strategico.
Pur consolidando gli impegni nei principali teatri di
conflitto internazionale intrapresi dai predecessori (Afghanistan, Libano,
Balcani, Corno d’Africa, ecc.), Giampaolo Di Paola ha chiesto di estendere la
proiezione militare italiana ai turbolenti scenari del continente africano:
innanzitutto la “nuova Libia” uscita esangue dai bombardamenti Nato ed
extra-Nato dello scorso anno e a cui già forniamo intelligence, addestratori e
consulenti (senza dimenticare il consenso a Washington a lanciare, dalla base
di Sigonella, stormi di droni contro Tripoli e Bengasi); il Maghreb (dove la
priorità resta la lotta all’immigrazione “clandestina” nel Mediterraneo);
l’Uganda (da fine agosto un team dell’esercito a Kampala addestra al
combattimento i militari locali destinati al fronte somalo e alla caccia di
“terroristi” nella regione dei Grandi Laghi); il Kenya, con cui l’esecutivo
Monti ha avviato un’“intesa per consolidare le rispettive capacità difensive e
migliorare la comprensione reciproca sulle questioni della sicurezza”; il
martoriato Mali (l’Italia ha rassicurato l’Unione europea e gli stati africani
che non farà mancare il suo supporto all’ormai prossimo intervento
multinazionale d’occupazione).
L’Italia è
pronta ad andare ovunque e comunque, è l’assunto del ministro, per difendere i valori e
gli interessi del tricolore, specie se questi coincidono con quelli dei manager
e degli azionisti delle grandi aziende produttrici di materiale bellico. “Il
settore industriale italiano nel campo sicurezza e difesa è ad alta tecnologia
e ad alta innovazione, di rilevante importanza per lo sviluppo economico di
questo Paese”, ha dichiarato Di Paola durante l’’audizione con la Commissione difesa alla Camera dei deputati,
lo scorso 6 novembre. Poi ha aggiunto: “Finmeccanica, la più grande delle industrie italiane nel settore
ed una tra le più grandi a livello globale, impiega circa 70.000 unità
lavorative e ha un fatturato di oltre 16-17 miliardi di euro all’anno e di
questo, l’80% viene dal settore sicurezza e difesa. Questa realtà tecnologica e
industriale, importantissima anche per l’occupazione e la crescita a cui
contribuisce, deve essere sostenuta con investimenti appropriati e
collaborazioni internazionali importanti”. E per sostenere Finmeccanica e
socie, Di Paola è capace a rimettersi in viaggio tra un meeting e l’altro,
visitando le maggiori fiere internazionali degli strumenti di morte, come
quella “aerea” di Farnborough, Gran Bretagna (12 luglio) o l’Euronaval di Parigi – Le Bourget (24
ottobre).
Encomiabile il pressing su Monti, media e Parlamento
per risparmiare alla Difesa l’offesa dei tagli della spending review. “Lo strumento militare e le Forze armate italiane
devono disporre di capacità operative e tecnologiche avanzate, tra le quali
certamente rientrano quelle nel settore delle forze aeree, come la linea dei
cacciabombardieri F-35”, ha spiegato Di Paola in Commissione difesa. “L’ammodernamento dello strumento militare,
però, è molto più ampio ed articolato ed investe programmi di rinnovamento
delle forze terrestri, quali la Forza NEC (Network Enabled Capabilities),
delle unità navali, degli elicotteri, dei sistemi satellitari, di difesa
missilistica, di comando, controllo e comunicazione e dei droni, che rappresentano
il futuro di questo settore”. Un programma di ammodernamento ad ampio raggio,
dunque, con un occhio particolare alla guerra
cibernetica, “la nuova frontiera della minaccia”, secondo il ministro.
Così, per sostenere l’impeto riarmista e consolidare il
trasferimento di ingenti risorse finanziarie pubbliche alle industrie militari
anche in tempi di crisi, Di Paola ha rilanciato la trasformazione del modello
“difesa”, dove i “risparmi” per la progressiva riduzione del numero di avieri,
marinai e fanti si convertiranno in “investimenti” in caccia, sottomarini,
carri armati, droni e apparati elettronici. Il tutto condito da qualche
opportuno gioco di prestigio nella predisposizione dei bilanci. Come ad esempio
quello di posticipare gli ordini di qualche anno, spalmando le spese su più
annualità (i nuovi velivoli blindati “Freccia” di Iveco e Oto Melara sono così
slittati dal 2013 al 2016, i due sottomarini U 212 invece del 2016 arriveranno
l’anno successivo, gli elicotteri d’attacco NH90 di AugustaWestland dal 2018 al
2021, quelli AW101 dell’Aeronautica dal 2014 al 2017, l’adozione dei missili
“Spike” a bordo dei famigerati “Mangusta” dal 2017 al 2014).
Di contro nel 2013 saranno acquistati sistemi di cui
nessuno sino ad oggi aveva parlato: 40 blindati multi-uso e anti-mine del
consorzio tedesco Iveco-Krauss (costo 120 milioni di euro ma c’è l’opzione per
altri 40), un imprecisato numero di mortai da 81 mm (16 milioni), un “velivolo
senza pilota tattico UAV” per la Marina militare da utilizzare “per la sorveglianza
e le operazioni navali anti-pirateria”, ecc.. All’esordio pure lo “sviluppo”
dell’MC-27J, la versione dotata di cannoniere dell’aereo da trasporto C-27J
“Spartan” prodotto da Alenia Aermacchi. E che nessuno dica che a Palazzo
Baracchini non si operi alacremente…
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