Don Antonio Sciortino, direttore di "Famiglia Cristiana" |
Non è proprio un ritorno a casa, ma quasi. Don Antonio Sciortino è nato infatti cinquantotto anni fa a Delia e, dopo varie tappe, è arrivato a dirigere uno dei settimanali più diffusi, più amati e più contestati del Paese: “Famiglia cristiana”. Il periodico che, durante il ventennio berlusconiano, qualcuno ha definito – con leggera esagerazione – l’unica voce di opposizione del mondo cattolico. La Sicilia l’ha lasciata subito dopo il ginnasio e ha vissuto la maggior parte della vita a Milano. Quando qualcuno si è stupito che fosse assegnato a un siciliano l’Ambrogino d’oro, ha risposto di considerarsi ormai un milanese d’adozione. “Ma le mie radici restano sempre in Sicilia” – si affretta ad aggiungere – “assieme agli affetti e ai valori di dignità e onestà che ho respirato, fin da bambino, in famiglia e nella mia terra”.
Già, la Sicilia. In cosa la trova mutata in questi decenni? La sua visione delle cose non è entusiastica: “Purtroppo, faccio fatica a capire un’atavica rassegnazione dei miei compaesani, che accettano tutto come fosse un destino cui non possono farci nulla. Come i vinti di Giovanni Verga, destinati alla sconfitta. Così, per loro è normale che, soprattutto in estate, nei paesi manchi l’acqua o arrivi col contagocce. Senza reagire come si deve, perché acqua, strada e luce non si negano a nessuno. Invece, si ritengono fortunati se dai rubinetti scorre l’acqua almeno tre giorni alla settimana. Eppure, la Sicilia è ricca d’acqua. E così in tante altre situazioni, dove il diritto diventa un favore che bisogna implorare o pagare per averlo. Non è cresciuto il senso di cittadinanza attiva e di partecipazione diretta alla costruzione del proprio destino e dello sviluppo del proprio paese. In positivo, c’è qualche accenno di risveglio civile da parte dei giovani, che non si rassegnano alla dittatura della mafia. E cominciano a capire che la malavita organizzata è una schiavitù, un destino di morte e non di libertà e di vita”.
A un prete-giornalista, che per anni ha seguito Giovanni Paolo II nei suoi viaggi intorno al mondo, è difficile non chiedere un parere sull’atteggiamento della gerarchia cattolica nei confronti dei mafiosi: dall’appello di papa Wojtyla nella Valle dei Templi alle recenti scomuniche dell’arcivescovo di Agrigento che i mafiosi non li vuole in chiesa né da vivi né da morti. “Certo” – osserva don Sciortino - “dall’affermazione di tanti anni fa che la mafia in Sicilia non esisteva e che era un’invenzione del Nord, a dichiarazioni esplicite di condanna, il salto è stato netto e positivo. Bisogna far capire che non c’è nessuna accondiscendenza da parte della Chiesa alla mafia e alla mentalità mafiosa. Malavitosi che esibiscono Bibbie, Vangeli, crocifissi e icone sacre nei loro nascondigli offendono il sentimento religioso dei credenti. E fanno un torto a Dio con il quale, come tuonava Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, dovranno fare i conti un giorno. Ma” – aggiunge subito - “la denuncia pubblica, sia pure importante, non basta. Bisogna partire dalla formazione delle nuove generazioni. Sradicare la mafia è possibile, non solo con la repressione delle forze dell’ordine, ma soprattutto incidendo nella mentalità dei giovani. Con la scuola e l’educazione. I ragazzi devono capire che il rispetto della legalità e l’onestà sono valori che appartengono non ai deboli, ma ai forti”. A proposito di educazione, gli chiedo quanto possa essere efficace un’azione pedagogica non supportata dall’esempio. E per essere più esplicito, dopo avergli ricordato che , in questi ultimi anni, alcuni politici hanno costruito la propria fortuna elettorale sbandierando la propria appartenenza ecclesiale , gli chiedo come mai nessuna voce autorevole del mondo cattolico abbia preso le distanze da questi politici né quando scalavano le vette del potere né quando ne sono precipitati per acclarate responsabilità penali. Il direttore di “Famiglia cristiana” mi scruta un momento, quasi a volersi concentrare. Ma non elude la questione: “Nessuno deve strumentalizzare la Chiesa per scopi politici e di parte. Ma, al tempo stesso, neanche la Chiesa deve farsi strumentalizzare e usare, in cambio di favori e privilegi. La sua voce deve essere nitida e alta quando sono in ballo valori fondamentali. O quando vengono calpestati i diritti dei più deboli e indifesi. Deve annunciare il Vangelo nella sua interezza e scomodità, rispetto alla mentalità corrente, senza balbettare. Anche quando non è facile dire la verità. E c’è un costo da pagare. Ma la verità, come ci ricorda il Vangelo di san Giovanni, ci renderà liberi. No, quindi, ai compromessi col potere, soprattutto se iniquo”.
Don Sciortino è a Palermo per parlare, nella rinnovata sede storica della Libreria Paoline di Corso Vittorio Emanuele, del rapporto fra la fede e la comunicazione sociale. Palermo, nel maggio dell’anno venturo, sarà teatro di un evento dall’ampia risonanza mediatica: il parroco di Brancaccio, don Pino Puglisi, sarà proclamato “beato”. Alcuni considerano illuminante che la Chiesa proponga a modello un prete che, invece di fare finta di niente, abbia affrontato il prepotere mafioso faccia a faccia. Ma altri temono che, elevando don Puglisi agli onori degli altari, lo si releghi un po’ troppo in alto: che si possa suggerire, involontariamente, la convinzione che solo figure eccezionali di santi possano sfidare il martirio e che i preti “normali” siano legittimati a mantenersi prudentemente distanti da questo genere di problematiche. Ma don Sciortino sembra condividere solo in minima parte questa preoccupazione: “Tutti i preti dovrebbero fare quello che faceva don Puglisi. Che non faceva nulla di così straordinario, se non annunciare il Vangelo ed educare le nuove generazioni secondo i principi cristiani. Che sono quanto di più opposto ci sia nei confronti della mentalità mafiosa. Ed era proprio questo che dava fastidio. Perché così don Puglisi colpiva la mafia in profondità. Bonificava il terreno perché alla mafia venissero a mancare nuove leve. Mi auguro che la prossima beatificazione di don Puglisi sia un riconoscimento e uno sprone per tutti i preti a educare i giovani secondo il Vangelo. Con più coraggio”.
Prima di chiudere la conversazione sulla Sicilia di ieri e di oggi, gli chiedo uno sprazzo sul futuro. Non certo previsioni da veggente, piuttosto auspici da conterraneo. “Sogno finalmente” – mi confida - “una Sicilia protagonista del suo destino. Sia in campo ecclesiale che civile. Che sappia, una volta per tutte, reagire alla rassegnazione, e contrastare il fenomeno mafioso alla radice. Con più senso dello Stato e delle istituzioni. Ma ci vuole una nuova classe politica, meno gattopardesca, che badi più al bene comune e alla crescita della Sicilia, che ai propri privilegi, davvero smisurati. Che non danno una buona immagine dei siciliani nel resto del Paese. Noi siamo di più rispetto ai mafiosi e ai malavitosi: così dovrebbero dire le tutte le persone oneste in Sicilia. E, al tempo stesso, uscire allo scoperto e impegnarsi per una Sicilia davvero nuova. Questa bella isola ha immense risorse umane e civile. E grandi potenzialità di crescita e sviluppo”.
Augusto Cavadi
“Repubblica – Palermo” 23. 11. 2012
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