Palazzo d'Orleans |
Fatti inediti accadono in Sicilia. Ivan Lo Bello chiede il superamento
dell’Autonomia speciale, l’UdC di Gianpiero D’Alia un commissariamento del
Governo. E i 45 anni passati (invano) da quando Emanuele Macaluso, con “Parole
chiare sulla Sicilia”, contestava su Rinascita le gravi degenerazioni
burocratiche e clientelari e invocava la radicale riforma della Regione come
unica via per salvare l’Autonomia, sembrano dargli ragione. In quelle parole di
allora è il tema che in questi giorni più acutamente si pone. Le elezioni sono
previste in autunno, ma è allarme per un bilancio regionale in deficit
strutturale (certificato dalla Corte dei Conti), che si regge su crediti
inesigibili velando buchi incalcolabili, per il recente “congelamento” per
presunti vizi di 600 mln di euro di fondi strutturali europei, per le
conseguenze della cd. spending review, con la prevista riduzione nell’Isola di
oltre 5 mld di spesa da qui al 2014.
Il Governatore Lombardo – che pure rivendica l’azione di contenimento della spesa corrente (sulla sanità, ad esempio) – ha poche scuse per i ritardi nell’attuazione delle politiche di sviluppo, mentre conduce alacremente lo spettacolo indecoroso, alla vigilia delle annunciate dimissioni, delle cento e una nomine di galoppini dall’incerta scienza e coscienza. La Sicilia è la nostra Grecia, lo abbiamo detto anche su queste colonne. Ma davvero bisogna fare come in Grecia? Il “rompicapo” della politica isolana, complice il disinteresse dei partiti nazionali, non restituisce l’immagine nitida dei drammi che vi si consumano. E il mero racconto scandalistico – spesso assai approssimato – dei principali quotidiani li deforma. L’opinione pubblica nazionale, in cui ciascuno è alle prese con le sue crisi, non nasconde il desiderio feroce di “affamare la bestia”. Non si nega l’esigenza di interventi anche drastici nella Regione popolata da forestali che però ogni estate va in fiamme. Ma “licenziare tutti” i dipendenti pubblici “in esubero” in quale baratro condurrebbe l’Isola, che ha di fronte un altro anno di recessione, dove lavora meno di un giovane su quattro, 20 mila talenti ogni anno “fuggono”, un terzo dei cittadini è in povertà? La P.A. è certo un ammortizzatore sociale improprio, consolidato in decenni di malgoverno, che tuttavia ha supplito a un welfare squilibrato, ma la responsabilità delle “decadas perdidas” dello sviluppo è solo dei siciliani “assistiti” o non anche del lungo declino delle politiche nazionali, culminato nello smaccato antimeridionalismo del Governo Berlusconi?
Il Governatore Lombardo – che pure rivendica l’azione di contenimento della spesa corrente (sulla sanità, ad esempio) – ha poche scuse per i ritardi nell’attuazione delle politiche di sviluppo, mentre conduce alacremente lo spettacolo indecoroso, alla vigilia delle annunciate dimissioni, delle cento e una nomine di galoppini dall’incerta scienza e coscienza. La Sicilia è la nostra Grecia, lo abbiamo detto anche su queste colonne. Ma davvero bisogna fare come in Grecia? Il “rompicapo” della politica isolana, complice il disinteresse dei partiti nazionali, non restituisce l’immagine nitida dei drammi che vi si consumano. E il mero racconto scandalistico – spesso assai approssimato – dei principali quotidiani li deforma. L’opinione pubblica nazionale, in cui ciascuno è alle prese con le sue crisi, non nasconde il desiderio feroce di “affamare la bestia”. Non si nega l’esigenza di interventi anche drastici nella Regione popolata da forestali che però ogni estate va in fiamme. Ma “licenziare tutti” i dipendenti pubblici “in esubero” in quale baratro condurrebbe l’Isola, che ha di fronte un altro anno di recessione, dove lavora meno di un giovane su quattro, 20 mila talenti ogni anno “fuggono”, un terzo dei cittadini è in povertà? La P.A. è certo un ammortizzatore sociale improprio, consolidato in decenni di malgoverno, che tuttavia ha supplito a un welfare squilibrato, ma la responsabilità delle “decadas perdidas” dello sviluppo è solo dei siciliani “assistiti” o non anche del lungo declino delle politiche nazionali, culminato nello smaccato antimeridionalismo del Governo Berlusconi?
Oggi, però, la sinistra riformista siciliana non può eludere la domanda: a
cosa serve oggi la Regione-apparato? Questo Moloch a cui è sacrificata ogni
altra leva pubblica di investimento, serve al mezzo milione di under 35 che non
studiano e non lavorano? A chi vuole aprire un’impresa, intraprendere le nuove
vie dello sviluppo? Nella lotta spietata tra difensori della rendita ed esclusi
– ultimi e penultimi, ma anche “i capaci e i meritevoli” – la Regione da che
parte sta? Non è forse il covo di rendite e privilegi? E allora la riforma
radicale deve partire da lì, dai costi della politica e delle alte cariche
amministrative (o delle società partecipate), da selezionare con una
trasparenza che spezzi il vincolo perverso, perché opaco, con una politica
deteriore. E tutto questo serve, ma non basta. Che fare delle migliaia
incalcolabili di impiegati regionali e comunali, diretti e indiretti? Il “fuori
tutti” è populismo speculare al “dentro tutti”, perché in una Regione in cui
sono negati i livelli essenziali dei servizi, l’impiego di personale dev’essere
volto all’efficienza e alla riqualificazione. E occorre un’operazione verità,
che faccia emergere il numero di dirigenti, dipendenti e precari, i reali
esuberi e i fabbisogni, per poi adottare meccanismi di flessibilità e mobilità
interna necessari, senza difendere il pessimo esistente, ma senza seguire
demagogiche, e irrealizzabili, epurazioni di massa. Al recupero degli sprechi
negli acquisti, poi, corrispondano investimenti in settori chiave e attrattori
di sviluppo, anche al fine di aprire un canale con il privato che ne favorisca
l’espansione.
È la politica, una rinnovata politica, che deve portare avanti la riforma
coinvolgendo le forze sociali e le energie migliori offese dalla rendita, in un
radicale ripensamento della stessa Autonomia e dei suoi meccanismi. Se non vuol
essere accantonata, infatti, da “scudo” del cambiamento – come nel caso della
deliberata riduzione del numero dei parlamentari regionali (che ancora attende
i tempi della modifica costituzionale) – diventi leva di sviluppo, in grado di
autoriformarsi (con l’abolizione delle province e il decentramento) e di
condurre grandi battaglie, dal rating antimafia, alla gestione dei beni
confiscati, all’investimento in ricerca per ogni polo industriale in crisi.
Perché qui, tra mancate riforme e austerità, alla nuova generazione – che non
ha scheletri nell’armadio di malgoverno – sarà preclusa ogni possibile azione
pubblica per incidere nell’economia e nella società. E in gioco sarà presto la
democrazia: la nostra Grecia, appunto. In vista delle regionali, sarebbe il
caso di discuterne, no?
L'Unità, 17 luglio 2012
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