Antonio Mazzeo |
L’operazione-blitz
delle forze dell’ordine “Gotha 3” e per Cattafi si sono (ri)aperti i cancelli
del carcere, frantumando sapienti accordi politico-istituzionali e lucrosissimi
affari, discariche di inerti e rifiuti a Mazzarrà Sant’Andrea, prestigiosi
hotel a cinque stelle a Portorosa di Furnari, un megaparco commerciale nella
città del Longano, chissà quale altro ecomostro ancora a Milazzo. Sembrava intoccabile.
Invincibile. Innominabile. Oggi appare come un patriarca sconfitto, piegato,
smascherato, tradito. Il re-boss, forse, è nudo. E Barcellona torna a
respirare. Finalmente.
Numerosi
i collaboratori di giustizia e i testimoni che hanno delineato le caratteristiche e le funzioni di
quello che è stato per anni dominus incontrastato della mafia messinese.
“Cattafi è il cassiere della “famiglia” barcellonese”, ha raccontato l’ex
affiliato al clan catanese Alfio Giuseppe Castro. “Era la persona di assoluta fiducia
che aveva il compito di ricevere tutti i proventi delle attività illecite. Mi
si fece capire come quella persona che si presentava così distinta ed
apparentemente al di fuori di ogni sospetto in realtà gestiva l’intera
organizzazione…”.
“Nino
Santapaola, fratello di Benedetto, mi disse che Saro Cattafi si era interessato
con la sua famiglia a delle operazioni di smaltimento di rifiuti tossici che
dovevano essere interrati”, ha rivelato Eugenio Sturiale, altro collaboratore
etneo. “Mi disse esplicitamente che il barcellonese era per l’organizzazione un
veicolo per riciclare denaro sporco. I Santapaola guadagnavano una montagna di
soldi provento delle loro attività illecite. Consideravano Cattafi non organico
alla loro famiglia dal momento che non vi era stata una formale affiliazione,
ma in ogni caso per loro era un soggetto su cui potevano contare al 100%,
altrimenti non gli avrebbero mai affidato i loro soldi. Nino Santapaola mi
disse anche che Saro Cattafi era in ottimi rapporti con la famiglia Madonia di
Caltanissetta e che stava bene con i palermitani ed in particolare con i
Corleonesi, quindi con Vitale e Bagarella”.
Per
Carmelo Bisognano, già ai vertici della “famiglia” criminale dei cosiddetti mazzarroti,Cattafi è il “numero
uno” dell’organizzazione
barcellonese ed è “il contatto
diretto con le istituzioni deviate, la politica, la pubblica amministrazione,
la magistratura e le forze dell’ordine”. Un cassiere-riciclatore in grado di
agganciare le istituzioni e i potentati politici, giudiziari ed
imprenditoriali, la borghesia mafiosa siciliana e quella con salde radici nel
nord Italia. Una specie di
jolly, lo ha definito Eugenio Sturiale, forte dei “suoi rapporti con i
servizi segreti” e gli apparati deviati dello Stato e appunto per questo stimato
e riverito dai fratelli Santapaola e dal loro fedele alleato a Catania, Aldo
Ercolano.
A
riferire delle contiguità del boss barcellonese con i Servizi, ci aveva già
pensato molti anni prima il collaboratore Maurizio Avola, già spietato killer
delle “famiglie” etnee. In un’intervista
rilasciata al settimanale Sette del Corriere
della Sera nel maggio 1998,
Avola si era soffermato sugli incontri al vertice che Cosa nostra teneva
settimanalmente in un autogrill dell’autostrada Catania-Palermo alla vigilia
delle stragi di Capaci e via d’Amelio. “C’erano i rappresentanti delle varie
province”, ha raccontato. “E c’era Cattafi che era uno molto potente, per noi era più
importante degli altri uomini d’onore perché eravamo convinti che fosse legato
ai servizi segreti e anche alla massoneria. Rappresentava l’anello di
congiunzione tra la mafia e il potere occulto”.
Due
mesi più tardi, Avola ritornò sull’argomento nel corso di un interrogatorio con
la sostituta procuratrice di Barcellona, Silvia Bonardi, e il commissario Paolo
Sirna. “So, per quello che mi ha detto Calogero Campanella, che Cattafi apparteneva
ai servizi segreti, che scambiava favori con personaggi dei servizi”, ha
dichiarato Avola. “Ci faceva dei favori, degli omicidi e loro ci facevano
passare della droga, coprivano i reati diciamo. I favori li faceva ai servizi
segreti. E loro in compenso, se lui passava delle armi o grossi quantitativi di
droga, non lo arrestavano. Davano il passaggio libero”.
Bisogna
fare ancora qualche passo indietro nel tempo per comprendere come, quando e
perché il rampollo di una delle più onorate famiglie della borghesia
barcellonese decise di varcare il limes tra il lecito e l’illecito, il legale
e l’illegale, il Bene e il Male. La zona d’ombra risale ai primi anni ’70,
quando Cattafi si muoveva con disinvoltura all’interno del variegato arcipelago
neofascista e neonazista che mise sotto scacco la vita dell’Ateneo di Messina
tessendo diaboliche alleanze con gli affiliati alle ‘ndrine calabresi, le prime
“famiglie” del messinese, i circoli esoterici più reazionari e i doppi e tripli
agenti segreti delle cellule militari e paramilitari filo-atlantiche. Rosario
Cattafi, al tempo studente di giurisprudenza e militante della destra eversiva, fu
protagonista di azioni squadriste, pestaggi di giovani di sinistra, risse
aggravate e danneggiamenti.
La
prima denuncia nei suoi confronti risale al
7 dicembre 1971: insieme ad alcuni camerati barcellonesi appartenenti ad Ordine
nuovo, ai calabresi Pasquale Cristiano (vicesindaco di Ferruzzano e presidente
del Fuan di Messina, l’organizzazione universitaria del Msi-Dn) e Francesco Prota
(vicino agli ambienti di Avanguardia Nazionale e del Fronte nazionale di Junio
Valerio Borghese), al mistrettese Pietro Rampulla (oggi all’ergastolo quale
artificiere della strage di Capaci), Cattafi fu accusato dell’aggressione di
cinque studenti innanzi alla Facoltà di lettere. Otto mesi di reclusione (pena
sospesa) la condanna emessa dal Tribunale di Messina per aver cagionato
“lesioni personali e volontarie lievi e continuate”. Il 21 febbraio 1972,
Rosario Cattafi venne denunziato per un altra grave aggressione ai danni di un
giovane universitario. Un anno più tardi, nel corso di una perquisizione
notturna della polizia alla Casa dello studente, il barcellonese fu
identificato insieme a Basilio Pateras, militante delle organizzazioni
neofasciste greche Esesi e Quattro
Agosto, occupante abusivo degli alloggi universitari. Il 22 marzo 1973,
Cattafi, Pateras, Pietro Rampulla e un’altra trentina di militanti neri
invasero con la forza i locali del Magistero.
Tollerate
e protette dalle forze dell’ordine e dai vertici accademici, le organizzazioni
neofasciste decisero di radicalizzare i mezzi e le forme di lotta. Dalle
spranghe e le catene si passò alle armi e agli attentati incendiari. Il 27
aprile 1973, Rosario Cattafi venne coinvolto in una misteriosa sparatoria
all’interno della Casa dello studente. Secondo quanto ricostruito dagli
inquirenti, egli si era recato in compagnia del calabrese Prota nell’alloggio
occupato da Pasquale Cristiano per provare un mitra “Stern” contro alcune
suppellettili. Consequenziale una seconda condanna, un anno e otto mesi di
reclusione per detenzione e porto d’arma illegali. Il successivo 3 maggio,
durante una perquisizione dell’abitazione di Cattafi fu rinvenuta una pistola
calibro 7,65 di fabbricazione spagnola. Arrestato e processato per
direttissima, ricevette una mitissima ammenda di 200 mila lire.
Le
due ultime sentenze di condanna furono appellate dall’allora procuratore
generale della Repubblica, Aldo Cavallari, che denunciò pubblicamente lo “stato
di extraterritorialità” in cui era caduto l’ateneo di Messina. “C’è una mafia
universitaria irriducibile, selvaggia, ladra, prevaricatrice, che impone la sua
volontà e la legge della violenza, che vive e prospera per l’omertà generale
dell’atterrita classe studentesca, dei dirigenti, degli impiegati
amministrativi e anche dei rappresentanti del corpo accademico”, scrisse il
dottor Cavallari. “Le forze che potrebbero porre un valido argine al dilagare
di questo potere mafioso nella Casa dello studente sarebbero la magistratura e
la polizia, ma l’una e l’altra non avvertirono, nei confronti della classe
studentesca, quell’esigenza di repressione e prevenzione che pure si avverte
nei confronti dei delinquenti appartenenti ad altra classe sociale”. Solo dopo
la requisitoria del magistrato, il 27 febbraio 1976, il Senato accademico
decise di sospendere gli studenti coinvolti in episodi di squadrismo, primo fra
tutti il Cattafi che dovrà attendere più di vent’anni per completare gli studi di
giurisprudenza e divenire avvocato.
Lasciate
l’università e Barcellona Pozzo di Gotto, Rosario Cattafi raggiunse prima
Milano e poi la Svizzera, dimostrando un’invidiabile conoscenza delle leggi e
dei mercati finanziari. Ma anche una innata capacità di districarsi tra le
differenti fazioni criminali, tra i vincitori e i vinti, gli astri nascenti e
le stelle cadenti del firmamento di Cosa nostra. Gli inquirenti sospettano che
sin dalla seconda metà degli anni ’70, il barcellonese potrebbe essere stato uno dei capi di una presunta
associazione riconducibile a
Benedetto Santapaola, operante nel capoluogo lombardo e in altre città del
territorio nazionale ed estero, “finalizzata alla commissione di estorsioni,
omicidi, corruzioni, detenzioni di armi da guerra”. Un’organizzazione che avrebbe pure
trafficato in stupefacenti e gestito case da gioco illegali, autrice finanche
del sequestro, nel gennaio 1975, dell’imprenditore Giuseppe Agrati, rilasciato
dopo il pagamento di un riscatto di due miliardi e mezzo di vecchie lire. Nel
maggio 1984, Cattafi e gli altri presunti appartenenti alla cellula in odor di
mafia furono raggiunti da un mandato di cattura firmato dal pm Francesco Di
Maggio, anch’egli originario di Barcellona PG e figlio dell’ex maresciallo della locale stazione dei
Carabinieri.
Cattafi,
al tempo, risiedeva in Svizzera e ciò gli consentì di sfuggire all’ordine di
arresto del Tribunale di Milano. Qualche giorno dopo però fu la Procura di
Bellinzona ad emettere un’ordinanza cautelare nei suoi confronti per reati in
materia di stupefacenti. Ma durante l’inchiesta spuntò pure un documento
attestante una mediazione operata dal Cattafi per la cessione di una partita di
cannoni prodotti dalla “Oerlikon Suisse” all’emirato di Abu Dhabi. La prima
grande operazione d’export di armi da guerra del barcellonese.
Il
successivo 30 maggio, Cattafi fu raggiunto in carcere nel Cantone Ticino dal
giudice Di Maggio. Impossibile sapere, ancora oggi, quali furono le domande e
cosa rispose l’indagato. Il verbale dell’interrogatorio fu trattenuto dalle
autorità elvetiche. Da una relazione di servizio a firma di tale “Oliver” della
Sezione Speciale Anticrimine di Torino, si evince tuttavia che Cattafi ammise
di essere l’intestatario di un conto corrente sospetto aperto tra il ‘77 e il
‘78 presso il Credito Svizzero di Bellinzona, denominato Valentino. Lo stesso conto di
cui aveva parlato ai giudici uno stretto conoscente del barcellonese, Giovanni
De Giorgi, operatore finanziario milanese dedito ai trasferimenti di valuta da
e per l’estero.
“Lavoravo
per conto del signor Shammah e il mio compito era di tenere la contabilità e di
prendere il danaro dai clienti importanti tra i quali c’erano il costruttore
romano Caltagirone e Boatti Petroli”, spiegò De Giorgi. “Io stesso e in più occasioni,
ho prelevato danaro proveniente dalla Svizzera per conto del Cattafi, che non
voleva comparire”. Per effettuare questi prelievi, il barcellonese telefonava
ad un funzionario di banca che prima prelevava le somme dal conto e poi faceva
un bonifico all’operatore milanese. Dopo essere entrato in possesso del denaro
contante, De Giorgi lo consegnava direttamente al Cattafi. Una parte di esso
serviva al periodico mantenimento dei latitanti dei clan catanesi.
“Cattafi
si recava spesso nei casinò di Saint Vincent e Campione d’Italia e in vacanza
in Costa Azzurra; ben presto mi resi conto di come costui fosse un giovane
appartenente ad organizzazioni di tipo mafioso e che disponeva di amicizie e
denaro della mafia”, ha aggiunto De Giorgi. “Cattafi riferiva tranquillamente,
anzi si vantava, della sua appartenenza al clan mafioso facente capo all’allora
latitante Nitto Santapaola, per il quale svolgeva mansioni di consulente e
operatore finanziario. In pratica si occupava del reinvestimento in attività
pulite del denaro proveniente dai crimini commessi dal Santapaola e dai suoi
affiliati, nonché svolgeva il ruolo di garante in casi in cui l’organizzazione
doveva trattare affari con altre organizzazioni o con qualche soggetto
esterno”. Sempre secondo
l’operatore, “Santapaola
lo onorava della sua presenza in Milano, in più occasioni anche da latitante.
Si fidava a tal punto tanto da farsi accompagnare da lui quando doveva fare
shopping. Cattafi mi riferiva della cosa come onore riservato a pochi membri
dell’organizzazione”.
Le
autorità elvetiche concessero l’estradizione in Italia di Rosario Cattafi solo
il 18 settembre 1884 e con esclusivo riferimento al reato di concorso nel
sequestro Agrati. Il 30 aprile 1986, il giudice Di Maggio avanzò però richiesta
di sentenza di proscioglimento. Quattro mesi più tardi il giudice istruttore
del Tribunale di Milano, Paolo Arbasino, dichiarò non doversi procedere contro
l’indagato per “insufficienza di prove”.
Francesco
Di Maggio e Rosario Cattafi s’incrociarono ancora durante le indagini
sull’efferato omicidio del procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, avvenuto
il 26 giugno 1983. Lo ha raccontato al Corriere
della sera (8 giugno 1995),
l’allora sostituto procuratore di Barcellona Olindo Canali, condannato in primo
grado a due anni per falsa testimonianza commessa nel corso del processo Mare Nostrum. “Fu Di Maggio ad
arrestare Cattafi nell’85 per l’inchiesta sull’omicidio Caccia a Torino. Fu il
giudice istruttore ad assolverlo, ma rimase dentro per un anno”. In verità, Cattafi non venne arrestato a seguito dell’assassinio del magistrato, però
fu interrogato in carcere dai
pubblici ministeri milanesi titolari dell’inchiesta.
È
ancora Giovanni De Giorgi a offrire elementi inediti sull’ambiguo ruolo assunto
da Rosario Cattafi nell’indagine sui mandanti e gli esecutori dell’attentato
mortale al procuratore di Torino. “Ad un certo punto riferii al Cattafi che
Enrico Mezzani, persona che frequentavamo a Milano, era un agente dei servizi e
che da lui in cambio di notizie avremmo potuto ottenere vantaggi”, ha spiegato
l’operatore finanziario. “Inizialmente il Cattafi provò a cavalcare la cosa,
più che altro dando notizie inerenti organizzazioni mafiose avversarie della sua;
è in questo contesto che indicò come autori dell’omicidio del giudice Caccia i
Ferlito”. Informazioni sugli acerrimi nemici di Santapaola dunque, in cambio di
vantaggi e favori, primo fra tutti l’impegno (poi disatteso) del Mezzani,
sedicente agente del Sisde, alla concessione del porto d’armi al barcellonese.
E in piena guerra tra spioni e controspioni, il 17 aprile 1984 Enrico Mezzani
rivelò al giudice Di Maggio di aver appreso da Cattafi che il medesimo
nell’estate del 1983 aveva partecipato ad una riunione, “presenti tra gli altri
Nitto Santapaola ed un parlamentare democristiano”, in cui si era parlato di
una fornitura di armi destinate all’esecuzione di un attentato ai danni
dell’allora giudice istruttore Giovanni Falcone.
Secondo
De Giorgi, Cattafi avrebbe informato Mezzani pure su Angelo Epaminonda, il
personaggio di punta della malavita milanese negli anni ’80. Grosso trafficante
di stupefacenti, Epaminonda si era inserito con successo nel controllo delle
case da gioco del nord Italia, alleandosi con le famiglie mafiose siciliane e
con i clan aventi la loro sede operativa nell’autoparco di Milano. Epaminonda
fu il primo a descrivere l’escalation criminale in Lombardia del giovane
Cattafi. Interrogato nel dicembre 1984 da Francesco Di Maggio, Epaminonda
raccontò che qualche tempo prima si erano presentati al suo cospetto il
catanese Salvatore Cuscunà inteso Turi
Buatta e Rosario “Saro”
Cattafi, per proporgli di cogestire un’attività di cambio assegni presso il
casinò di Saint Vincent. “Dopo i primi convenevoli, nel corso dei quali Saro mi
spiegò di essere legato strettamente a Nitto Santapaola, mi feci indicare i
termini del progetto. Saro disse che agiva in società con altra persona ben
introdotta nei casinò. Trattai gli interlocutori con sufficienza per far
intendere che la proposta non era di mio interesse, almeno nei termini della
società tra noi. Rammento ancora che Saro mi disse di essere in buoni rapporti
con la Guardia di finanza, che era stata messa una taglia per la mia cattura e
che avrebbe potuto interferire per avere notizie su come la Finanza si muoveva.
Risposi che la cosa non mi interessava, che la Finanza avrebbe potuto fare il
suo lavoro tranquillamente, anche perché io avevo da vedermela con altre forze
di Polizia. Io temevo che gli emissari del gruppo Santapaola, e tra questi
Saro, tendessero a stringere rapporti con me, per poi farmi catturare”.
A
Milano, Cattafi poté pure contare sulla fiducia dei rappresentanti delle
‘ndrine (per il collaboratore Franco Brunero il barcellonese era legato ai
calabresi facenti capo ai Ruga, “collegati a loro volta a Santapaola tramite
tale Paolo Aquilino”) e, contestualmente, degli esponenti di punta della
vecchia e nuova mafia palermitana. Sin dai primi anni ’70, il capoluogo
lombardo era stato scelto quale base operativa e finanziaria dai boss Gaetano Fidanzati, Alfredo e Giuseppe
Bono, Gerlando Alberti senior, Enrico e Antonino Carollo. Milano e la Svizzera
erano tappe delle missioni d’oltre Stretto di Stefano Bontate, il “principe di
Villagrazia”, un’ossessione malcelata per la
caccia e le macchine di grossa cilindrata, alla guida della Cupola sino alla
sua morte, il 23 aprile 1981,
quando fu assassinato dai Corleonesi di Riina e Provenzano.
Nel
dicembre 1997, il falsario Federico Corniglia ammise davanti ai pubblici
ministeri Alberto Nobili e
Antonio Ingroia di essere entrato
in contatto con numerosi esponenti della mafia siciliana. “Conobbi in particolare il capo mafia
Stefano Bontate, al quale consegnai due
false carte d’identità svizzere”, ha raccontato. “In quella stessa occasione
notai che il Bontate era in compagnia di uno studente di Barcellona, che si
chiamava Saro Cattafi. Era un uomo di fiducia del mafioso palermitano, tanto
che si occupò di gestire in qualche modo, un grosso debito che
tale Gianfranco Ginocchi aveva contratto nei confronti di quel capo mafia”. Il
Ginocchi, ucciso il 15 dicembre 1978, era un agente di cambio con importanti
relazioni con gli istituti di credito svizzeri e aveva compiuto operazioni di
riciclaggio per conto della stesso Bontate. “Ginocchi aveva gli uffici in via
Cardinal Federico, proprio alle spalle della Borsa. Cattafi addirittura, si
installò a casa di questo Ginocchi perché doveva una cifra a Bontate. Non
poteva assolvere però a questo debito e lui era proprietario di una terra
edificabile nel comune di Milazzo, dove adesso è stato edificato un grande
albergo, e gli cedettero questa terra, cioè sotto minacce, ma proprio fu l’uomo
che fu mandato… Il Cattafi
era uno di quei soggetti che ho visto poi arrivare delle volte col denaro, nel
senso che aveva il compito specifico di trasferire materialmente i soldi
all’estero; si trattava, in sostanza, di uno spallone”.
Gli
inquirenti accertarono che Gianfranco Ginocchi era interessato a due società finanziarie, laRoyal Italia
S.p.a. e l’Euro management
Italia S.p.a. - International Selective, i cui nomi erano emersi
nell’ambito delle indagini sull’omicidio di un altro boss del firmamento di
Cosa nostra, Giuseppe Di Cristina, eseguito a Palermo il 30 maggio 1978. Al momento
della morte, Di Cristina era in possesso di due assegni circolari di 10 milioni
di lire ciascuno che erano stati negoziati sul conto corrente delle predette
società assieme ad una partita di altri assegni circolari per un importo
complessivo di tre miliardi di lire. L’allora giudice di Palermo, Giovanni
Falcone, appurò che il denaro proveniva da un vasto traffico di droga svolto
tra Malta, la Sicilia e gli Stati Uniti d’America dal gruppo mafioso
Inzerillo–Spatola-Bontate.
Negli
anni del boia chi molla e degli assalti dei
calabro-barcellonesi all’Ateneo e alla Casa dello studente di Messina, Stefano
Bontate e la “famiglia” di Santa Maria del Gesù, così come i Santapaola e gli
Ercolano, erano di casa nella città dello Stretto. Il collaboratore Francesco Marino
Mannoia riferì delle preziose amicizie in loco di Stefano Bontate. Il padre,
don Francesco Paolo Bontate, fu ricoverato dal 22 agosto 1973 al 25 febbraio
1974, data del decesso, presso la divisione di neurologia dell’ospedale “Regina
Margherita” di Messina, di cui era primario il professore Matteo Vitetta e
presso la quale lavorava come tecnico Santo Sfameni, il mammasantissima di
Villafranca Tirrena. Alla masseria di don Santo bivaccava la borghesia mafiosa
peloritana: giudici, docenti universitari, medici, professionisti, militari,
carabinieri, politici del pentapartito, fascisti di vecchia data e ordinovisti.
E pure qualche amico e sodale dell’avvocato Rosario Pio Cattafi.
Inchiesta
pubblicata in I Siciliani
giovani, n. 8, settembre 2012.
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