La copertina del libro di Oddo |
Gli ideali rivoluzionari di mastro Ciccio il
sellaio tra utopia e realtà
Io credo che Giuseppe Oddo, lo
storico appassionato di tanti studi sul riscatto mancato delle masse contadine
siciliane e specialmente dell’entroterra palermitano, abbia dato il meglio di
sé in questo romanzo “storico”, in cui, libero dall’esigenza di rendere conto
dei fatti nella loro nuda realtà, li fa rivivere in una realtà più rarefatta,
ma forse proprio per questo ancora più reale, quale è quella dell’autocoscienza
dei suoi personaggi. Questi sono descritti con un tocco di sensibilità
assolutamente profonda nello svolgersi della loro vita quotidiana con le sue
contraddizioni, i suoi eroismi e le sue vigliaccherie e meschinità, nei loro
gesti anche in quelli apparentemente più insignificanti, nei loro modi di fare,
di abbigliarsi, di parlare, di cantare, di pregare e persino di disperarsi. Lo
stile descrittivo che egli ha scelto di utilizzare, ricchissimo di variazioni e
direi quasi stupefacente per precisione linguistica e denominativa, si adatta
bene alla molteplicità e varietà dei casi narrati, e, a mio avviso, non sovrasta
mai il suo contenuto; non c’è nessuna concessione alla retorica pura e semplice,
nessun cedimento alla divagazione – inevitabile in un’opera del genere – che
non sia finalizzata alla evidenziazione ed enfatizzazione del carattere dei
personaggi, dei fatti reali o presunti del contesto complessivo, nessuna fuga
del linguaggio.
In questo senso non ci sono storie parallele, l’opera mi sembra
monolitica e i suoi personaggi, per la maggior parte anche analfabeti – a parte
naturalmente i Bentivegna, La
Porta, l’avvocato Francesco Crispi, il dottor Friscia e pochi
altri acculturati – trovano in Giuseppe Oddo il cantore – mi verrebbe quasi da
dire – divinamente ispirato delle loro speranze, delle loro delusioni, dei loro
torti subiti, dei sentimenti provati ma non detti e talvolta neppure dicibili,
del loro desiderio di riscatto sociale ed economico, ma anche e forse ancora di
più di quello culturale e intellettuale (vd., ad es., il caso della “grammatica
greca” di Bastianeddu, a p. 113).
Le chiavi di lettura del romanzo
possono essere diverse a seconda da quale punto di vista lo si vuole considerare,
che sono tanti. Volendo dare uno sguardo d’insieme sintetico della personalità
del protagonista, io preferirei vederlo tenendo presente la Lettera al nipote che mastro Ciccio il sellaio,
il vecchio portabandiera, scrive al nipotino di cinque anni appena, Ciccino,
pochi anni prima di morire, perché mi sembra che in poche battute, nella loro
enigmatica e allusiva sinteticità, vi si trovino riassunti alcuni dei concetti
di base che potrebbero avere ispirato non soltanto la decisione finale di scrivere
il Memoriale, ma quelli stessi che ne
avrebbero contrassegnato anche il modo di pensare e di agire da eroico
rivoluzionario antiborbonico, pur venendo spesso deluso dei modi con i quali si
andava di fatto realizzando la rivoluzione.
PARTE PRIMA
La Lettera al
nipote (seconda parte, p.
269)
In
questa Lettera che cosa vuole dire il
nonno Ciccio, ormai nell’inverno della sua vita, al nipotino Ciccino che si
trova nella primavera della sua, quando – com’egli dice – “la vita trionfa sulla morte” e che è la
stessa stagione in cui – ci tiene a sottolinearlo – anche lui è nato? Tralascio
per ora la prima parte della lettera dove mastro Ciccio dice di sentire Ciccino
come “la maglia fondamentale della catena umana che, da me, s’è allungata
capricciosamente fino a te”, perché merita una considerazione a parte , e su
cui ritornerò più oltre, e mi attengo alla seconda dove egli cerca di preparare
il nipotino alla sua rivelazione di vita con un aneddoto introduttivo.
In questo aneddoto egli narra ciò
che gli capitò quando era bambino come lui. Un giorno la mamma lo portò ad una
fiera a Sciacca, presso dei parenti. Intanto che si aggirava tra le bancarelle,
ripiene di tante cose belle, insieme alla mamma, sentì qualcuno, “un marinaio
dalla barba bionda e gli occhi pieni di luce” che diceva: “A libeccio”. Tutti
guardarono a libeccio ed anche lui, e
vide “un’isola fumosa che bruciava vomitando cenere ed effluvi di zolfo”, che
però – assicurò la mamma – presto sarebbe diventata “un vero giardino di
delizie”. Poiché nella sua grande ingenuità chiese alla mamma di comprargliela,
questa gli rispose che l’avrebbe fatto “quando l’isola fosse diventata verde”.
La speranza iniziale che un giorno l’avrebbe potuta possedere e che lo aveva
riempito di felicità venne profondamente delusa, al punto da farlo piangere a
dirotto, quando venne a sapere che l’isola era sprofondata negli abissi del
mare da dove era emersa.
Quando raggiunse l’adolescenza e
cominciò a rendersi conto che di isole felici nel suo mare non ne sarebbero più
affiorate, sentendosi mancare “il terreno sotto i piedi”, si buttò “in mare
alla disperata” e – dice – “approdai in un’isola dove regnava sovrana l’utopia
della libertà e della giustizia sociale”. Ma, ahimè!, come la mamma non fu in
grado di acquistargli l’isola verde delle delizie, così neppure il suo impegno
civile, politico e di cospiratore fu mai in grado di farlo approdare
nell’arcipelago dell’utopia dove regna veramente “sovrana” la libertà e la
giustizia sociale, perché tutte “le isole, isolotti, scogli, continenti in
miniatura prima sono stati occupati dai pirati e poi sono sprofondati negli
abissi”.
Fatta questa introduzione e
preparata così l’attesa del nipotino (e anche la nostra) il nonno è pronto
anche lui a fargli la sua rivelazione come fosse un testamento di vita: tutte
le isole sono state inghiottite dal mare, gli dice. «Tutte tranne una: l’isola
della coerenza e della passione vera, il solo approdo sicuro per gli spiriti
liberi e creativi. L’isola dove vorrei venissi a vivere anche tu, nipotino
mio».
Dopo quel preambolo amaro delle
isole tutte inghiottite, ci saremmo potuti aspettare anche una conseguente
conclusione amara, e in un certo senso lo è veramente, ma, per un altro, non mi
sembra, anzi tutto il contrario: è vero, l’isola verde dove “regna sovrana” la
libertà e la giustizia sociale non esiste, è un’utopia, e tale si è rivelata la
rivoluzione antiborbonica; pur tuttavia l’ isola dove “regna sovrana l’utopia
della libertà e della giustizia sociale” esiste veramente, ed esiste innanzi tutto
in noi stessi, nella nostra mente, nella nostra capacità autocosciente di
determinare con vigile intelligenza il nostro modo di vivere e di comportarci
in coerenza con i nostri principi di libertà e di rispetto degli altri.
La Lettera
così si conclude con un misto di amaro sconforto e di spinta propulsiva
all’autodeterminazione, che suona quasi come un inno alla libertà, alla
coerenza con se stessi e alla volontà di continuare ad appassionarsi per tutto
ciò che merita l’impegno del nostro “spirito creativo”. Ma che cos’è che merita
l’impegno appassionato del nostro “spirito creativo” per essere veramente
“creativo”? Non certo – credo – quello di farsi da parte e vivere la propria
vita in modo solipsistico, ma forse più plausibilmente quello di non rassegnarsi
alla fine dell’utopia, sapendo in partenza che si tratta, appunto, di
un’utopia, e di combattere ancora per essa con tutte le armi che si hanno a
disposizione, come potrebbe confermare, credo, anche il senso del Prologo che adesso vedremo e dello stesso
Memoriale. Senza un pensiero
dell’utopia difficilmente le cose potrebbero cambiare da sole, specialmente
quando si tratta di giustizia sociale: e certo è un fatto che dalla Repubblica di Platone in poi il pensiero
utopico della “città felice” ha sempre
costituito il motore di tutte le rivoluzioni e dei rivolgimenti sociali in nome
della giustizia, la quale purtroppo non tanto facilmente si è attenuta ai
principi ispiratori dell’idea del Bene del suo primo teorico.
Il Prologo
L’interesse di questo Prologo non consiste tanto nel fatto di
motivare le ragioni per le quali mastro Ciccio sul finire della sua vita si
decise a scrivere il suo Memoriale, quanto
nel fatto che in esso sono ancora più visibili: 1) sia i principi ispiratori
del suo modo di sentire durante le varie cospirazioni antiborboniche, e 2) sia
la loro effettiva messa in opera anche nella nuova situazione politica venutasi
a creare dopo l’unificazione della Sicilia con l’Italia, da cui emerge
rinnovata l’amara constatazione che i nuovi padroni sono, se possibile, ancora
peggiori dei primi: “Nemmeno quel porco di re Bomba era mai arrivato a tanto”,
osserva sconfortato il gessaio Cantalanotte, e cioè alla carneficina dei
fascianti di Marinè (Marineo) riuniti sotto la bandiera del Fascio per chiedere
“pane” (p.11).
1) Quanto ai principi
ispiratori, qui, diversamente dalla Lettera
a Ciccino, sono chiaramente espressi, e nulla vale meglio a farceli conoscere
delle stesse parole di mastro Ciccio: «Mastro Luciano ce la mise tutta per
toccare le corde più sensibili del mio cuore. Parlò di giustizia sociale,
libertà degli oppressi, “futura umanità fondata sull’uguaglianza e la fine
delle sopercherie”. Ora, giustizia sociale, libertà, uguaglianza, fine delle sopercherie
erano senza dubbio parole magiche, che m’avevano sempre infiammato come uno
zolfanello; ma nelle mie condizioni quel giorno mi suonavano vuote, insensate,
illusorie come i sogni della notte. Un ghigno amaro, quasi una smorfia,
m’affiorò ad un certo momento sulle labbra» (p.8).
2) Quanto,
invece, alla loro messa in opera, si devono distinguere due momenti, autonomi,
ma, alla fine, interconnessi.
a) Nel primo
momento si tratta del fatto che mastro Ciccio, pregato di fare da padrino alla
bandiera rossa del fascio tergiversava, sia a causa della salute molto
precaria, data anche l’età di 68 anni (per l’epoca abbastanza avanzata), sia
soprattutto per il fatto che lui era stato il portabandiera del tricolore e non
gli sembrava, appunto, tanto “coerente” adesso cambiare bandiera. Pur nondimeno,
ad una più attenta riflessione, si rendeva conto che i principi ispiratori dei
fascianti non differivano poi molto da quelli sostenuti da lui in passato, per
cui ad un “compromesso” si poteva comunque arrivare – come lui stesso riferisce
(p. 9 ). Così il momento teorico e quello della sua traduzione nella pratica,
inizialmente inconciliabili, cominciano ad avvicinarsi.
L’identificazione
precipita allorquando mastro Ciccio viene a sapere dal suddetto gessaio della
carneficina di Marinè. A questo punto toglie ogni indugio e lui stesso si fa
promotore del battesimo della bandiera rossa dei fascianti, ma senza il
“compromesso” del fiocco tricolore. Queste le sue parole esacerbate: «In quel
turbinoso rimescolio di sensazioni si profilò nella mia mente una decisione
improvvisa: avrei tenuto a battesimo la bandiera del fascio dei lavoratori di
Bellafrati (Villafrati). Senza il nastro tricolore, a questo punto. Sarebbe
stato un orpello inutile e finanche offensivo per la memoria dei martiri del
paese vicino» (p.13).
b) Il secondo
momento e ultimo si verificò nel ’94 con la proclamazione dello stato d’assedio
in tutta l’isola da parte del governo Crispi. Oddo fa riferire a mastro Ciccio
l’arrivo a Bellafrati di una compagnia di fanti, di bersaglieri “armati fino ai
denti”, che provvidero all’occupazione militare della zona fino ai primi di
aprile, quando si trasferirono a Coniglione (Corleone) con un treno speciale
accompagnati da “un lungo codazzo di gabelloti, campieri, usurai, guardie
campestri e carabinieri a cavallo” (p.17).
Fra gli altri soprusi quello che fece andare mastro Ciccio letteralmente
in bestia fu l’ordinanza che imponeva ai cittadini in possesso di armi di
consegnarli entro il termine perentorio di una settimana. Egli, infatti,
possedeva uno schioppo ormai arrugginito, ma al quale era legata tutta la sua
vita di rivoluzionario: «ma, per catenaccio che fosse – dice –, restava sempre
il mio miglior trofeo, testimone ormai silente d’irrepetibili momenti di
gloria. E dovevo privarmene perché così aveva deciso Sua eccellenza Francesco
Crispi. In condizioni normali – continua – mi sarei fatto strappare entrambi
gli occhi, piuttosto che andare a consegnare l’arma agli sbirri del regime».
Così dovette andare a consegnare l’arma e adeguarsi purtroppo all’adagio che
dice calati juncu ca passa la china (ivi).
Questo lo buttò in una depressione totale.
Da qui, dopo un certo tempo, la
decisione “quasi di scatto”, come controreazione alla depressione, di ritornare
a “drizzare la schiena” – come lui dice – e di “sbandierare ai quattro venti di
che pasta era fatto mastro Ciccio il sellaio”, e dunque la decisione di
scrivere il Memoriale. Non potendo – ma
ora anche non volendo – più sventolare ai quattro venti la bandiera tricolore,
né lo stesso bastone su cui si appoggiava per reggersi in piedi, brandì “ai
quattro venti” l’unica cosa che ancora poteva, la penna, e proprio contro
coloro che avevano tradito i principi di riscatto sociale da cui era nata la
rivoluzione siciliana, a cominciare dall’avvocato don Ciccio Crispi che ora era
diventato “Sua Eccellenza Crispi” e si era reso responsabile del vile massacro
dei fascianti di Marinè.
Evidentemente l’isola fumosa che vomitava effluvi di zolfo non è
diventata né verde, né piena di delizie, ma non è neppure sprofondata negli
abissi del mare da cui era emersa, ma è ancora lì a vomitare effluvi di zolfo,
o, forse meglio, è, sì, sprofondata, ma al suo posto ne è riemersa un’altra; e
mastro Ciccio, guardandola di fronte a sé, che cosa fa? Nonostante le
delusioni, gli acciacchi fisici e l’età, alla fine, riacchiappando dal profondo
della sua coscienza riluttante il suo antico ideale utopico di libertà, di
coerenza con se stesso e di giustizia sociale si lascia infiammare ancora
un’estrema volta come “uno zolfanello” dall’entusiasmo e dalla passione, come
quando era giovane, e questa volta ancor più di prima ben consapevole delle
difficoltà, se non impossibilità, dell’impresa e scrive il suo Memoriale come ultima drizzata di
schiena.
Il Memoriale
Genesi,
sviluppo e declino di un ideale utopico della giustizia e del riscatto sociale.
1) La
Lezione
di vita di mastro Liberatore Ereo, detto Cudidda
Due
balordi, uno dei quali era il figlio di mastro Liberatore, credendo che fosse
la famiglia del giovane Francesco Barbera – questo il nome originario di mastro
Ciccio La Barbera
– la responsabile del colera che era scoppiato nel Comune di Menfrici (ora
Menfi), hanno appiccato il fuoco ad un loro grande magazzino pieno di
tantissime mercanzie provenienti dalla campagna, mandandola in rovina. Essendo
stati identificati, l’amministrazione borbonica non ebbe nessuna esitazione a
farli fucilare. Ciò che impressionò il nostro giovane protagonista, allora
undicenne, non fu tanto il fatto che erano stati puniti coloro che avevano
causata la rovina finanziaria della sua famiglia, quanto il fatto che i due
siano stati fucilati per fatti certo gravi, ma non tali da meritare una pena
così severa. Ma – dice – «Ad impressionarmi di più fu lo zio monsignore che
salutò l’evento sturando una bottiglia di champagne per brindare assieme a suo
fratello Illuminato, detto l’aromatico. Sull’onda dell’emozione – continua –,
fosse dipeso solo da me, sarei scappato a gambe levate dalla scuola di
quell’essere spregevole, sedicente ministro di dio e educatore. Ma avevo appena
undici anni e dovevo rispettare la volontà dei miei, che ci tenevano a farmi
completare gli studi e non la pensavano esattamente come me a proposito dello
zio monsignore» (p.23).
A quattordici anni il precipitare degli eventi a casa sua – la madre, impazzita,
fu ricoverata in manicomio e il fratello maggiore si era suicidato – fu
costretto a lasciare gli studi presso il monsignore, cosa che fece con gran
sollievo ritenendolo anche corresponsabile della fucilazione dei due, e a
cercarsi un lavoro, che trovò più facilmente di quanto credeva, per pietà della
Misericordia Divina, che – come dice – “si materializzò nelle sembianze di
mastro Liberatore Cudidda”, che lo accolse nella sua bottega di sellaio, per
avversione contro il monsignore e gli altri parenti Barbera, per le cui
motivazioni rimando al testo (p.24).
Mastro Liberatore fu per il giovane Francesco oltre che un maestro
dell’arte sua anche un maestro di vita. Gli insegnò come comportarsi nella vita
con le persone, di rispettarle tutte, di guardare al futuro e non al passato
senza scoraggiarsi. Così lo ricorda, con grande senso di ammirazione e di
rispetto: «Mastro Liberatore era un tipo eccezionale, sia come uomo sia come
artigiano. Le selle e i finimenti che uscivano dalle sue mani erano pezzi, unici,
autentiche opere d’arte, oserei dire ….» e continua, osservando: «mastro
Liberatore non valutava le persone per quello che possedevano, ma per le loro
qualità umane… Maestro d’arte e di vita, mastro Liberatore m’insegnò a dire
sempre pane al pane; ad ascoltare pazientemente le ragioni degli altri, per
strampalate che potessero lì per lì sembrare; a non guardare mai indietro,
comunque fossero andate le cose, a dare il petto alla corda, con la stessa
tenacia dei cavalli da tiro, se c’era un
ostacolo da superare. Mi fece capire, soprattutto, l’importanza di rispettare
l’uomo come tale, cercandolo persino nel pazzo e nell’ultimo mentecatto»
(p.25). Come si vede sono principi di saggezza semplici, ma profondi e
ammirevoli per un artigiano.
Non stranizza, quindi, che egli conservi per questo maestro della sua
giovinezza un ricordo quasi commosso, perché seppe guidarlo con grande buon
senso in un momento in cui in lui si affacciava –come egli stesso ricorda – il
“bisogno di promozione e … anche di d’elevazione spirituale” (p.26). «Tra i
tanti ricordi che mi legano a lui – dice –, mi piace rievocarne uno
apparentemente di poca importanza. Fu appunto mastro Liberatore a suggerirmi
(già nei primi giorni che incominciai a lavorare nella sua bottega) di farmi
crescere la barba e d’acconciarla, come già mio padre, alla patriarca. Feci
tesoro dei suoi consigli e ne ricavai vantaggi insperati. Acquisii un che di
ieratico, un fascino che mandava in delirio non poche donne, un’aureola di
simpatia che mi permetteva d’abbattere ogni cortina di diffidenza e – assieme a
tutto questo – anche una voglia di affermazione oltre i limiti del mestiere di
sellaio, un desiderio ansioso di riscatto, una vera smania di fare, fare, fare,
anche se non sapevo bene che cosa, come e perché fare» (ivi).
2)
Il
primo incarico di portabandiera
Ma fu ancora mastro Liberatore che seppe incanalare questa smania di
“fare” verso la cospirazione antiborbonica. Questi infatti non aspettava altro
che il momento di potersi liberare di coloro che nel ’37 avevano condannato a
morte suo figlio, per cui trasmetteva al giovane apprendista anche questo senso
di ribellione e di riscatto; senso di ribellione e di riscatto che egli già
maturava per conto suo. Infatti deluso per il senso di vuoto che gli restava dentro
a causa della sua vita dissoluta, incominciò a darsi alla lettura sperando in
tal modo di colmare tale vuoto. «All’inizio –dice– leggevo di tutto:
quotidiani, ebdomadari, le Favole di
Giufà, le mille e una notte,
qualche passo della Bibbia e le
confessioni di Sant’Agostino… Prendevo quasi tutto in prestito dalla biblioteca
dell’ufficiale della gendarmeria a cavallo. Con la complicità di sua moglie,
naturalmente. Grazie a lei ebbi addirittura l’occasione di posare gli occhi sul
Primato civile e morale degli Italiani di
Vincenzo Gioberti e su alcune interessanti lettere di Mazzini… Queste casuali
letture – dice – mi conquistarono a poco a poco alla causa dell’unità d’Italia
e agli ideali repubblicani, nei quali si riconosceva da anni mastro Liberatore»
(p.29). Come si vede, mastro Liberatore ritorna ancora come modello ideale di
vita e di pensiero.
Ma ciò che lo doveva radicare ancora di più in queste idee repubblicane
fu la lettura del pamphlet antiborbonico di Luigi Settembrini, che qualche
tempo dopo avrebbe incontrato a Napoli e di cui riferirò fra poco. Il libro era
la Protesta
del popolo delle due Sicilie. «A fornirmi questa occasione – dice – fu
ancora una volta donna Iolanda, che me ne diede una copia (stavolta in
omaggio)…» (pp. 29-30).
Riporto adesso il passo che segna il passaggio dall’astratta voglia di
fare alla determinazione di fare nel concreto, in unità di intenti ancora una
volta con il maestro Liberatore. Continuando il testo sopra riportato, così
scrive: «Lessi il libro tutto d’un fiato, incurante del profluvio di carezze di
cui seguitò a farmi oggetto donna Iolanda. E non ci misi molto a rendermi conto
che era necessario sgusciare quanto prima dal privato per imboccare la via
maestra che porta alla libertà, anche a costo di rimetterci la pelle, come i
fratelli Bandiera. Mi sentii d’improvviso affratellato all’ignoto autore del
pamphlet … Bruciavo dalla voglia di contribuire al meglio delle mie possibilità
alla costruzione dell’Italia una, libera e indipendente, non più infestata da
ministri corrotti e sbirri privi di scrupoli, autori di torture e nefandezze
d’ogni genere, personaggi spregiudicati e ambigui come il marito di donna Iolanda» (p.30), il
quale si era distinto per le sue ruberie e per avere tradito la causa della
libertà essendo passato da affiliato alla Giovane
Italia alla polizia borbonica. «No, tutto questo non poteva continuare –
dice a se stesso il giovane apprendista sellaio e cospiratore –. Mi sarei
battuto per una società più giusta, senza soprusi né torture. Senza pena di morte!
Ero ancora troppo disgustato dalla barbara esecuzione del ’37 per tollerare
l’idea stessa di nuove esecuzioni» (ivi).
Animato da questi propositi rivoluzionari partecipò con il suo maestro
alla festa dell’anniversario di suo figlio, che questi, aveva organizzato in
una contrada detta “Chiave”. Vi parteciparono tanti invitati, tutti cospiratori
repubblicani, tranne il fratello di Stefano che parteggiava per il papa,
essendo frate. Qui ascoltò il discorso inaugurale tenuto da don Ciccio Crispi,
seguito dal dottor Friscia. Ma il discorso che più lo infiammò fu quello pure
inaugurale che ancora il dottor Friscia tenne successivamente, nella villa dei
Becchina. Questo discorso – dice – «seppe affascinarmi meglio della prima
volta, trasportandomi in un mondo nuovo, libero dalle catene del bisogno, in
un’epoca gloriosa contrassegnata dalla “universale rigenerazione”» (p.41).
Fu proprio in questa occasione che avvenne la prima investitura di
portabandiera, del tricolore. Qui, dovendosi procedere alla costituzione dei
comitati cospiratori provvisori, il giovane Francesco si permise di proporre
mastro Liberatore – assente in quell’occasione – come capo del comitato
composto da alcuni giovani di Menfrici. Naturalmente la proposta fu subito
accolta, ma poiché qualcuno, Zulo Palminteri, espresse qualche perplessità che
il suo maestro volesse veramente accettare l’incarico, egli si premurò di
tranquillizzarlo. Questo il dialogo tra il dottor Friscia e il giovane
Francesco: «Accetterà, accetterà”, azzardai. “Lo conosco troppo bene per
dubitarne”. Il dottor Friscia sorrise. “Sei in gamba tu, Stefano – questo il
nome di mastro Ciccio con il quale veniva chiamato nella zona di Menfrici per
onorare la memoria del padre morto quando aveva quaranta giorni –. E hai pure
il personale perfetto per portare la bandiera”. “Quale bandiera?”, gli chiesi.
“la bandiera italiana, Stefano mio: il tricolore di cui ho avuto modo di
parlare alla Chiave”» (p.42).
Da qui iniziò di fatto l’attività rivoluzionaria del giovane Francesco.
Dopo i primi interventi contro l’amministrazione borbonica di Menfrici, i
cospiratori, incalzati dai borbonici, si disperdono per le campagne, e
Francesco Barbera, dopo varie vicissitudini, arriva a Palermo già liberata.
Anche l’isola lo sarà fra alcuni giorni, e pure Menfrici, da dove, ritornato
per un certo tempo, fugge sdegnato perché assiste al voltafaccia di alcuni
borbonici, compresi i suoi, l’Illuminato ed il monsignore. A Palermo il
Comitato rivoluzionario provvisorio rifiuta sdegnosamente il tentativo di re
Ferdinando di concedere la costituzione e si discute di una auspicabile
“federazione tra il regno di Palermo e di Napoli”. Nell’ambito della
realizzazione di questo progetto, Francesco Barbera viene inviato a Napoli in
tutta segretezza per saggiarne le concrete possibilità. Qui incontra Luigi
Settembrini, l’autore della Protesta del
popolo delle due Sicilie, che aveva già letto, avendone avuto una copia in
regalo da donna Iolanda, come si è visto. Questo incontro riveste una doppia
importanza per la tesi che sto cercando di dimostrare, perché, per un verso,
anticipa la rivelazione del vecchio nonno al nipotino Ciccino nella Lettera a lui dedicata, e, per un altro,
ne indica con chiarezza le motivazioni, che nella Lettera restano enigmatiche. Il fatto si riferisce a quando il
giovane menfricese insieme al Settembrini ed altri stanno attraversando un
strada di un quartiere di Napoli. Il Settembrini, parlando a bassa per non
farsi sentire da certi sbirri che li pedinavano, riferì con un certo “orgoglio”
che il portone di quel palazzo nobiliare che stava di fronte a loro era rimasto
chiuso dal 1799, da quando era stata rovesciata la Repubblica partenopea,
e “Per riaprirlo, gli eredi aspettano che su Napoli sventoli la bandiera della
libertà” (p.51).
Si noti adesso la risposta che il giovane rivoluzionario dà al professore
Settembrini e il commento che egli, ormai vecchio e inefficiente, fa con se
stesso ma rivolto al nipotino a coloro che lo leggeranno: «Sventolerà presto»,
sentenziai nella mia grande ingenuità giovanile. «Ma dopo tutto quello che ho
visto, mi sono dovuto convincere che la fantomatica bandiera non sventolerà
mai, né a Napoli né in nessun’altra città del mondo costruita al di qua dei
confini dell’utopia» (ivi).
Qui possiamo notare innanzi tutto come venga utilizzato lo stesso tipo di
linguaggio della Lettera. In questa
si dice: “Nella mia grande ingenuità, le chiesi allora di comprarmela”; nel Memoriale si dice: “Sventolerà presto,
sentenziai nella mia grande ingenuità giovanile” In entrambi i testi il
linguaggio è identico e vi corrispondono persino le parole; e identico è pure
il contenuto: nella prima si tratta del prossimo acquisto dell’isola verde e
nel secondo della prossima conquista della libertà.
Ma ciò che potrebbe rendere queste poche righe un testo decisivo per la
comprensione di un’utopia a rischio di
fallimento non solo nel Memoriale, ma
anche nella Lettera e nel Prologo, sarebbe – a mio avviso – la
motivazione che segue. Trascrivo l’intero testo, anche se un po’ lungo: «Una volta ritornato a
Palermo, chiesi di essere ricevuto dal segretario particolare del ministro
provvisorio per gli Affari esteri (che aveva autorizzato la missione) per
esporgli le mie impressioni sulla realtà napoletana. Ma mi dovetti accontentare
d’essere sentito da uno scribacchino del suo ufficio, che annotava tutto
fuorché le cose importanti. Aspiravo al grado di secondo tenente portabandiera,
e fu gran ventura se mi nominarono alfiere senza pensione: il classico osso
gettato in pasto ai cani, ben spolpato, però, dai marpioni di sempre. Ma tutto
questo fu ben poca cosa rispetto al fiele che incominciai a ruminare qualche
giorno dopo, quando mi resi conto che la nuova costituzione sarebbe stata, come
già quella del ’12, quasi a misura dei privilegi di coloro che nella nostra
isola avevano sempre fatto il bello e il cattivo tempo» (ivi).
Come si vede, sono le stesse motivazioni che ritornano identiche in
situazioni diverse: la rivoluzione, una volta raggiunto il potere, sia esso di
stampo mazziniano o sabaudo piemontese, subito, senza perderci tempo, tradisce
le motivazioni che l’hanno ispirata. Naturalmente, nel caso del Memoriale siamo nel tempo in cui il
portabandiera era ancora giovane e pieno di entusiasmo e di voglia di “fare”,
per cui ben si capisce la reazione che ebbe di fronte a questa situazione.
Dice, infatti: «Eppure, non mi passò neppure per l’anticamera del cervello di
smettere di servire la causa rivoluzionaria: ero così allucinato da pensare che
le cose si sarebbero messe presto per il verso giusto, specie se ad oliare gli
ingranaggi del nuovo corso fossimo rimasti impegnati fino allo spasimo noi
mazziniani» (ivi). Qui chi scrive parla di auto-allucinazione, e chi scrive è
un vecchio portabandiera disincantato, che si vede come in un film quando era
ancora giovane. Sta di fatto, però, che una allucinazione analoga ritorna anche
alla fine del Prologo –che potrebbe
essere anche l’epilogo del Memoriale, come
sto cercando di evidenziare –, quando, come si è visto, se avesse avuto ancora
la forza che aveva quando, appunto, era giovane, si sarebbe fatto cavare
“entrambi gli occhi” pur di non lasciarsi privare del suo trofeo, conquistato
nei momenti di gloria. Questo significa – mi pare – che le forze fisiche
scemano, le situazioni mutano, ma la forza dello spirito “appassionato” e
“coerente” rimane identica, sia da giovane che anche ora da vecchio.
Che sia questo il carattere del personaggio che di fronte alle cose
ingiuste non sa resistere e reagisce come può, secondo le circostanze,
“costasse quel che costasse”, lo si può vedere da tanti casi del Memoriale. In questo senso
particolarmente emblematico mi sembra il caso che narra l’incontro del Nostro a
Bellafrati (dove frattanto si era fatto chiamare La Barbera per sfuggire alla
giustizia borbonica) con una zingara alla quale chiede, in modo canzonatorio,
di fargli conoscere il suo futuro (p.129), oppure la forza d’animo mostrata in
occasione del mancato assegno vitalizio che gli spettava per legge e che gli
viene negato per una questione burocratica (pp. 257-258). Ma il caso che nel
suo complesso meglio descrive – a mio avviso – questo carattere forte, molto
ponderato e riflessivo, ma nello stesso tempo istintivo o irrefrenabile di
fronte alle ingiustizie e alle menzogne mi sembra quello che viene dopo il processo-farsa,
così lo definisce, che condanna a morte Santuzzo Meli di Ciminna
sostanzialmente per ragione di stato, e che raffigurava l’atteggiamento
camaleontesco di don Nenè Falerno: «Poi, il 1° dicembre, quando sbarcò con la
corte per la prima volta nell’isola il re Vittorio…, don Nenè Falerno raggiunse
l’apoteosi della sua camaleontesca vicenda personale comandando (con il grado
di capitano) un drappello d’impettiti veterani del ’48, che gridavano con voce
sonora: Viva il nostro re! Viva Vittorio Emanuele!, Viva i Savoia!». Segue
adesso il commento di mastro Ciccio: «Avessi potuto prevedere a tempo debito
metà di queste cose, mi sarei dato al brigantaggio come Nino Leone di Calamigna
[Ventimiglia di Sicilia], piuttosto che arruolarmi tra i cacciatori dell’Etna e
rischiare di farmi ammazzare in combattimento nella piana tra Milazzo e Santa
Lucia del Mela. E se è vero – continua – che in quella circostanza mi guadagnai
sul campo il grado di sottotenente, nessuna carità di patria mi può più
impedire di denunciare, al cospetto del mondo intero, l’infame decreto sabaudo
che il 22 maggio 1861 mi
fece ritornare definitivamente a casa, con il beneplacito di quel re
Galantuomo, di cui sono giustamente fieri i galantuomini che spadroneggiano più
di prima nei grossi centri e nei villaggi di Sicilia» (p.245).
Ritornando dunque al vecchio mastro
Ciccio del Prologo, di cui si diceva
sopra, questi, come abbiamo visto non
potendo scagliare null’altro contro il nuovo nemico, gli scaglia contro la sua
penna, l’ultima arma che ancora gli resta, come fosse un giavellotto, uno di
quelli che mastro Liberatore aveva ordinato di preparare ad un fabbro di
Menfrici per il primo assalto all’oppressione borbonica di quel Comune (p.43).
Sennonché il nuovo giavellotto
scagliato prima di arrivare a colpire il nemico, deve essere raccolto dal
nipotino Ciccino e rilanciato quando ne avrà le forze e la voglia. Ma nulla è
più insicuro di questo e mastro Ciccio, una volta il sellaio
rivoluzionario-sognatore e ora il nonno saggio e disincantato, ne è
perfettamente consapevole.
Qui l’ideale utopico di una
conquista della giustizia sociale è tramontato definitivamente, ma lo spirito
battagliero e sognatore resta immutato.
PARTE SECONDA
La Lettera al
nipote (prima parte, p. 268):
Mastro
Ciccio e la famiglia come rifugio e avamposto per un nuovo concetto di utopia
autocoscienziale.
Se è vero che il Prologo può
essere considerato anche un “epilogo”, esso ci consegna non soltanto la
conclusione del Memoriale con la fine
di un’utopia a livello della giustizia sociale di un vecchio portabandiera, ma
anche all’inverso, la rinascita e il consolidarsi di un’altra utopia, quella
della vita privata del patriarca della famiglia La Barbera di Bellafrati.
L’eroico portabandiera, ora vecchio,
deluso e disincantato degli ideali utopici di una società più giusta, più
libera, sia di stampo mazziniano-repubblicano, che sabaudo-monarchico, e anche
di ambiti più delimitati, si ripiega su se stesso e scopre il valore della
famiglia come ultimo rifugio, ma anche come roccaforte e primo avamposto di
nuove e sempre appassionanti battaglie. Così ci mostra questa sua nuova
scoperta nel momento in cui arriva il figlio Stefano da Marinè per rassicurare
i genitori che nella carneficina di Marinè contro i fascianti non aveva riportato
nessun danno: «Bastò vederlo e l’incubo si tramutò in gioia; le lacrime si
fecero abbracci e baci. I vicini sciamarono tutti. Sorridenti, commossi (si
noti l’affettuosa solidarietà di tutto il vicinato che sembra costituire una
famiglia allargata). Ritrovata l’intimità del focolare compresi come non m’era
mai successo prima che la famiglia restava il più robusto ancoraggio nel
tempestoso mare della vita» (p.14). Per la verità non si può dire che mastro
Ciccio non amasse la moglie Annetta e i figli, il suo pensiero era sempre
rivolto a loro (vd., ad es., la severa critica che fa del suo modo avventuroso
di agire a p.169), ma tra i due amori aveva sempre preferito l’Italia.
Dopo avere passato la vita a correre
dietro ad un ideale perduto, lontano dalla famiglia, sacrificando tutti e tutto
e anche se stesso, soprattutto nella durezza delle carceri di Favignana, adesso
che è vecchio, che non si regge più in piedi ed è costretto a stare a letto
persino con il figlio arrivato da poco, scopre, con sua stessa sorpresa, che la
famiglia rimane l’ultimo rifugio “nel tempestoso mare della vita”, e così
all’ideale utopico di combattere per trovare l’isola della giustizia sociale e
della libertà, sostituisce quello della famiglia, che in questo caso non può
che essere quello della famiglia patriarcale, in accordo con le esigenze
dell’epoca. Ma quale famiglia? Dov’è la famiglia da potere guidare,
all’occorrenza comandare? Ricordo che mio nonno, quasi centenario – figlio di
un altro cospiratore rivoluzionario, amico del La Barbera, che dopo la presa
di Palermo si arruolò anche lui nell’esercito garibaldino come “primo tamburo”,
sbattendo il bastone a terra diceva a mio padre e agli altri figli: “Qui
comando io!”, perché era anche questo il ruolo incontrastato e riverito del
patriarca di essere un patriarca. Ma mastro Ciccio rischia proprio di essere un
patriarca più immaginario che reale.
Il Prologo, infatti, si apre con una scena che riproduce la fine di un
pranzo di capodanno, modestissimo, consumato con i soli due sposi, marito e
moglie e nessun altro. Le quattro figlie sono emigrate tutte in America e
sposate lì, il figlio Stefano, anche lui sposato, da poco, abita a Marinè. La
casa è vuota e mastro Ciccio è rimasto solo con la moglie che l’accudisce
amorevolmente come sempre, con i suoi ricordi, le sue esperienze che
vorrebbe trasmettere ai nipoti, ma non può perché sono tutti lontano, parlano
un’altra lingua, non sa se lo capirebbero, né se vorrebbero saperne di lui.
La scoperta del nuovo rifugio nella
famiglia non è privo di qualche nota di malinconia. A leggere con attenzione il
breve incontro con il figlio subito dopo il suo arrivo a casa da Marinè, mentre
si rimette a letto, mi sembra quasi patetico nella voglia di metterne in
evidenza le rassomiglianze, ma anche le differenze sia a livello caratteriale,
che di idee politiche. Riporto il passo che apre uno spiraglio profondo – a mio
avviso – nella psicologia del personaggio e giustifica ancora di più la
scoperta di quale incommensurabile valore abbia per lui ora la famiglia: «Ma
non era cinico, Stefano. Lo provava la tempestività con cui era venuto a
rassicurare familiari, parenti e amici e quanti altri potessero stare in
pensiero per lui. Al pari d’ogni altro essere umano, mio figlio non era privo
d’emozioni; ma le controllava egregiamente, beato lui! Le sue idee politiche
erano diverse dalle mie. Se per me la condanna degli esecutori e dei mandanti
dello spaventoso eccidio di Marinè era netta e decisa, per lui andava
ridimensionata, tenuto conto anche del comportamento di certe non meglio
identificate “teste calde che avevano appiccato il fuoco ai caselli daziari”.
Non per questo potevo volergliene. Stefano restava pur sempre sangue del mio
sangue. Era dunque ragionevole sperare che qualcuno dei suoi figli ereditasse,
oltre ai geni, anche la mia stessa concezione del mondo e della vita» (p.15).
Si noti nelle ultime righe come
quello che gli sta a cuore non sia tanto l’eredità genetica dei figli dei suoi
figli, quanto piuttosto quel complesso di idee e di esperienze che ne hanno
fatto l’uomo e il nonno che è ora, il padre di un figlio, che pur non
condividendo in pieno le sue idee politiche, ne ha molta comprensione ed è
disposto persino a tollerarle senza tirarla troppo per le lunghe, reso edotto
dalle delusioni della vita. Finora ho considerato le delusioni in ambito
socio-politico, ma non vanno sottovalutate quelle che qua e là affiorano negli
scritti riguardanti le riflessioni di mastro Cicco sul senso stesso della vita
in generale, sul senso di vuoto che sente dentro di sé nel considerare come il
tempo, inesorabile giudice, inghiotte tutto e tutti come in un buco nero senza
fondo, piccoli e grandi, vili ed eroi. Penso alla descrizione che fa
dell’obelisco innalzato a Gibilrossa come trofeo per la vittoria contro i
Borboni, e che ora sembra ridersela da lassù degli incitamenti alla battaglia
da parte di Garibaldi e del La
Masa (p. 257); oppure ancor più della fine che fece mastro
Peppino il seggiaro, l’araldo del Risorgimento, quando morendo non solo se ne
andò nell’indifferenza generale, ma fu persino fatto oggetto di indignate
proteste per essere seppellito al Calvario nei pressi delle abitazioni, e viene
infine ricordato per «un’imprecazione che le comari tuttora dedicano a chi
parla troppo: “Dù lingui, comu mastru Pippinu ‘u sggiaru”» (p. 254).
Non sorprende allora che questo
atteggiamento familiare intimistico e tollerante si estrinsechi nelle molte
reticenze della prima parte della Lettera
al nipote, che non è uno dei figli di Stefano, sposato da poco, come già
detto, ma uno di quelli di Marasanta, l’ultima emigrata in America, della cui
partenza c’è traccia nel Memoriale (p.
247). In questa prima parte vi domina un senso di incertezza, di attesa
speranzosa, ma dubbiosa: “metto pure nel conto che tu possa scegliere di non
imparare mai la lingua italiana e persino che voglia recidere le tue reduci
culturali siciliane”; e continua con un richiamo ad un intuito di carattere
irrazionale: “Il senso mi dice, però, che sei tu la maglia fondamentale della
catena umana che, da me, s’è allungata capricciosamente fino a te”. Come si
vede vi domina un’atmosfera carica di sentimenti forti, in parte frustanti e in
parte ancora prorompenti, ma mai invadenti. L’autore del Memoriale, mastro Ciccio, sa tenere bene a freno la sua esigenza di
non prevaricare la volontà del nipote (“sempre che tu voglia conservare la Lettera
e il manoscritto”, continua a ripetergli, p.269), l’unico possibile lettore al
quale si sente più vicino caratterialmente, e a cui è disposto ad affidare le sue
confessioni.
Tre sono i parametri che hanno
determinato la scelta da parte del nonno di Ciccino come depositario delle sue
memorie: 1) il nome; 2) l’età; 3) la stagione della nascita. Ma poi vi è un
quarto elemento, non un ultimo per importanza, la decodificazione del Memoriale. Mentre infatti i primi tre
aspetti hanno a che fare con elementi estrinseci: a) cronologici (l’età); b)
denominativi (Ciccio - Ciccino); c) caratteriali (spirito prorompente come la
primavera), solo il quarto riguarda la destinazione stessa del manoscritto in
quanto documento storico, in cui è rifusa l’esperienza della sua vita, che se
non c’è qualcuno che lo prenda sul serio, lo legga e ne comprenda anche il
significato e il messaggio, rischia di perdersi nel nulla. Come ho detto,
mastro Ciccio sa di correre questo rischio, e tuttavia non se la sente di
forzare la mano con il nipote quasi costringendolo ad occuparsi di lui e delle
sue “fissazioni” (concorrendo con ciò a mettere in crisi il concetto stesso che
normalmente si aveva di patriarcato, come già detto); e ciò in “coerenza” con
se stesso, con la concezione del mondo e della vita che, appunto, aveva
detratto dalle sue molteplici esperienze, che sono quelle stesse che ora
vorrebbe trasmettere al nipote e desidera che fossero anche imitate. Sarebbe
stata infatti una violenza bella e buona pretendere da un nipote, per giunta
sconosciuto, di occuparsi di lui seriamente sia come storico “della vera storia
del Risorgimento siciliano”, che come maestro di vita e di saggezza.
Ciò che lo spinge in un certo modo
ad insistere sono piccoli dettagli che lui sovraccarica di significato, ma che
per il nipote possono non averne nessuno. Ma la speranza è l’ultima a morire e
il senso di appartenenza insito nel concetto stesso di patriarcato continua a
resistere, pur di fronte all’evidente sfaldamento della famiglia sparsa in
varie parti del mondo.
In definitiva mastro Ciccio,
sconfitto nella vita pubblica, cerca un riscatto in quella privata e da questa
nella memoria storica delle generazioni che verranno, e si augura che almeno
qualcuno, Ciccino, della sua “discendenza” abbia voglia di non interrompere, ma
anzi di riconsolidare la catena umana che “capricciosamente” si estende fino a
lui.
Questa speranza di mastro Ciccio,
seppure con una generazione di ritardo, sembra che si sia realizzata
pienamente, e forse anche al di là delle sue stesse aspettative, nel pronipote
Giuseppe Oddo, l’autore del romanzo, che merita un ringraziamento da parte dei
siciliani e in particolare di noi villafratesi e anche mio personale per i vari
ricordi e le citazioni del mio sopradetto bisnonno, Simone Pollaci, detto
“Mazzara”, come lui precisa.
CONCLUSIONE
Poiché ho scelto
la Lettera al
nipote come chiave di lettura del romanzo, per concludere vorrei fare ancora
due brevi annotazioni su di essa: 1) una riguarda la sua attuale collocazione
nel volume, cioè alla fine di questo, e 2) l’altra riguarda il rapporto tra il
linguaggio di mastro Ciccio, distinto in testo e metatesto, ossia la Lettera
come chiave di lettura della sua autobiografia, e il metalinguaggio, ossia il
romanzo storico, il cui autore è Giuseppe Oddo.
1) Adesso,
poiché – come dico – questo mio
intervento ha avuto per oggetto la
Lettera al nipote come chiave di lettura,
vorrei manifestare all’autore del romanzo, all’amico Pippo, una mia
perplessità. Si tratta di questo: se, come ho cercato di mostrare, il Prologo altro non sarebbe che un
“epilogo” spostato all’inizio del Memoriale
per giustificarne le motivazioni come testamento spirituale e di vita del
protagonista, e in questo senso assolve bene questa sua funzione d’apertura
alla scrittura di quello, mi chiedo se anche la Lettera,
che individua da parte del nonno il destinatario nel nipotino di appena cinque
anni (che non sa ancora leggere, né conoscere la lingua italiana e per cui egli
confida nella mamma che gli legga almeno questa) assolva anch’essa bene alla
sua funzione, che è quella di invogliare il piccolo a prendere sul serio tale
scritto quando sarà più grande, e che non lo faccia cadere nel nulla, posta
com’è alla fine dell’intera pubblicazione, persino dopo la Nota a margine di Edward B. Strapford, che
tratta di argomenti biografici del protagonista. Tale collocazione non rischia
di farne fraintendere il senso della funzione in quanto anticipatrice e stimolo
alla lettura?
Tale
dubbio ho l’impressione che mi venga confermato anche da come la intende
l’estensore della nota di presentazione apposta nel retrocopertina del volume,
ove la Lettera viene considerata come «un’appendice a
sorpresa che rimette in discussione il giudizio sul Risorgimento e la stessa
concezione del mondo e della vita di un irriducibile alfiere della libertà e
della giustizia sociale…». Ora se la
Lettera avesse –in
quanto “appendice”– questo senso di “rimettere in discussione il giudizio sul
Risorgimento” etc., questo vorrebbe dire forse che per capire tale senso
bisognerebbe aspettare la fine della lettura del Prologo e del Memoriale,
dalla quale –se non capisco male– la
Lettera trarrebbe quella conclusione. Ma se
così, mi chiedo dove sia la “sorpresa”, posto che Prologo e Memoriale – come ho cercato di mostrare –
anticipano largamente essi stessi ciò che dovrebbe anticipare la Lettera, con in più il pregio della chiarezza e
delle motivazioni esplicitate. In sostanza mi sembra che se la Lettera viene relegata fuori o comunque molto a
margine del testo, perda la sua funzione anticipatrice della rivelazione del
nonno e rimarrebbe soltanto l’arguta trovata retorica, contraddicendo la severa
attinenza del linguaggio al suo contesto, come dicevo all’inizio. Se, invece,
si sposta a prima del Memoriale e
dello stesso Prologo, come una specie
di introduzione informativa sia sul ruolo di “maglia” della catena familiare
del nipotino prima e del nipote adulto poi, sia sulla lezione che il
protagonista in qualità di nonno intende lasciare al nipotino, allora la
tensione retorica che carica di significati allusivi forti il messaggio
sapienzale di vita si compensano reciprocamente, e la forma adegua il suo
contenuto. Sapendo, infatti, in anticipo che molte isole, isolotti e continenti
in miniatura sono prima emersi e poi sprofondati, dopo d’essere stati occupati
da pirati, il nipotino, divenuto adulto e posto che ne abbia voglia e noi con
lui, nel leggere il Memoriale andiamo
identificando di volta in volta le varie isole dell’arcipelago e
contemporaneamente ci andiamo confermando nell’opinione che la lezione del
nonno e il suo invito a venire ad abitare nella sua isola non è qualcosa che ci
viene sia pure suggerito dal di fuori, ma che scopriamo insieme a lui, che ha
vissuto tutte quelle vicende in prima persona.
2) Qui
il problema è un altro, un po’ più complesso ed ha a che fare, da una parte,
con il rapporto tra il testo – costituito dal Prologo, dal Memoriale e
dalla maggior parte della stessa Lettera
al nipote – e il metatesto – costituito dalla parte iniziale della Lettera –, il cui autore è mastro
Ciccio, e, dall’altra, dal romanzo storico in quanto tale, il cui autore è
Giuseppe Oddo.
Il romanzo,
infatti, si apre con un Prologo che ci
butta – come si dice – “in medias res”: mastro Ciccio, il protagonista, fa la
sua tirata che giunge alla fine, quando finalmente può drizzare la schiena e
scrivere le sue memorie, e ancora in queste rimane il protagonista che occupa
quasi tutta la scena. Non c’è traccia dell’autore del romanzo, di Giuseppe
Oddo; naturalmente si intravede, ma di esplicito non c’è nulla, tanto che
l’opera potrebbe restare persino anonima, senza che si senta l’esigenza di
sapere chi l’ha scritta, anzi sembra proprio che l’abbia scritta “veramente”
mastro Ciccio il sellaio, tanto è verosimile! L’unico punto in cui mi pare che
si intraveda, per lo meno, in modo più evidente il vero autore, Giuseppe Oddo,
mi sembra proprio l’inizio della Lettera,
quando, a proposito dei “tre quaderni nei quali sono annotate alcune mie
memorie”, mastro Ciccio dice ancora: “forse utili alla ricostruzione della vera
storia del Risorgimento siciliano, di cui non c’è traccia nei libri destinati
agli scolari” (p.268). Qui si capisce quale è il vero motivo per il quale è
stato scritto quel Memoriale, che non è, certo, quello immediato di mostrare “di che pasta” era fatto
mastro Ciccio, – come leggiamo verso la fine del Prologo, (p.17) –, ma, tramite questo, quello di offrire un
riscatto dall’oblio della grande Storia alle piccole storie di tanti eroici e
generosi protagonisti, come Francesco Bentivegna, il quale tanto piccolo non
era, ma poi anche di tanti altri come appunto mastro Ciccio il sellaio. Si
capisce, cioè, che il vero motivo per cui è stato scritto il romanzo non è
soltanto il desiderio del pronipote di enfatizzare le gesta dell’eroico
bisnonno, ma soprattutto quello di tentare di rendere giustizia
dell’ingiustizia della Storia (scritta da certi storigrafi) che procede per
grandi linee, e però si lascia spesso sfuggire i veri protagonisti dei grandi
rivolgimenti sociali, che sono, appunto, personaggi minori, ma determinanti, e
che rischiano di rimanere oscuri ed emarginati.
Questa sporgenza del vero autore del
romanzo, di Giuseppe Oddo, dalle suddette righe come metatesto della Lettera rimane, tuttavia, ancora
all’interno del testo, in cui si esplicita la narrazione autobiografica di
mastro Ciccio e in cui questi, dopo avere svolto la storia delle sue gesta e di
quelle degli altri cospiratori, si erge a giudice di questa stessa storia, come
fosse lo storiografo di se stesso e persino il Ministro della pubblica
istituzione, che valuta i programmi di storia dei ragazzi, e trovatili
insufficienti relativamente ai fatti che lo riguardano, tenta di provvedere a
tale mancanza scrivendo lui stesso “la vera storia”. Qui, però, nella Lettera, storia e metastoria restano
entrambe al livello del testo, cioè del linguaggio narrativo di mastro Ciccio,
il quale altro non è che il portavoce di una narrazione propriamente non sua,
ma di un altro, del suo pronipote, il quale riscrive la vera storia del
bisnonno, con tutta la sua esigenza storiografica da una dimensione letteraria,
metalinguistica, quale è quella del romanzo storico, che fonde insieme gli
aspetti storici realmente accaduti a mastro Ciccio e agli altri cospiratori, e,
dunque, “veri”, con aspetti fantastici e romanzati, che nel migliore dei casi
restano al livello del plausibile e del verosimile. Quali siano i fatti veri e
quelli verosimili o inventati del tutto non sono in grado di distinguerli
sempre con sicurezza, quello che mi sento di dire è che ci sono tanti
avvenimenti narrati e tante riflessioni di mastro Ciccio che lasciano
intravedere chiaramente la mano esperta dello storico bene aduso a tenere sotto
controllo il giudizio sui fatti e forse ancor più ad evidenziarli con onestà
intellettuale, senza preconcetti. Mi pare che non ci siano tesi da sostenere a
tutti i costi (vd., ad es., pp. 149-151, 252 e 262); anzi, talvolta, l’autore
mi sembra persino troppo severo – se così posso dire – nel descrivere la realtà
di certi fatti, come, ad es., gli eccessi da parte di alcuni rivoluzionari
fatti a Ciminna (p. 162), oppure gli alterchi tra il Bentivegna e alcuni suoi
affiliati che ne mettono in forte dubbio l’autorevolezza al punto che questi
finì per sciogliere la banda (p. 166); per non parlare dell’autoaccusa di
vigliaccheria da parte di mastro Ciccio per avere preferito salvarsi “la
pellaccia” – come lui dice – consegnandosi agli sbirri, piuttosto che morire,
come fece Francesco Bentivegna.
Ma qui siamo – come ho detto –
ancora nell’ambito dell’autobiografia di mastro Ciccio, mentre ciò che volevo
sottolineare nella Lettera, come
chiave di lettura, era l’emergere del ruolo di storiografo di se stesso da
parte di mastro Ciccio, il quale però, a sua volta, trascrive una storia – la
sua, la “vera” – che è quella che il pronipote – divenuto adulto e intenzionato
a seguire l’invito della sua Lettera – gli
suggerisce, da una dimensione “non vera”, ma “verosimile”, fantastico-romanzata
e quasi poetica. In questo senso parlavo all’inizio di coerenza del linguaggio
alla varietà dei casi narrati e di Giuseppe Oddo come di un “cantore” ispirato
delle gesta, eroiche e non eroiche, degli umili, dei personaggi minori e dei
dimenticati.
Prof. Giuseppe Mazzara
docente in pensione di Storia della Filosofia Antica
docente in pensione di Storia della Filosofia Antica
LIBRERIE DOV'E' IN DISTRIBUZIONE IL LIBRO:
Palermo:
Libreria Voglia di leggere - via Pacinotti 42
Libreria Nike - via Marchese Ugo, 76
Libreria Flaccovio - via Ruggero Settimo 37
Libreria Campolo - via Campolo 86
Catania:
Libreria Cavallotto - viale Ionio, 32
Messina:
Libreria Mavi - via Consolare Pompea, 429
Prospettiva editrice & c. Sas di Giannasi Andrea
ISBN Editore 88-7418
Via Terme di Traiano, 25
00053 Civitavecchia - Roma
Nessun commento:
Posta un commento