Padre Pino Puglisi mentre celebra la messa |
di Lirio Abbate
Sì ma verso dove? Don
Pino Puglisi ripeteva spesso questa domanda, obbligando così i ragazzi
siciliani a riflettere sul loro futuro, a chiedersi dove li avrebbe portati la
strada indicata dalla mafia. Da questo interrogativo nasceva la speranza, con
una prospettiva laica di impegno nella legalità e una visione religiosa
profonda. "Sì, ma verso dove?" è diventato il motto della sua
missione. E adesso ha trovato una risposta chiara: il sacrificio di don Puglisi
ha spinto il Vaticano ad aprire gli occhi su quello che realmente è
l'organizzazione criminale Cosa nostra, la mafia. Uomini cosiddetti d'onore,
che fanno la comunione, che vanno in chiesa a battersi il petto e portano la
statua del patrono in processione, ma nonostante ciò agiscono «in odio alla
fede», contro Dio e i suoi ministri. Forse è questo il miracolo che si potrebbe
attribuire al sacerdote, assassinato a Palermo il 15 settembre 1993. Benedetto
XVI ne ha deciso la beatificazione, riconoscendone il martirio e stabilendo che
Cosa nostra lo ha ucciso, appunto, «in odio alla fede». Ora per proclamarlo
santo la Chiesa richiede solo la prova di un evento soprannaturale.
Per la Sicilia il
decreto di papa Ratzinger è comunque una svolta, arrivata dopo un secolo e
mezzo di posizioni spesso ambigue. Anche la causa di beatificazione ha avuto un
percorso lungo, con un susseguirsi di richieste e supplementi di indagine. È
stata aperta nel 1999, con una questione fondamentale: don Pino è stato colpito
dai killer per il suo apostolato o come rappresaglia per gli interventi assunti
dalla Chiesa in quella stagione? La svolta del Vaticano sulla mafia arriva
adesso, a 19 anni dall'omicidio ordinato dai boss palermitani del parroco di
Brancaccio, il prete di cui gli stessi uomini di Cosa nostra avevano paura per
ciò che di buono faceva sul territorio.
Cinque mesi prima del
delitto, Giovanni Paolo II aveva pronunciato uno storico discorso ad Agrigento:
«Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è via, verità,
vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di
Dio!».
La reazione dei
corleonesi fu violentissima, concretizzata nelle bombe fatte esplodere contro
due chiese romane nell'estate 1993: un ordigno fu piazzato in San Giovanni in
Laterano, dove viveva il presidente dei vescovi italiani. Oggi, come spiegano
fonti autorevoli vaticane, «non può essere messa accanto la morte di don
Puglisi e la sua beatificazione con l'anatema lanciato da papa Giovanni Paolo
II contro la mafia nel maggio del 1993 nella valle dei Templi».
I killer hanno
ammazzato il sacerdote per quello che aveva fatto e avrebbe continuato a fare.
Un comportamento di pace che non piaceva ai boss Filippo e Giuseppe Graviano,
fedelissimi di Totò Riina e registi della campagna di attentati del 1993:
personaggi che ancora oggi dominano con i loro silenzi e i loro messaggi le
inchieste sulla trattativa tra Stato e mafia. Confermano dalla curia siciliana:
«La chiesa di Palermo ha dovuto far comprendere a Roma che l'uccisione di don
Puglisi non era stato un atto sconsiderato di persone senza scrupoli, ma era
stato un'azione per sopprimere un uomo che facendo il prete metteva a rischio
la prosecuzione di disegni mafiosi».
Don Pino conosceva
bene la pericolosità delle cosche. Il suo primo incarico di parroco nel 1970
era stato a Godrano, un paesino dilaniato dalla faida tra due famiglie: per
otto anni ha fatto della chiesa il luogo della riconciliazione. Ma il suo
impegno era rivolto soprattutto ai giovani: lunghi anni da cappellano in
orfanatrofio, l'insegnamento di matematica e religione nelle scuole. Nel 1990
torna a Brancaccio, il quartiere dove era nato. E dove tutto era nelle mani dei
Graviano. La sua rivoluzione nel quartiere comincia con un pallone: togliere i
ragazzini dalla strada e portarli a giocare nel campetto dell'oratorio. Gli
parla, li aiuta, gli presenta un'alternativa alla cultura della mafia: semplice
e rivoluzionario. Sfida apertamente i boss, nelle omelie dall'altare o anche in
quelle celebrate sul sagrato della chiesa: fa arrivare la sua voce nelle strade
del quartiere. E implora un destino diverso per i loro figli: «Parliamone,
spieghiamoci, vorrei conoscervi e sapere i motivi che vi spingono a ostacolare chi
tenta di aiutare ed educare i vostri bambini alla legalità, al rispetto
reciproco, ai valori della cultura e dello studio».
Per i Graviano, che
in quel momento sono al vertice di Cosa nostra, è una sfida inaccettabile. Dopo
le stragi di Capaci e via D'Amelio (di quest'ultimo attentato i Graviano sono
stati esecutori), la città è passata dallo choc alla reazione, c'è un movimento
popolare antimafia che anima la primavera. E lì, a Brancaccio, nel cuore del
loro sistema di potere, i boss sentono che viene messa in pericolo la base del
loro potere: il consenso popolare, l'ammirazione dei giovani che fornisce nuove
leve alla loro macchina di morte. Cercano di intimorire il sacerdote, con
minacce e avvertimenti. Poi decidono di ucciderlo il 15 settembre 1993, nel
giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno.
Con la beatificazione
di don Pino oggi la Chiesa è in condizione di poter affermare che
«all'evoluzione di pensiero del magistero è corrisposto anche un esercizio del
ministero stesso», in particolare in certe figure che «sconfiggono e fanno
tramontare definitivamente sia il carattere istintivamente religioso della
mafia - che non esiste - sia un perdurante atteggiamento di tolleranza o
ambiguità di ambienti ecclesiastici nei confronti della mafia».
La beatificazione di
padre Puglisi «non ha carattere politico», perché gli viene riconosciuta
«l'altezza di una vocazione e di una scelta che egli ha fatto tipicamente
ecclesiale e sacerdotale», e aver progettato ed eseguito il piano di morte «è
stato un disegno contro la fede, perché don Pino agiva nel solco di una precisa
tradizione cattolica ecclesiale».
Nel processo canonico
sono stati valorizzati tutti gli elementi, in particolare le dichiarazioni dei
due assassini che fecero fuoco sul parroco. Salvatore Grigoli e Gaspare
Spatuzza oggi collaborano con la giustizia. Lo sguardo e il sorriso di don Pino
sono rimasti impressi nella mente dei due mafiosi che hanno deciso di pentirsi
e chiedere perdono per ciò che hanno fatto. E anche questo potrebbe essere
definito un miracolo. E dalle dichiarazioni di Grigoli e Spatuzza affiora che
«c'era una matrice anti ecclesiale, anti evangelica nel comportamento di chi ha
voluto uccidere don Puglisi».
Il passo in avanti
voluto da papa Benedetto XVI può dunque essere definito come un fatto storico,
un punto di non ritorno. La sanzione dell'autorità suprema della Chiesa
sancisce lo scollamento totale tra Vangelo e mafia. «Non c'è nessuna
possibilità di conciliazione» fra le due realtà. Chi è stato ucciso «perché
faceva il prete è un martire, non è uno che ha subito un incidente di percorso
ed è stato liquidato tanto per semplificare le cose». Questo è un evento senza
precedenti: la beatificazione di un prete che è il primo martire di mafia.
Il nuovo percorso che
vuole tracciare la Chiesa inizia a registrare segnali positivi nei territori in
cui i boss sono ancora presenti. Significativa è la decisione adottata nei mesi
scorsi dall'arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, che ha vietato la
celebrazione dei funerali religiosi per un boss mafioso. Notevole l'azione sul
territorio fatta dal vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, contro il
latitante numero uno Matteo Messina Denaro. Come pure importante è il messaggio
lanciato dal vescovo di Locri, Giuseppe Fiorini Morosini contro gli uomini
della 'ndrangheta che tentano di infiltrarsi nelle cerimonie religiose. E
l'arcivescovo di Sorrento - Castellammare, Felice Cece, che ha annunciato di
voler recidere nettamente ogni legame ambiguo tra la camorra e le celebrazioni
religiose in quel territorio.
Ci sono però casi in
cui la Chiesa mostra ancora delle remore e omette la denuncia pubblica. Al
funerale di Stato per il sindacalista Placido Rizzotto celebrato - alla
presenza di Giorgio Napolitano - il 24 maggio scorso a Corleone, a 64 anni
dalla sua morte, l'arcivescovo di Monreale, Salvatore Di Cristina, nella sua
omelia non ha citato la parola mafia. Come se si volesse ignorare la causa che
ne determinò la morte. Ignorata Cosa nostra, l'arcivescovo ha pure storpiato il
nome del sindacalista in Rizzuto.
Ci vorrà tempo. Per
far comprendere al Vaticano che l'opera dei mafiosi era contro Dio e contro i
suoi ministri purtroppo si è dovuto attendere oltre un secolo e mezzo, da
quando di fatto la mafia ha assunto la sua organizzazione di controllo
dell'isola. Adesso la scelta di papa Raztinger spazza via ogni ambiguità. Per
il futuro, però, bisognerà dare risposta alla domanda simbolo di padre Puglisi:
«Sì, ma verso dove?».
Antimafia 2000.com
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