di NINO MANDALA'
Ho sperimentato sulla
mia pelle cosa significa sollevare il problema relativo al regime del 41 bis
per essere stato investito, quando ho affrontato l’argomento, da invettive,
insulti e inviti a finire i miei giorni in un gulag. So poi che, assieme ai
soliti ignoti a caccia di buglioli in cui vomitare il loro odio, debbo mettere
nel conto anche il rischio di essere frainteso dai soliti aruspici che
amano leggere chissà quali dietrologie in articoli innocenti, e le sacrosante
proteste di quanti portano impresse sulla loro pelle i segni delle ferite
riportate sul fronte della lotta alla mafia. Ma sono testardo e torno
sull’argomento che, seppure impopolare, ha il fascino della lotta impari e
della pietà sentita come imperativo morale.
Ad essi dico che il
loro desiderio di giustizia è sacrosanto ma che questo desiderio non può
confondersi con la voglia di sangue di cui si nutrono gli squallidi personaggi
che usano i drammi altrui per liberare la loro anima malvagia, che essi sono
l’umore dal quale sono germogliati gli spiriti di uomini che hanno sacrificato
la loro vita, che il loro dolore è troppo nobile per sporcarsi col rancore e la
vendetta. I loro destini servono a riscattare altri destini e ad essi chiedo di
unirsi ai familiari dei carnefici dei loro cari per un atto di giustizia.
Quando parlo di giustizia non intendo indulgenza nei confronti delle colpe e delle
pene. A ciascuno il suo, ai colpevoli l’espiazione della pena, ai giusti la
pretesa del rispetto dei fondamentali diritti umani. Il rigore dell’espiazione
non deve essere frainteso e confuso con la tortura, l’espiazione deve procedere
senza sconti ma avendo riguardo per la dignità del colpevole e dei suoi
familiari. Quando in un mio post proposi la lettera di un detenuto in regime di
41 bis che descriveva le condizioni strazianti in cui si svolgeva il colloquio
tra se e suo figlio di pochi anni, ho dovuto registrare il sarcastico commento
di un anonimo che si compiaceva della crudeltà del colloquio descritto e si
augurava sofferenze ancora maggiori. Ecco cosa intendo per giustizia di contro
al giustizialismo, non certo il perdono da parte dello Stato che non può
abdicare al suo rigore, ma neanche la vendetta e l’accanimento nei confronti
del reo al cui fianco mi piace immaginare la pietà della vittima che ben
conosce la sofferenza e ne avverte l’insensatezza.
Ad altri mi rivolgo
con diverse motivazioni e, fra esse, non certo la pietà. Alle coscienze libere
che hanno a cuore l’equità del diritto mi rivolgo per ricordare loro che hanno
dormito a lungo, che tra diritto e sicurezza urge una scelta e che l’opzione
della sicurezza finora prevalsa non fa onore alla tradizione dei lumi e delle
garanzie liberali. La pena non può essere utilizzata come risposta eccezionale
ad una condizione d’emergenza e lo Stato di diritto deve sapere tenere i nervi
saldi non dimenticando che la contrapposizione fra sicurezza e diritto va
gestita con misura ed equilibrio. Vi è chi si richiami alla lezione Dei
Beccaria, dei Montesquieu, dei Locke, e sappia gridare che la pena non è
afflizione e che non è ammissibile che esseri umani fatti della stessa carne di
noi tutti subiscano l’inferno di una condizione intollerabile quale è quella
del 41 bis reiterato ininterrottamente per decenni, senza alcuna considerazione
per le mutate circostanze e per le nuove sensibilità nel frattempo maturate
nell’animo dei detenuti, in cui la vita fisica e quella psichica vengono giorno
dopo giorno spente con un crudele stillicidio di vessazioni che coinvolgono i
reclusi e i loro familiari?
Dal mio non
invidiabile osservatorio percepisco che mio figlio non è più quello di sette
anni fa e constato lo smarrimento di mio nipote costretto a sottoporsi al
martirio del colloquio mensile col padre, il vuoto del suo sguardo, la mia
inadeguatezza a dare risposte alle sue domande mute e il mio terrore per le
derive che possono nascere nel suo animo provato.
Uomini come il Capo
dello Stato, campioni del pensiero liberale che hanno a cuore la tutela
dell’individuo come Ostellino, luminari della scienza che hanno sostenuto la
capacità dell’uomo di cambiare e di avere diritto ad una seconda opportunità
come Veronesi, combattivi difensori dei diritti umani come Pannella, Della
Vedova e Manconi, portatori di una concezione giuridica rigorosamente
garantista come Pisapia e Ferrajoli, giornalisti intellettualmente onesti come
Panza, Polito, Battista e carismatici come Scalfari, non hanno alibi se
continuano a latitare in una contesa che riguarda la civiltà del diritto ancor
prima della sopravvivenza di vite umane. Ad essi ricordo che l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 39/46 del 1987 ha approvato una
Convenzione contro la tortura e ha obbligato gli stati contraenti ad adottare
una serie di provvedimenti in sintonia con la convenzione approvata. La
legislazione italiana non si è ancora adeguata a quest’obbligo e, se si fa
riferimento all’art. 27 della Costituzione sulla umanizzazione della pena, non
c’è dubbio che il 41 bis è un regime di tortura e che la sua applicazione è un
vulnus del nostro sistema giudiziario. D’altronde siamo destinatari di
parecchie censure in merito da parte della Comunità europea. La giustizia in
uno stato liberale altro non è che una valutazione morale esercitata in un
ordinamento legale, grazie alla quale lo Stato può giustificare il ricorso alla
violenza, attraverso la condanna e la carcerazione, in risposta alla violenza
del cittadino. Ma lo Stato che affida ad una valutazione morale la ragione
della sua violenza, non può prescindere da un analogo imperativo morale che
imponga il rispetto della condizione umana alla quale è costretto a fare
violenza.
E’ questo un appello
alle coscienze libere, agli Ostellino, ai Veronesi, ai Pannella, Della Vedova,
Manconi, Pisapia. Ferrajoli, Panza, Polito, Battista, Scalfari e ad altri
uomini di buona volontà perché si rivolgano alla associazione Liberarsi a
Grassina (Fi) ( assliberarsi@tiscali.it ) che da tempo si batte in difesa dei
diritti dei detenuti e assieme ad essa si intestino una battaglia per
l’abolizione del 41 bis, una battaglia che so difficile perché combattuta
contro avversari che godono di seguito, di potere di veto e coagulano umori
giacobini coltivati a lungo e capillarmente diffusi in una opinione pubblica
spaventata e incitata al linciaggio, ma che ha il fascino delle lotte degne
perché riguarda l’uomo della cui centralità cominciò a parlare un certo Socrate
attirandosi l’accusa di empietà, perché riguarda la sua dignità che è quella di
tutti noi.
Avevo previsto di
rivolgere questo appello al cardinale Martini, così vicino alle sofferenze dei
carcerati, ma sono arrivato tardi. Sono comunque certo che da lassù ci darà una
mano.
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