Giovanni Falcone e Paolo Borsellino |
Un viaggio
lungo. Lacerante. Prima l’Istria e Rijeka, poi Zagabria e infine uno stop a
Lubiana. Un’orgia di nuove bandiere e canti nazionalisti, i sacchi di sabbia
sotto le vetrate di market e negozi, le schegge dei mortai lasciate impresse
sui muri. A futura memoria. Una libertà già pagata a caro prezzo, famiglie
divise, spezzate e l’angoscia di una guerra che da lì a qualche mese avrebbe
devastato la Bosnia con Mostar e Sarajevo. Rientravo a Trieste con la
consapevolezza di un’innocenza ormai perduta. Sì, c’era stato lo shock della
guerra in Iraq qualche mese prima, ma Baghdad e Bassora erano comunque lontane.
La Jugoslavia, anzi la ex Jugoslavia, era invece aldilà dell’Adriatico e
l’estate prima ci avevo trascorso ancora una splendida vacanza. Sentivo che ci
sarei tornato, forse presto, ma che non ne avrei più assaporato le acque dolci
e salate. Sul binario, ad attendermi, c’era Gianfranco. Per essere luglio
inoltrato, i colori del cielo mi sembravano troppo accesi e nitidi. Anche il
suo volto era strano, tirato. Teneva più di un giornale sotto il braccio. “Ciao
Antonio, andato bene il viaggio?”
Iniziai a raccontare disordinatamente per
liberarmi dall’oppressione delle morti che mi avevano accompagnato instancabili
nella neonata Croazia. Avevo l’impressione che Gianfranco non mi ascoltasse, o
che lo facesse con noia. Eppure era stato lui che mi aveva proposto la missione
suggerendomi contatti e indirizzi. Gli parlai di Alina, giovane pacifista
“jugoslava” in una Zagabria a tinte scure, dove migliaia di altri suoi coetanei
facevano a gara per indossare i simboli dei deliri ustascia. E del fratello in
carcere a Milano, corriere di droga per conto di chissà chi e per cosa, vicenda
sin troppo ambigua, contraddittoria. Alina era stata reticente. Pareva a tratti
che volesse confidarmi ben altre verità, i suoi dubbi, i suoi timori. Ma le
uscirono solo mezze frasi. E allusioni. Dissi a Gianfranco di sospettare che il
ragazzo potesse essere l’ingenua pedina di un giro internazionale di
neofascisti e spacciatori. No, non mi sembrava proprio che gli interessasse.
Poi si fermò. Fu diretto, brutale. “Senti Antonio, c’è stata ieri una tragedia.
In Sicilia. La mafia… Hanno ammazzato Borsellino e la sua scorta…”.
Immagini in
bianco e nero, l’immenso cratere sull’autostrada, nuvole di fumo, polvere e
catrame, sirene, lampeggianti, auto in corsa, occhi sbarrati. Disgusto, orrore,
rabbia, impotenza. Gli sputi e le monetine sui fantasmi della prima repubblica,
pallidi nelle loro uniformi da funerale d’ordinanza. Neanche due mesi e tutto
mi sembrava già sfuocato, lontano. Molto più vivo il corteo tra i vicoli di
Taranto vecchia, in marcia contro l’ennesimo progetto di militarizzazione del
Sud, l’ampliamento del porto per garantire l’attracco a portaerei e sottomarini
a capacità nucleare. Il primo conflitto del Golfo ci aveva estenuati,
sconfitti. E così a Taranto ci ritrovammo in pochi. Ma comunque contenti di
esserci. Insieme. Ancora e nonostante tutto. Siamo fuori dalle antiche mura,
nella piazza che ospita il palco per il comizio finale. Ma l’evento tarda ad
iniziare. Un silenzio sospetto, irreale. Poi i sussurri e dopo ancora un tira e
molla di notizie frammentate e contorte. A Palermo. No a Punta Raisi. Il
giudice Falcone. Forse c’è anche la moglie. Un boato. Vicino all’aeroporto.
Pare siano ancora vivi. No, solo la moglie. Sono morti anche l’autista e i
poliziotti. Un attentato? Sì un attentato. Il corteo si sfilaccia. Si
arrotolano gli striscioni contro la Nato e i signori delle guerre. “Sì,
compagni, la radio ha appena confermato che il giudice Falcone e la sua scorta
sono stati assassinati”. Di corsa in un bar a vedere la tv. La Sicilia come
Baghdad, Beirut, Mogadiscio. In Iraq e in Libano c’eravamo già stati. Per la
Somalia saremmo partiti a giorni. Sulla scia di avventurieri, gladiatori e
piazzisti d’armi. Guerra costante, guerra permanente. Guerra preventiva.
L’esercito ad ogni angolo di strada, ma le strade non saranno quelle delle
vecchie e nuove colonie d’oltremare. I Vespri
Siciliani, invenzione di un neoministro e due sottosegretari siciliani alla
difesa, l’occupazione del territorio per far finta di fare la guerra alla
mafia. Un carosello d’impotenza e d’arroganza. Inutile, diseducativo e costoso.
Siciliani i generali e i comandanti, siciliani i capi dei servizi ancora più
deviati. A impugnare a destra mitra e fucili e a sinistra il ramoscello
d’ulivo. Per trattare la resa dello Stato davanti ai feroci boss di Cosa nostra
e Cosa loro.
Guerre e
mafia. Mafia e guerre. E la scoperta, progressiva, inarrestabile, che il non
luogo in cui sono nato e cresciuto, la città del mito-ponte sullo Stretto, era
da più di vent’anni crocevia di poteri occulti, fucina e laboratorio di strategie e politiche
liberticide e neoliberiste. Ex ordinovisti addestrati ad armeggiare esplosivi e
detonatori; trafficanti di uranio, missili, elicotteri e carri armati;
frammassoni commercialisti e finanzieri; politici gelliani di comprovata fede
nordatlantica; cupole militari e dell’Arma dei Carabinieri. I rappresentanti di
vertice d’una borghesia senza scrupoli e mafiosa. Spietati sacerdoti e custodi
del contropotere. Vent’anni a disseminare bombe e morti nelle città d’Italia,
annientando intellettuali, giornalisti, sognatori, gli utopisti di una
democrazia che fosse finalmente sostanziale. Impedendo con i bagni di sangue
che la fantasia e l’uguaglianza conquistassero il potere. Nella vicina
Barcellona Pozzo di Gotto, i vampiri assetati d’affari a preparare il
telecomando e il tritolo per il martirio di Capaci. A festeggiare poi con bottiglie
di champagne l’immane bang e mediare i papelli per la trattativa con i futuri
partner politici ed economici. Insinuandosi nel cuore del complesso militare
industriale, italiano e straniero, perché i proventi di droga fossero
reinvestiti in armi e i proventi delle armi in droga. Moltiplicando
all’infinito fatturati, conflitti e vittime. L’Italia non sarebbe più rimasta
la stessa. Le stragi di Palermo, Roma, Firenze e Milano hanno spianato la
strada all’individualismo e all’egoismo, isolando e atomizzando donne e uomini,
cancellando lo stato sociale e le socialità. Sono stati violati i diritti
soggettivi e negate le libertà. E abbiamo per sempre ripudiato la pace. Dopo la
Somalia ci siamo lanciati a bombardare i Balcani, poi abbiamo rioccupato
l’Albania e il Kosovo, infine in volo ad incendiare irrimediabilmente
Afghanistan, Iraq, Pakistan, Libia. La seconda repubblica sorta sulle ceneri di
Tangentopoli e via d’Amelio è stata consacrata agli amplessi mortali e ai bunga
bunga dei mandanti a viso coperto dell’uragano stragista. Vent’anni serviti ad
accrescere squilibri e differenze, dilapidare risorse pubbliche e naturali,
privatizzare l’acqua e l’istruzione, sprecare energia, consumare territori. Per
riscoprirsi assai più poveri di padri e nonni, orfani di giustizia e legalità.
La memoria di quei giorni però non è andata perduta. Resta la stessa
indignazione di allora e la tenue speranza che un altro paese sia ancora
possibile.
Pubblicato in Vent’anni (a cura di Daniela Gambino ed
Ettore Zanca), Coppola editore, Trapani, 2012.
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