DARIO BARÀ
Il cronista di Repubblica racconta come ha vissuto le minacce anonime dopo l’intervista al pentito Di Carlo. Dice perché le ha rese note, parla del clima che respirano i giornalisti che si occupano di mafia. Cosa è cambiato dai tempi del maxi-processo. Perché è inevitabile schierarsi. Chi rischia di più. Il ruolo sociale del giornalista
Il cronista di Repubblica racconta come ha vissuto le minacce anonime dopo l’intervista al pentito Di Carlo. Dice perché le ha rese note, parla del clima che respirano i giornalisti che si occupano di mafia. Cosa è cambiato dai tempi del maxi-processo. Perché è inevitabile schierarsi. Chi rischia di più. Il ruolo sociale del giornalista
OSSIGENO – Palermo, 5 luglio 2012 – “Questa vicenda conferma ciò che ho
sempre sostenuto: che un giornalista rischia quando dà l’impressione di tenere
nella penna qualcosa che sa”, dice ad Ossigeno Enrico
Bellavia, il cronista della redazione palermitana di Repubblica che
il 29 giugno scorso ha ricevuto una lettera intimidatoriascritta,
con insolita proprietà linguistica da un anonimo. Diceva testualmente:
“La smetta di occuparsi di queste cose, lei con il suo amico Di Carlo, perché
queste cose del passato fanno male”. Evidente il riferimento all’intervista al collaboratore di
giustizia, ex boss di Altofonte, Francesco Di Carlo, pubblicata
sulle pagine di Repubblica Palermolunedì 25 giugno a firma di
Bellavia.
Enrico Bellavia è in un certo senso un
esperto della materia. Nel 2010 ha pubblicato Un uomo d’onore,
un libro-intervista allo stesso Di Carlo nel quale il “pentito” parla
abbondantemente della cosiddetta trattativa Stato-mafia e delle stragi del
1992, dei rapporti dei boss con i poteri occulti e con i colletti bianchi.
“Quando la vicenda della trattativa è tornata di attualità ho avuto l’idea di
intervistare Di Carlo per il giornale sul tema specifico facendogli commentare
la piega che stavano prendendo le indagini. Le cose che aveva già detto nel
libro erano note, ma ho pensato che isolate ed esposte in una intervista
avrebbero avuto un’efficacia diversa. Dunque ho fatto l’intervista, e ho avuto
subito la sensazione che fosse forte. Inevitabilmente - spiega
Enrico - nell’intervista c’è anche un tuo ruolo di intervistatore che consiste
nel sollecitare risposte e precisazioni. Ad un collaboratore di giustizia che
tira fuori delle cose limitandosi ad accennarle, senza svilupparle, cose
che magari ad un magistrato direbbe in modo più completo, il giornalista deve
dire: ”lei non sta dicendo tutto quello che sa”. E forse questo ha preoccupato
qualcuno. Se invece dell’intervista avessi fatto un articolo sulla trattativa,
anche se avessi detto tutte quelle cose, probabilmente non sarebbe arrivata una
lettera di minacce”.
Erano le tre del pomeriggio quando l’addetto alla
segreteria lasciò la corrispondenza del giorno al giornalista seduto alla sua
scrivania. ”Prima ancora di aprire la lettera, vedendo come erano scritti
il nome e l’indirizzo sulla busta, pensai: ‘queste sono sicuramente minacce’ e
purtroppo erano proprio minacce”, racconta il cronista. “Lì per lì l’istinto fu
quella di strappare la lettera, di distruggerla. Mi trattenni e
considerai che la partita era delicata e non coinvolgeva solo me. Capii che
avevo la responsabilità di fare sapere a Di Carlo che era arrivata quella
minaccia, e potevo farlo solo per via indiretta, perché i nostri rapporti sono
indiretti. Era chiaramente una intimidazione più che una minaccia sostanziale,
perché non dice ‘ti uccido’ o ‘ti faccio quest’altra cosa’. Dice ’queste
cose del passato fanno male’. Evidentemente vuole dire altro, perché a me il
passato non fa male”.
Subito dopo il giornalista chiamò il 113 e raccontò
l’accaduto. Dopo la telefonata due poliziotti andarono da lui, in redazione, a ritirare
la lettera e chiesero al giornalista di andare in commissariato a sporgere
denuncia al commissariato. “Non andai perché subito dopo mi chiamò la squadra
mobile e mi chiese di fare la denuncia a loro e io feci così”, spiega Bellavia.
Tornato in redazione, Bellavia
trovò i suoi colleghi che si ponevano il
problema se scrivere o meno qualcosa sul giornale. “Quello di rendere
note le intimidazioni è sempre un problema molto delicato. Per un giornalista è
oltremodo fastidioso vedere che la notorietà del suo nome è legata al
fatto che ha subito un atto intimidatorio. So che è un’utopia, ma io vorrei
essere conosciuto e giudicato per ciò che faccio, e non per la quantità di
gente che faccio incazzare”.
Capisco. Ossigeno ha raccontato
molte vicende come la tua. Purtroppo sono tantissime. Quando succedono non si
può fare a meno della visibilità. Dare visibilità al caso e al giornalista,
rilanciare ciò che ha scritto, ciò che a qualcuno ha dato fastidio aiuta a
rompere l’isolamento. Significa non lasciarlo da solo. Queste cose sono ancora
più importanti in Sicilia, dove si è registrato il più alto numero di
giornalisti uccisi per mano mafiosa. Non pensi? E secondo te, chi può avere
interesse a minacciare un giornalista?
“Mi rendo conto benissimo dell’importanza della
visibilità per i minacciati. Quando arrivarono le prime minacce a Lirio Abbate
io ero segretario provinciale dell’Assostampa Sicilia e insieme agli altri
colleghi mi impegnai per organizzare immediatamente una scorta civica. Ci
riuscimmo, superando tutte le difficoltà che sorgono sempre in questi casi: la
gelosia dei colleghi, le piccole invidie, le bassezze… In generale ritengo che
sia giusto non tacere e rendere nota ogni cosa. La mia vicenda rafforza la mia
convinzione che un giornalista rischia di più quando dà l’impressione di
trattenersi dal dire qualcosa. La seconda riflessione che ho fatto è questa: la
mafia ‘militare’, quella che spara, è raro che minacci. Tant’è che nelle
biografie dei giornalisti uccisi dalla mafia non si trovano quasi mai minacce
preventive. E poi, chi ha interesse a minacciare un giornalista? Di solito chi
ha fatto affari con la mafia, e teme un disonore sociale prima ancora che
giudiziario da certi accostamenti o rivelazioni. Nel mio caso non penso sia la
mafia a minacciare. Penso che l’avvertimento arrivi dalla ‘zona grigia’
descritta da Nino Amadore in un libro interessante. La mafia invece uccide per
seppellire un segreto. Cosa Nostra ha una raffinata esperienza criminale e
capisce che un giornalista minacciato diventa immediatamente un giornalista
megafono, quindi rinuncia alle minacce perché otterrebbe un effetto
indesiderato. Ma se si convince che un giornalista ha un segreto e non vuole
che quel segreto sia divulgato, uccide e seppellisce insieme il giornalista e
il suo segreto. I miei otto colleghi uccisi in Sicilia erano tutti o quasi
custodi di un segreto ed erano percepiti come un pericolo incombente”.
Com’è occuparsi di cronaca nera e giudiziaria, a
Palermo come è cambiato il lavoro del giornalista negli anni? Quali sono i
principali problemi e le maggiori difficoltà?
“Quando ho iniziato io, nel 1985, già molte cose erano
accadute. Il punto di svolta c’è stato quando ha avuto inizio l’istruttoria del
maxiprocesso. I giornalisti di nera e giudiziaria si sono trovati davanti
a un bivio e hanno dovuto decidere se stare da una parte o dall’altra. Se
sceglievi di sostenere quella grande sfida finivi inevitabilmente per essere
considerato un militante di quel movimento che viene chiamato ‘l’antimafia’. Io
per convinzione, per cultura personale, per formazione familiare non potevo che
stare da quella parte. Così mi sono ritrovato all’interno di un percorso di
formazione collettiva. E’ stato così per molti di noi. La percezione di essere
schierato in una zona ben precisa del campo l’ho sempre avuta. Questa
consapevolezza per certi versi è un vantaggio. Ma devi anche difendere
l’imparzialità del tuo mestiere, e ciò ti crea problemi quando devi criticare
qualcuno del tuo stesso fronte. Palermo è una città difficile, complicata. Devi
fare sempre molta molta attenzione a chi ti accompagni. Ma sul piano
professionale, per un giornalista, è forse la piazza più esaltante del mondo”.
Chi rischia di più a fare la cronaca?
“A rischiare di più non sono certo i grandi inviati,
gli specialisti del mordi e fuggi, le firme che scrivono il bel pezzo. Rischia
chi denuncia le malefatte vivendo sul territorio e restando a vivere sul
territorio. E’ rischioso scrivere notizie negative, sfavorevoli di gente che sa
tutto di te, che sa dove vanno a scuola i tuoi figli, di che colore è la tua
macchina, che abitudini hai. Io ho il vantaggio di non vivere in un paesino ma
in una città di un milione di abitanti, e di godere della rete di protezione
della mia testata. Questo aiuta molto. Nella vita professionale ti capitano
tantissimi episodi spiacevoli, anche minacce larvate. Se fai parte di una
redazione robusta hai un supporto che ti aiuta a fronteggiare questi episodi. I
collaboratori esterni, anche se lavorano per grandi testate, rischiano molto di
più.
Molte difficoltà nascono quando ti occupi di chi
gestisce il potere. Oggi il vero problema per la libertà d’informazione è
rappresentato dal facile ricorso alle citazioni in giudizio per danni. Queste
istanze hanno un potere intimidatorio molto forte anche sulle aziende con le
spalle forti. Una richiesta di 6-7 milioni di euro di risarcimento avanzata in
sede civile ti nega preventivamente la possibilità della difesa in
contraddittoria tipica del giudizio penale. Diventa difficile difendersi.
Se te ne arriva una, il giornale ti dice ‘va bene, difendiamoci’. Ma se te ne
arriva una seconda, una terza, il tuo giornale ti dice: ‘ma non c’è modo di
evitarle?’. Io queste cose le ho patite quando mi sono occupato di cronaca giudiziaria.
Più volte hanno minacciato di citarmi per danni. Qualche citazione è arrivata
ma poi per fortuna è stata ritirata.
Le querele per diffamazione in sede penale, lo dico
probabilmente andando contro corrente, invece le capisco di più. Noi giornalisti
maneggiamo carne, sangue, lacrime, coscienze, dignità delle persone. A me sta
bene che uno dica che quel che ho scritto non gli sembra corretto e ci sia un
giudice a decidere se è vero o no. Mi sta benissimo. Invece non mi sta bene che
qualcuno presuma subito di quantificare il danno d’immagine che io gli avrei
arrecato, e che il giudice sia chiamato a pronunciarsi sulla congruità del
danno dandolo per scontato, come avviene spesso. Ricordo una proposta di legge
del senatore Milio: prevedeva l’obbligo della rettifica, una procedura e alcune
garanzie, per fare la riparazione senza arrivare al processo. Che fine ha
fatto?”.
Ma la mafia contro cui combattiamo, il cronista la
vede, la incontra?
“Scrivi di mafia, ma la mafia mica la vedi, ne hai una
percezione mediata dagli avvenimenti e a volte dall’avvocato che difende gli
imputati di mafia, che esercitano un ruolo anche di cuscinetto rispetto alle
pressioni dei loro clienti. Chi frequenta quotidianamente per lavoro
il palazzo di giustizia lo sa. Gli avvocati sono gentili, non incontri
mai avvocati arroganti. Gli avvocati cercano di attutire, vengono a parlarti.
In questi comportamenti a volte possono esserci anche dinamiche intimidatorie.
Chi è dentro a queste cose sa distinguere bene tra un tentativo di mediazione e
un tentativo di intimidire”.
È più difficile raccontare la mafia rispetto a quegli
anni di cui parlavamo prima, gli anni del maxiprocesso, gli anni delle stragi
di cui ricorrono i vent’anni, oggi che la mafia non è più visibile in quel
modo?
“È difficile. Oggi è molto più sfuggente. Bisogna
andare al di là di alcuni stereotipi, al di là di alcune visioni consolidate
che riguardano quella che definiamo la mafia ‘militare’. C’è il meccanismo di
controllo del territoriale, l’importanza del racket… Il problema vero è proprio
quello di raccontare la mafia che non si vede, la mafia degli affari. Devi
immaginare, cogliere indizi. Se coltivi il sospetto e cerchi di suffragarlo di
riscontri quotidiani, finisci per sospettare di ogni cosa. Quella degli affari
è la mafia più difficile da raccontare”.
In questo momento a Palermo e nel circondario quale è
la situazione del sistema mafioso?
“La sensazione è che ci sia ancora un
forte controllo del territorio. Ma le coscienze sono più libere, le persone
parlano più liberamente di mafia. Spuntano denunce spontanee anche dove non te
l’aspetteresti. Che il clima sia diverso è evidente, ma non c’è dubbio alcuno
che si debba fare ancora molta strada. Io credo che a Palermo molti
abbiano smesso di pensare che il sistema mafioso sia conveniente. Credo che
molti ci convivano per necessità, o per convenienza, o perché la mafia
garantisce una sorta di welfareparallelo. Però il popolo ha smesso
di considerare il sistema mafioso invincibile e impunito per sempre.
In questo senso il Maxiprocesso rimane un monumento
all’azione di contrasto alla criminalità. Ha dimostrato che l’impunità per
i mafiosi è finita, che non si possono aggiustare tutti i processi. Per i
mafiosi questo è abbastanza chiaro. Chi non lo ha ancora ben chiaro è
l’universo dei colletti bianchi, la zona grigia. Il popolo percepisce che lo
Stato riesce a incarognirsi nei confronti del mafioso militare ma poi non
riesce a punire e a tenere in carcere un colletto bianco, un politico, per
lungo tempo”.
Che ruolo ha avuto il giornalista in questo
cambiamento e quale ruolo svolge oggi?
“Oggi il ruolo del giornalista è strano. Prima il
giornalista andava in giro (questura, carabinieri, polizia, tribunale) tornava
al giornale, scriveva i suoi pezzi e poi aveva la sua vita privata. Oggi il
giornalista è chiamato anche a svolgere un ruolo sociale che non ha
niente a che vedere con il giornalismo in senso stretto. Nella mia vita, ad
esempio, una quota non indifferente di tempo è dedicata a quello che io chiamo
‘apostolato laico’. E’ fatto di interventi nelle scuole, dibatti, presentazione
di libri, interviste pubbliche, che non sono lavoro in senso stretto, ma
sono attività che io penso di dovere fare per assolvere pienamente il mio ruolo
sociale di giornalista. So che questo non è propriamente il mio ruolo. Da
giornalista dovrei essere asettico, dovrei essere fuori dai giochi, mi
dovrei limitare a scrivere. Ma mi rendo conto che in questa fase a noi
giornalisti, come pure ai magistrati, spetta colmare un vuoto lasciato dalla
politica. Oggi nella società non c’è un luogo per discutere di lotta alla mafia
se non ci sono magistrati e giornalisti che ne parlano, perché la politica non
ne parla.
In Sicilia è finita l’epoca in cui c’erano i cadaveri
per strada a dimostrare la violenza della mafia e a destare sconcerto, rabbia e
indignazione. E’ difficile tenere desta l’attenzione su temi della mafia quando
non c’è l’emergenza palpabile. E’ difficile anche per un giornalista”.
Dario Barà per www.ossigenoinformazione.it
5 luglio 2012
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