Un amore antico quello fra Prizzi e la
musica, una musica popolare come la sua cultura. Polke, mazurche e tarantelle
attenuavano da tempo immemore le immani fatiche di un popolo contadino
abbarbicato da secoli su un’alta montagna assediata da violenti feudi.
Chitarre, mandolini e fisarmoniche diffondevano in un cielo dai cangianti umori
note che esorcizzavano l’inferno che stava giù, nella bruciante terra
feudale. Musiche, canti e balli allietavano il lungo carnevale, la
nascita e il matrimonio, riempivano le notturne serenate di amore e di sdegno
all’amata, consolavano il contadino e l'artigiano nel suo estenuante
lavoro e nei rari momenti liberi.
A cancellare gradualmente queste espressioni della millenaria civiltà contadina furono la fine del latifondo e la seguente emigrazione. Oscurata dalla nascente musica rock, espressione del tardo mondo industriale e delle sue micidiali insidie, la musica popolare però faticava a eclissarsi del tutto e di tanto in tanto ne arrivava un'eco, distorta da inadeguati strumenti elettrici, nei repertori musicali dei nuovi complessi giovanili che cercavano di coniugare passato e presente. Risorgeva invece come araba fenice nelle genuine esecuzioni, con più naturali strumenti tradizionali, di un gruppo di musicisti dilettanti, i quali periodicamente si ritrovavano nel salone del barbiere, com'era tradizione, o in suggestivi spiazzali; e perfino in un'ignota borgata, Filaga, in quegli anni resa famosa in Italia e nel mondo dalle iniziative del sociologo Ennio Pintacuda. Erano artigiani e contadini che per “un pezzo di pane” avevano lasciato la montagna per raggiungere città burocratiche o industriali: Palermo, Torino, Milano. In esse portavano, assieme a una visione montanara della vita basata essenzialmente sui tradizionali valori di famiglia, laboriosità e onestà, il loro passatempo musicale. Ritornavano poi in estate come “turisti” (l’unico turismo che si potevano permettere e che Prizzi abbia conosciuto) per ricreare con la magia delle loro note atmosfere d’altri tempi. Ora sono di nuovo emigrati senza ritorno in città misteriose e fredde quegli epigoni di un tempo ormai mitico - Mario Vaiana da Palermo (il mio indimenticabile papà), Giannino Collura da Milano, i fratelli Leone da Torino - portando con loro l’estremo bagliore di quell’antica anima musicale. Di loro è rimasta, assieme al sempre più inevitabilmente flebile ricordo dei compaesani che li ascoltavano sognanti nelle melodiche serate estive, la testimonianza di qualche foto.
A cancellare gradualmente queste espressioni della millenaria civiltà contadina furono la fine del latifondo e la seguente emigrazione. Oscurata dalla nascente musica rock, espressione del tardo mondo industriale e delle sue micidiali insidie, la musica popolare però faticava a eclissarsi del tutto e di tanto in tanto ne arrivava un'eco, distorta da inadeguati strumenti elettrici, nei repertori musicali dei nuovi complessi giovanili che cercavano di coniugare passato e presente. Risorgeva invece come araba fenice nelle genuine esecuzioni, con più naturali strumenti tradizionali, di un gruppo di musicisti dilettanti, i quali periodicamente si ritrovavano nel salone del barbiere, com'era tradizione, o in suggestivi spiazzali; e perfino in un'ignota borgata, Filaga, in quegli anni resa famosa in Italia e nel mondo dalle iniziative del sociologo Ennio Pintacuda. Erano artigiani e contadini che per “un pezzo di pane” avevano lasciato la montagna per raggiungere città burocratiche o industriali: Palermo, Torino, Milano. In esse portavano, assieme a una visione montanara della vita basata essenzialmente sui tradizionali valori di famiglia, laboriosità e onestà, il loro passatempo musicale. Ritornavano poi in estate come “turisti” (l’unico turismo che si potevano permettere e che Prizzi abbia conosciuto) per ricreare con la magia delle loro note atmosfere d’altri tempi. Ora sono di nuovo emigrati senza ritorno in città misteriose e fredde quegli epigoni di un tempo ormai mitico - Mario Vaiana da Palermo (il mio indimenticabile papà), Giannino Collura da Milano, i fratelli Leone da Torino - portando con loro l’estremo bagliore di quell’antica anima musicale. Di loro è rimasta, assieme al sempre più inevitabilmente flebile ricordo dei compaesani che li ascoltavano sognanti nelle melodiche serate estive, la testimonianza di qualche foto.
Didascalia
foto. Da sinistra: i tre fratelli
Leone (clarinetto, mandolino, fisarmonica), Mario Vaiana (chitarra), il gesuita
Ennio Pintacuda. Il gruppo musicale animò qualche volta le serate degli stage
della Libera Università della Politica.
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