Se
ancora oggi stento a crederci io che, oltre allo zzu Pippinu (classe di ferro
1922), conosco bene anche il fatto e l’antefatto, è facile immaginare come avrà
accolto la notizia, la buonanima di suo nonno Calò Gentile, quando gli fu
trasmessa non so da quale diavolo dell’inferno. Eppure, con nota del 14
febbraio 2012 [festa degli innamorati, ndr], il prefetto di Palermo aveva già
scritto così all’Ill.mo Signor Giuseppe Benincasa, via Tramontana n. 20,
Castronovo di Sicilia:
Egregio Cavaliere,
mi è gradito comunicarLe che con decreto del
Presidente della Repubblica in data 27 dicembre 2011, la
S. V. è stata insignita dell’Onorificenza
di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Nell’esprimerLe il mio più vivo compiacimento, sarò
lieto di consegnarLe l’onorifica distinzione non appena sarà pervenuta.
Umberto
Postiglione
Che sagoma
nonno Calò! Campiere sì, ma leccapiedi mai! Grazie a Dio, Caliddu Gentile aveva
giurato di non scadere a quel livello fin dall’età di quattro anni, quando
(dovendo rinunziare al latte della madre) fu costretto ad imparare in fretta e
furia tutte le strategie di sopravvivenza sperimentate con successo nella Sicilia
interna, dove il proverbio più in voga era:
Inchi la panza e ghinchila di spini. Nel 1860 si arruolò con Garibaldi e lo
seguì fino a Milazzo e due anni dopo anche in Aspromonte gridando a
squarciagola: O Roma o morte! Mafioso
forse un po’ lo era, Calò Gentile. Altrimenti non sarebbe mai diventato campiere
nel feudo Savochella del barone Agnello di Siculiana. Ma se lo era, apparteneva
a quella maffia scarsa che non
infieriva mai sui contadini costretti dalla fama a rubacchiare qualche covone
di grano ancora da dividere con il padrone. Anzi, Calò li invitava a far tesoro
del detto arrubbari a cu’ ha arrubbatu
nun è piccatu, che molti anni dopo riecheggerà ammantato di sociologismo negli
espropri proletari in ambiente urbano. A furia di ripeterlo, Calò Gentile finì
coll’inimicarsi l’alta mafia dei monti Sicani, che il 22 aprile 1904 fece
trovare la presunta testa del bandito Varsalona in avanzato stato di
decomposizione appesa ad una pertica nei pressi delle case grandi del feudo
Savochella, alle falde del monte Cammarata, e soprattutto il barone Agnello, che
(avendo messo una taglia di 5.000 lire sul feroce masnadiero) diede il campiere
in pasto alla giustizia, facendolo condannare a quattro anni di reclusione.
Ma nemmeno il
carcere valse a fargli togliere dalla testa che arrubbari a cu ha arrubbatu nun è piccatu, motto destinato a
diventare anche stella polare del primo Peppino Benincasa. Il quale, sveglio
com’era e aperto a tutte le esperienze, già all’età di otto anni godeva della
stima dei pochi antifascisti di Castronovo e segnatamente del dottore
Baldassare Pace e degli avvocati Morici e Giovanni Buttacavoli, che volevano
iniziarlo alla massoneria. Ma da quest’orecchio il ragazzino non ci sentiva.
Era invece più che propenso a collaborare con loro tutte le volte che
decidevano di organizzare uno scherzo di cattivo gusto ai gerarchi del Fascio,
a cominciare dal segretario politico don Eugenio Landolina, meglio noto come
don Rodrigo per i suoi metodi autoritari e il malvezzo di schiaffeggiare in
pubblico chiunque non si prestasse ai suoi voleri o mostrasse tiepidezza verso l’alta
missione cui era chiamata la
Patria guidata dal duce predappiano. E ne sapeva qualcosa lo
stesso Peppinello Benincasa, che più di una volta ricevette ceffoni e calci nel
sedere perché reo di aver tentato di difendere i ragazzini più deboli dalle
prepotenze dei coetanei.
Anche per
questo, l’amato nipotino di Calò Gentile divenne longa manus degli antifascisti fino al punto da improvvisarsi
postino e attacchino dei manifesti scritti a mano che raccontavano in rima
baciata le prodezze di don Rodrigo e dei suoi lacchè con gli stivali lucidi, il
frustino di cuoio intrecciato e la camicia nera. Ma non gli faceva difetto lo
spirito di iniziativa. Dopo aver studiato le abitudini dei gerarchi, che si
riunivano nella chiesa sconsacrata di Sant’Onofrio, nella centralissima piazza
Pepi, una sera del 1932 quel diavoletto aspettò che fossero spenti i fanali ad
acetilene per piazzare un asinello davanti alla porta in modo da farci sbattere
il muso al primo fascista che usciva dal locale. Lo scherzo riuscì a meraviglia
e l’indomani tutta Castronovo sapeva che uno dei più stretti collaboratori di
don Rodrigo si era abbracciato nottetempo con il camerata che raglia. Ad
avvisare la popolazione era stato un cartello anonimo affisso alla porta del
Fascio, nemmeno a dirlo, dal piccolo Benincasa. Tra i primi a saperlo fu il
podestà, che (per placare l’ira di don Rodrigo) non perse tempo a spedire il
ragazzino per punizione nel Convento di San Martino delle Scale.
Ora, mentre
il nonno Calò s’imbufalì, lo zzu Pidduzzu Benincasa (padre del birbantello)
plaudì all’iniziativa: una bocca in meno da sfamare significava un dono della
misericordia divina. Ma era così cinico papà Benincasa? Un fascista bigotto e
fanatico? Neanche per sogno, a voler credere al figlio oggi cavaliere al merito
della Repubblica Italiana: «La mia infanzia non è stata felice – confessa
nell’incipit di un suo libro di memorie, cui ho avuto l’onore e il privilegio
di scrivere la prefazione –. Penultimo di una famiglia di dodici figli, a cui la Provvidenza non ha
fatto mancare mai il necessario, ho sempre dovuto lavoricchiare per cercare di
sbarcare il lunario. Mio padre tirava la carretta attraverso lavori saltuari e
di manovalanza. Era povero di roba ma ricco di dignità. Gestiva una trattoria e
percepiva un piccolo emolumento dal Municipio per il ruolo di capo della banda
musicale locale e per la formazione dei giovani musicanti. Nonostante il fascismo agevolava le famiglie numerose
con piccoli sussidi, mio padre non lo volle mai accettare».
Né il plauso
del fiero genitore al provvedimento podestarile poteva esser scambiato per
segno di resa. Il vero è che papà Benincasa temeva che presto potesse venirgli
a mancare il sostegno del suocero Calò Gentile, ormai più che novant’anni (ma
destinato a mantenersi in vita fino al 1940), e voleva assicurare al figlio
almeno il diritto alla vita e la possibilità d’imparare un mestiere come Dio
comanda. Ci riuscì e non mancò di adoperarsi affinché, dopo due mesi di
soggiorno a San Martino delle Scale, Peppinello fosse trasferito in un Ospizio
di beneficenza, a pochi passi dal Politeama di Palermo, dove rimase ben nove
anni, apprese il mestiere di falegname e imparò a suonare la tromba così bene
da essere poi richiesto come «solista» da diverse bande musicali delle province
di Palermo e Agrigento. Successivamente, il lungo e drammatico soggiorno in
un’isoletta del greco mar da cui vergine
nacque Venere e l’amore filiale per quel prezioso scrigno della storia che
è il territorio della sua Castronovo ne faranno un poeta di tutto rispetto e un
bravo archeologo, nella più rigorosa tradizione dei tombaroli pentiti (Cfr. La
Sicilia , 12 settembre 2009).
Ai nostri fini interressa però ricordare per il momento che Peppino Benincasa
potè lasciare l’ospizio di beneficienza solo il 10 giugno 1941, giusto in tempo
per presentarsi alla visita di leva. «Risultato idoneo – racconta lui stesso –,
fui messo in congedo provvisorio». La fortuna sembrava essere finalmente dalla
sua parte, ove si consideri che l’Italia era entrata in guerra da più di un
anno. Ma la pacchia durò solo sei mesi. Il 2 febbraio 1942 fu chiamato alle
armi e destinato al 36° Reggimento di Fanteria motorizzata della Divisione
Pistoia. E da qui, dopo aver dimostrato di saper suonare la tromba, eseguendo
magistralmente la Casta diva della Norma di Bellini, fu trasferito alla Compagnia Comando e aggregato
alla banda musicale del Reggimento. Nel
mese di settembre passò al 317° Reggimento Fanteria della Divisione Acqui, di
stanza a Zante, occupata dall’Italia sin dal 1941. E per alcuni mesi se la spassò
come non gli era mai capitato prima: donne, buon vino, esibizioni musicali in
piazza, tra «un busto in bronzo di Ugo Foscolo e una statua del poeta greco
Solomos». Mamma, canzone allora in voga nel nostro paese, divenne anche
per merito suo in breve tempo «l’inno dell’isola di Zante».
Ma il 13 febbraio 1943, la compagnia Comando
e il corpo bandistico del 317° Reggimento furono trasferiti a
Cefalonia. Il grosso della forza lasciò Zante alla fine dello stesso mese. La
prima tappa fu Argastoli; la destinazione successiva Balsamata, dove avrebbe
conosciuto la bellissima Maria Lalli (sua futura sposa) e alcuni esponenti del
movimento partigiano ellenico. A giugno il vecchio comandante della
Divisione Acqui passò il testimone al generale Antonio Gandin. Con l’arrivo
delle reclute della classe 1923 l’insieme della forza risultò composta da circa
12.000 uomini. A supportare l’occupazione degli italiani c’erano circa 1.800
soldati tedeschi, perlopiù criminali comuni ai quali era stato offerto
l’arruolamento come alternativa al carcere. I rapporti tra i due eserciti
all’inizio furono buoni; le cose cambiarono bruscamente dopo l’8 settembre, in
conseguenza dell’armistizio che il generale Pietro Badoglio firmò con
l’Inghilterra, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America. I fatti suono troppo noti per ritornarci.
Vale nondimeno la pena
ricordare che la notte stessa arrivò un fonogramma dal generale Vecchiarelli
(comandante delle truppe stanziate in territorio greco), che recitava: «Seguito
conclusione armistizio, truppe italiane […] seguiranno seguente linea condotta.
Se tedeschi non faranno atti di violenza armata, italiani non dico non
rivolgeranno armi contro di loro, non dico non faranno causa comune con ribelli
né con truppe angloamericani che sbarcassero. Reagiranno con forza a ogni
violenza armata. Ognuno rimanga al suo posto con i compiti attuali. Sia
mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare». Il giorno dopo lo stesso Comando Generale
sollecitava l’esercito a cedere le armi ai tedeschi e a lasciare gli avamposti
presidiati. Indeciso sul da farsi, il generale Gandin cercò di prender tempo.
In qualche misura ci riuscì, offrendo come segno pacificatorio ai tedeschi il
controllo delle alture al centro dell’isola. Ma il risultato fu che il 10
settembre gli ex alleati presentarono un ultimatum che imponeva alle truppe
italiane di consegnare le armi nella piazza centrale di Argastoli, davanti
all’intera popolazione. Nel frattempo dalla terraferma greca cominciarono ad
arrivare notizie contraddittorie: se intere divisioni dell’esercito italiano si
arrendevano ai tedeschi, i militari della “Pinerolo” andavano ad ingrossare le
file dei partigiani greci, che controllavano i monti.
Anziché seguirne l’esempio, il 14 settembre
il generale Gandin chiamò tutti i soldati della Divisione Acqui a pronunziarsi
in un referendum con tre ipotesi: 1) arrendersi, 2) schierarsi a fianco dei
tedeschi, 3) combattere contro di essi. La risposta fu quasi unanime: Guerra ai
tedeschi! Il Governo presieduto da Badoglio frattanto invitava con un
fonogramma a rivolgere le armi contro gli ex alleati. A mezzogiorno il generale
Gandin comunicava l’esito del referendum; e così ebbe inizio l’inferno di
Cefalonia. Il 15 settembre il Comando Supremo dell’esercito tedesco inviò
nell’Isola nuovi battaglioni, che appoggiati dall’aviazione e sfruttando il
vantaggio acquisito dal controllo delle alture, ridussero in pochi giorni
all’impotenza il nostro esercito; tanto che il 22 settembre il generale Gandin
convocò un Consiglio di Guerra, che si concluse con la decisione di arrendersi
ai tedeschi. I soldati italiani catturati furono fucilati per ordine di Hitler.
La belva teutonica non si acquietò il giorno successivo, nel corso del quale il
bilancio dei militari italiani fucilati arrivò a circa 4.500 soldati e 155
ufficiali; molti altri nostri connazionali, tra i quali 129 ufficiali (compreso
il generale Gandin), furono passati per le armi tra 23 e il 28 settembre. Sommando
anche i morti per il successivo affondamento di tre navi, le vittime italiane
ammonteranno a più di 9.400.
Addetto alla difesa della Compagnia Comando, Peppino Benincasa durante
una rischiosa missione fu ferito leggermente ad una gamba da una scheggia di
bomba sganciata dall’aviazione tedesca. Ma non andò a riposarsi: benché
dolorante non potè sottrarsi né alle marce forzate né, tanto meno, alla cattura
da parte del nemico, che non mostrò certo particolari riguardi verso di lui, a
giudicare da come un soldato tedesco gli strappò dal collo una collana con una
medaglietta dorata della Madonna, credendo che stesse per appropriarsi di
chissà quale tesoro. «Il bastardo – racconta lui stesso – me la sfilò con forza
dandomi uno spintone. Caddi a terra insieme alla catena, il piastrino e la
medaglietta […]. Mi venne un impeto di reazione, ma i miei compagni mi
fermarono. Fu forse il destino, ma quella caduta fu la mia salvezza.
Indolenzito e pieno di rabbia, a digiuno da due giorni e senza dormire, mi
addormentai per terra. Non so quanto tempo passò, nel dormiveglia sentii una
voce: “In marcia”. A seguire sentii una raffica di spari e i miei commilitoni
che si accasciavano su di me. Gli spari si confondevano con le urla ed i
lamenti dei miei commilitoni, che cadevano come birilli. Io fui travolto da quell’immenso peso umano che mi
cadde addosso. Rimasi schiacciato da tanti corpi oramai privi di vita, non
riuscivo a muovermi. Svenni per il dolore e per la disperazione. Al risveglio
era buio, mi trovai pieno di sangue con cadaveri addosso ed intorno. Ancora
indolenzito e sporco di sangue e con il dolore alla gamba, con la febbre,
facevo fatica a reggermi in piedi. Provavo a camminare carponi ma gli sterpi mi
ferivano le mani. Non avevo altra scelta, dovevo raggiungere Balsamata, se
volevo salvarmi». Si salvò, con l’aiuto degli isolani e in particolare
di uno dei suoi migliori amici, Giorgio Rasis, che lo metterà presto a contatto
con i capi della resistenza greca.
Queste e tante altre cose
(compresi alcuni affreschi di vita quotidiana e costumi ellenici) Peppino Benincasa (che pure aveva frequentato
solo la terza classe elementare) ha avuto modo di raccontarle nel libro
autobiografico Memorie di Cefalonia. La
guerra volutamente dimenticata e il martirio della Divisione “Acqui” (San
Giovanni Gemini s. d., ma 2007), avvalendosi anche del supporto morale e
culturale di chi scrive e dei nostri comuni amici prof. Franco Licata e dott.
Mario Liberto, che ne hanno curato la pubblicazione. Di più, il prof. Licata,
già sindaco di Castronovo e allora presidente dell’Associazione Culturale Kassar, scrivendo una pur breve
presentazione del libro ha tenuto a precisare che «fra i meandri di quella
“sporca” guerra con tutti i rovinosi effetti, lui [lo zzu Pippinu] riesce a
cogliere le pur poche positività: la solidarietà e l’accoglienza del popolo
greco, che hanno raggiunto il loro culminante epilogo nel grande amore per
Maria Lalli, sua unica dea ed insostituibile compagna di vita». È appena il
caso di aggiungere che la bellissima «greca», ormai nel mondo dei più, ha
trovato la sua ultima dimora molti anni fa nel piccolo cimitero di Castronovo.
Per questo motivo il cavaliere errante torna tutti gli anni nella terra natia e
non manca di fare una capatina a Cefalonia, dove Maria aveva ricevuto in
eredità dai genitori una casetta e piccolo appezzamento di terra.
E si noti che il suo frenetico
andirivieni tra il nuovo e il vecchio mondo, la Magna Grecia e le isole egee
non soddisfa appieno la sua sete di periodica innovazione ambientale, che
ancora alla sua veneranda età lo porta pure dal New Jersey in California, dalla
Sicilia in Calabria, a Roma, a Venaria Reale, ovunque ci siano parenti ed amici
da abbracciare o cose nuove da vedere. Il che lo ha fatto apparire troppo
spesso stravagante e raccontafavole da strapazzo. Prova ne sia che fino a pochi
anni addietro non erano molti i castronovesi disposti a credere alla storia
della sua miracolosa salvezza dalle mitragliate tedesche. Non a caso quando
presentammo il suo libro nella stessa piazza Pepi dove ottanta anni prima il
futuro cavaliere aveva fatto abbracciare il gerarca fascista con il camerata con la coda, c’era moltissima
gente ma i castronovesi brillavano per assenza e, tra i pochi che assistevano,
ce n’erano pure alcuni con la faccia ridanciana.
Ma intanto le sue Memorie conquistavano nuovi lettori, andavano a ruba tra gli
addetti ai lavori, trovavano spazio nelle migliori biblioteche e nelle librerie
private di almeno due continenti. Davano il la ad importanti iniziative come
la festa e le attestazioni di stima che i castronovesi residenti a Venaria
Reale hanno riservato il 15 ottobre 2011 a Peppino Benincasa e alla memoria di
quella straordinaria donna che era stata sua moglie, in onore dei quali vollero
organizzare un originale spettacolo teatrale (costruito dal regista Scibetta
sul filo delle Memorie di Cefalonia)
e una commovente recita delle poesie d’amore che il romantico poeta aveva
dedicato alla sua bellissima greca.
Ma già prima l’opera del Benincasa aveva richiamato alla memoria le gesta di
più di un eroe dimenticato. Può
testimoniarlo anche chi scrive. Nel libro (p. 48) c’è scritto:
Dal mio compaesano Vincenzo Tirrito,
inteso Tuppo, e dal tenente Giuseppe
Triolo, durante la mia latitanza da partigiano greco ELLAS, mi raccontarono
delle gesta del capitano Antonino Verro di Corleone.
Questi era imparentato con Bernardino
Verro, tra i fondatori dei Fasci siciliani, sindaco di Corleone, socialista
trucidato nel 1915 dalla mafia. Antonino Verro era comandante della I batteria
di accompagnamento. Partito da Argostoli per raggiungere Sami con il I
battaglione del 317° Reggimento Fanteria Acqui, durante il trasferimento, a
causa degli attacchi aerei degli stukas, perdette sia uomini che mezzi.
A causa del contrattempo arrivò in ritardo
per la battaglia. Il battaglione era già schierato per la battaglia del ponte
Kimonico ed aspettava l’artiglieria. Il capitano Neri, subentrato nel comando
del battaglione al maggiore Salemi, era ferito, ed essendo il Verro il più alto
in grado, prese il comando di tutte le truppe. Il battaglione era già in grosse
difficoltà dietro l’incalzare del battaglione tedesco, e allo scoperto per
essere colpito dagli stukas. Il capitano, insieme al tenente Giuseppe Triolo,
mio comandante di compagnia, dopo capo partigiano, cercarono di riorganizzare
il battaglione con una mossa a sorpresa.
Nei pressi di Divarata, il Verro, insieme ad alcuni volontari, cadde in
una imboscata. Fu fucilato immediatamente e senza processo, nei pressi di un
viottolo di montagna. L’ultima notte il capitano Verro l’aveva trascorsa in una
bettola del paese di Divarata, ancora oggi esistente e trasformata in un
negozio di formaggi locali.
Quando lessi per la prima volta questo passo, telefonai ad un mio amico
corleonese per chiedergli cosa ne sapesse dell’eroico suo compaesano. Ma sarà
stato per ragioni anagrafiche o forse perché nel paese dei Santi Leoluca e
Bernardo la gente ricorda meglio i nomi dei vari Navarra, Liggio, Reina e
Provenzano, fatto sta che sprecai il fiato e il costo della telefonata. Poco
propenso però come sono ad alzare bandiera bianca, provai a chiedere lumi anche
alla signora Rosellina Bentivegna Rizzo e, con mia immensa gioia, appresi che
il capitano Verro era sangue del suo stesso sangue, come lei discendente diretto
di Stefano Bentivegna, fratello del più noto eroe risorgimentale fucilato a
Mezzojuso il 20 dicembre 1856. Né la cosa finì lì. La signora Rizzo informò le
due cugine Verro (una delle quali vive in Lombardia) e le mise a contatto con
il Benincasa. Il passo successivo fu una visita che la stessa Rizzo e le due
cugine fecero a Benincasa a Castronovo, il quale non solo fu lieto di averle
sue ospiti gradite, ma colse l’occasione per invitarle a compiere insieme una
sorta di “pellegrinaggio” a Cefalonia, fino al ponte Kimonico, muto testimone
della barbarie nazi-fascista. Nell’estate successiva il futuro cavaliere si
ritrovò puntualmente assieme a Rosy Verro (residente in Lombardia) e alla
cugina Rosa Verro Moscato sul ponte della memoria. Rosellina Bentivegna non
potè andarci.
Ma rimediò il 10 novembre 2011 quando, prendendo spunto proprio
dall’opera del Benincasa, per iniziativa di chi scrive l’Istituto Gramsci
Siciliano organizzò nella sala di lettura della propria biblioteca un convegno
presieduto dal suo presidente prof. Salvatore Nicosia, cui parteciparono, oltre
al nostro, altri due reduci dell’eccidio di Cefalonia: l’ingegnere Giorgio Lo Iacono
di Piana degli Albanesi e Fortunato Basile di Baucina. Di un terzo
sopravvissuto (Salvatore Li Causi, nato pure a Baucina ma residente a
Villafrati) c’erano i familiari. Ebbene, in quella memorabile occasione furono
presenti, tra molti altri, il console di Grecia Renata Lavagnini, insigni
docenti e studiosi di lingua e letteratura greca, antica e moderna, come il prof.
Vincenzo Rotolo e Antonella Sorci (autrice di un opuscolo, Mamma torno a casa, che raccoglie le ultime testimonianze al
femminile del barbaro eccidio del 1943), il prof. Franco Licata, il prof. Nino
Conti (nuovo presidente dell’Associazione Kassar),
una numerosa delegazione dell’ANPI di Palermo “Comandante Barbato”, guidata dal
segretario Angelo Ficarra e da Giorgio Colajanni, figlio del compianto Pompeo,
l’ardimentoso siciliano che nel 1945 liberò Torino dall’occupazione
nazi-fascista. Assieme a tutti queste e molte altre personalità, le due cugine
Verro e Rosellina Bentivegna.
Vale la pena di aggiungere che in quell’occasione si apprese tramite
una ricerca del sottoscritto che il capitano Verro era stato insignito della
medaglia d’argento alla memoria. Di più, i parenti seppero che Salvatore Li
Causi (classe 1921), rimasto a Villafrati per difficoltà motorie, era stato
cuciniere del loro eroico congiunto e che, ritornato in Sicilia, un giorno
saltò sul glorioso trenino a scartamento ridotto per portare le condoglianze e
i più sinceri attestati di stima alla signora Rosalia Bentivegna, madre del
glorioso caduto. Ma appena vide la foto del suo capitano, il mio vecchio amico Turiddu
Li Causi si commosse fino alle lacrime e non potè più spiccicare una parola. In
segno di riconoscenza, prima che finisse il 2011, le due cugine Verro andarono
a ringraziare l’anziano reduce di Cefalonia nella sua umile residenza
villafratese.
Negli stessi giorni l’ANPI di Palermo annunziava solennemente la
decisione di dare la tessera onoraria a tutti i reduci di Cefalonia presenti
(direttamente o indirettamente) al Convegno del 10 novembre. Ma già prima
l’avvocato Giulio Tramontana (originario di Castronovo) aveva avanzato formale
richiesta di conferire l’onorificenza di Cavaliere all’Ordine della Repubblica
Italiana a Giuseppe Benincasa. Il 27 dicembre il presidente della Repubblica
firmava il decreto. Il 2 giugno, festa della Repubblica, nella prestigiosa
cornice del trecentesco Palazzo Sclafani, l’umile falegname di Castronovo
riceverà l’onorifico attestato. Auguri di cuore, zzu Pippi… pardon cavalier Giuseppe Benincasa! Onore
e gloria al grande presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che pochi
giorni fa ho visto sfilare commosso per le vie di Corleone in occasione dei
funerali di Stato per Placido Rizzotto e il 2 giugno ha mostrato ancora una
volta la sua faccia pulita e rassicurante nelle principali strade di Roma
Capitale!
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