di Giuseppe Oddo
Giuseppe ODDO |
L’avessero
detto al mio bisnonno mastro Ciccio il sellaio che, centocinquantadue anni dopo
le pubbliche esequie tributate in differita dalla dittatura garibaldina ai
resti di Francesco Bentivegna, Corleone sarebbe divenuta ancora una volta teatro
di un analogo funerale di Stato (e per giunta alla presenza delle massime
autorità della Repubblica), la buonanima si sarebbe fatto di sicuro ibernare
pur di potervi partecipare di nuovo con la bandiera nazionale abbrunata. Ma purtroppo
morì di crepacuore nella primavera 1905 e si portò nella tomba il rammarico di
aver bruciato la propria vita inseguendo la stessa utopia della libertà e il
medesimo miraggio della terra per cui il 10 marzo 1948 il sindacalista Placido
Rizzotto fu sequestrato dalla mafia, ucciso e buttato in una foiba della Rocca
Busambra, coll’illusoria speranza d’impedirne il seppellimento.
Nulla di nuovo
sotto il sole, però, neanche per quest’aspetto! Sul fare dell’alba della nostra
storia unitaria, un trattamento simile era stato riservato ad altri generosi
corleonesi, primo dei quali Filippo Bentivegna, eroe dimenticato e fratello del
martire risorgimentale. È vero, il 21 luglio 1851 il ventottenne gentiluomo,
secondogenito di don Giliberto (agiato borghese di Corleone) e di donna Teresa
Cordova dei marchesi della Giostra, fu ucciso nel carcere palermitano dell’Ucciardone,
e non già dai mafiosi, bensì dagli aguzzini borbonici, che lo torturarono a
morte e subito dopo lo diedero in pasto ai pesci, nel tratto di mare compreso
tra l’arsenale e il forte di Castellammare. Ma le sue disavventure erano cominciate
tra la fine del 1839 e l’inizio del 1840, per motivi simili a quelli che negli
quaranta e cinquanta del 900 avrebbero armato la mano all’esercito della lupara
che scaricò la furia omicida contro Placido Rizzotto e tanti altri capipopolo
della Sicilia occidentale.
Certo, Filippo
Bentivegna (allora diciassettenne) non era sindacalista come Placido Rizzotto.
I sindacati avrebbero cominciato a fare la loro prima timida comparsa diversi
decenni dopo. Di mafia si sarebbe iniziato a parlare senza molta cognizione di
causa solo dopo l’unità d’Italia. Ma già negli ultimi decenni della dominazione
borbonica si registravano i primi inequivocabili segni del famigerato fenomeno
(allora tutto siciliano) che, ancorché allo stato embrionale, non era certo
meno pericoloso e inquietante di quanto sarebbe diventato negli anni ruggenti
delle faide mafiose, che insanguinarono diverse realtà dell’Isola. Sì, perché
soprattutto le città contadine della Sicilia occidentale erano ancora
fortemente connotate dalla massiccia presenza del latifondo cerealicolo e dei gabelloti
(grossi affittuari) che, oltre a monopolizzare il mercato del lavoro e l’erogazione
dei soccorsi alimentari ad usura, detenevano le più importanti leve di potere
nei municipi.
Erano peraltro
venuti al pettine i nodi storici dell’assetto fondiario post-feudale a causa delle
ultime norme sulla liquidazione dei diritti promiscui, cui si aggiungeva il
groviglio di aspettative più o meno lecite, suscitate dal regio decreto 19
dicembre 1838, n. 5010, che creava le premesse per la suddivisione dei
latifondi ecclesiastici di regio patronato. A testimonianza dell’imbarbarimento
dei rapporti di convivenza tra i soggetti interessati al futuro assetto delle
campagne, basti citare due suppliche inviate nell’estate 1840 alla «Sacra Real
Corona, a nome dell’Altissimo Iddio». La prima, anonima e recante la data del 3
agosto, recitava: «Gli agricoli coloni di Sicilia, entrati in massimo
scoraggiamento e quasi impossibilitati a proseguire le loro industrie di
campagna a causa di un infinito numero di furti d’abigeato vi si commetton,
oltre le famose comitive armate di briganti, che con violenza tanto negli
arbitri di campagna che a passo commettono furti e assassinj, con massima
umiliazione alla Sovrana Maestà Sua ricorrono onde imporre con sovrana legge un
mezzo più opportuno, onde cessare i furti di abigeato, ed estinguere le
comitive».
La seconda, scritta il giorno dopo (forse su
suggerimento delle autorità borboniche) portava le firme dei più grossi
gabelloti della Sicilia occidentale e forniva maggiori dettagli:
I sottoscritti massai ed
affittuari di terra, prostrati ai piedi del Real Trono, col più profondo
rispetto umiliano a V. M. che le due Valli di Palermo e di Trapani oltre ad
essere continuamente infestate da gravi furti di abigeato sono attualmente
sottoposte alle terribili concussioni di tutti gli assassini e corridori di strada. Non vi ha comune dove non sia quasi ogni
giorno uno o più proprietari, e costretto a ricomprare la sua libertà con lo
sborso di considerevoli somme. Possono citarsi per l’autenticità dei fatti in
esempio: Isidoro Cristina del Comune di Prizzi; sac. D. Gioacchino Di Bella in Palermo nell’ex
feudo di Traversa; D. Francesco Tomasini di Giuliana nell’ex feudo Casalotto;
don Antonino Milana nell’interno del Comune di Partinico; Filippo Sparacia del
Comune di Castelvetrano nell’ex feudo di Abbesi; il figlio di Girolamo La Monica vicino il Comune di
Alcamo; don Angelo Di Stefano del Comune di Santa Ninfa recentemente
sequestrato con tutta la sua famiglia ed un figlio arciprete, ed attualmente in
potere degli assassini. In questa deplorevole situazione gli oratori non possono
più recarsi nei rispettivi lor fondi per attendere alle campestri occupazioni,
e son costretti ad abbandonare all’intutto la cultura delle terre che è la
primaria fonte di sussistenza di quest’isola. La pubblica tranquillità e sicurezza
delle persone sono nel più ignominioso e violento modo attaccate e compromesse.
Gli oratori pertanto supplicano l’alta giustizia di V. M., affinché si degni di
emettere gli ordini più severi ed efficaci ad ovviare ad un tanto
inconveniente.
In questo clima turbolento si colloca la vicenda
umana e politica di Filippo Bentivegna, che (avendo abbandonato gli studi) fu
incaricato dal padre di occuparsi della gestione dell’estesa tenuta di famiglia
nella contrada Mendola, alle falde orientali della Rocca Busambra. I prodromi
della brutta fine che l’attendeva non tardarono a manifestarsi con la perdita
di un braccio che, a detta del comandante della Gendarmeria reale di fanteria e
cavalleria in Sicilia, gli si «dovette amputare perché rovinato dallo scoppio
di un fucile che si caricava a caccia». Vuole tuttavia la tradizione familiare
che lo sfortunato giovane sia rimasto mutilato a soli diciassette anni a causa
di una ferita da arma da fuoco, riportata in un duello con un gabelloto del luogo,
che si sentiva danneggiato dal tipo di conduzione aziendale diretta praticata
nelle terre di don Giliberto Bentivegna.
Non per questo quel «ragazzo fiero e discolo» smise
di occuparsi delle terre della Mendola. Nell’autunno 1840 le tenute dei
Bentivegna furono teatro di un duro conflitto a fuoco tra la gendarmeria e
un’accolta di ladri di bestiame. Nella contrada Mendola i militari arrestarono
alcuni malfattori cui sequestrarono 16 animali rubati in altre contrade. A tal
proposito il 13 ottobre il sottintendente di Corleone Emanuele Di Giorgio,
abruzzese ma amico dei gabelloti del luogo, si affrettò a rapportare ai
superiori «che il fondo della Mendola e quello di Marosella dove fu il primo
incontro della forza pubblica con i ribaldi si appartenevano a D. Giliberto
Bentivegna» e che «con quei ladri aveva pratica il di lui campiere cognominato
Mamola e qualche volta il suo proprio figlio per nome Filippo». A rincarare la
dose fu un mese dopo una lettera anonima
all’intendente:
Tutti i proprietari di
Corleone reclamano a V.E., qualmente mesi uno addietro nello ex feudo della
Mendola accadde un forte attacco tra molti assassini e molti gendarmi reali.
Varij animali rubati restarono nel luogo e condotti a questa giustizia, il
domani si fecero molti arresti. Interrogati dal giudice Paternostro dichiararono
che D. Pippo Bentivegna era stato il promotore della comitiva ed il
ricettatore, con scienza certa, degli animali ed altri oggetti ottenuti in
varii furti con violenza commessi. Intanto perché il capo ladro, figlio di don
Giliberto Bentivegna, si mantenne occulto, si cambiano le carte del processo
con positivo attrasso della verità e della giustizia si mette in libertà. Il
popolo prega perché venghi un giudice istruttore per verificare che si pratica
il monopolio per proteggere un assassino. Si augura giustizia pronta.
Ciò fosse stato ancora poco, Filippo fu accusato di
omicidio «in persona di D. Alessio D’Amore». Fu perciò tratto in arresto per
misura di polizia, ma «subito scarcerato perché si scoprì falsa l’imputazione».
Questa circostanza sconcertò le massime autorità borboniche al punto che da
Palermo il capo della polizia chiese al sottintendente Di Giorgio cosa ci fosse
di vero nella voce malevola che considerava «don Pippo Bentivegna supposto
protettore di ladri, e come costui era riuscito in forza di sue aderenze
liberarsi di procedimenti giudiziari». La risposta fu sin troppo vaga: «Questo
giovane si portava spesso in quei luoghi»; era quindi probabile che avesse
avuto occasione di vedere i malfattori. L’inchiesta si chiuse per il momento
così, anche perché frattanto un rapporto del comandante della gendarmeria reale
aveva restituito onore alla verità dei fatti e don Giliberto aveva deciso di
tenere il figlio «sempre presso di sé e senza lasciarlo in Palermo, avendo dato
anco in affitto la possessione per togliergli qualunque occasione di andare in
campagna; e ne ha anco allontanato il fattore, persona sospetta». I gabelloti
avevano dunque vinto su tutta la linea. Ma il loro amico sottintendente
continuò a perseguitare il giovane mutilato, la cui presenza a Corleone era di
per sé una mina vagante per il blocco di potere agrario borbonico protomafioso.
Appresa la notizia di un furto di bestiame con
sequestro di persona commesso la notte del 2 ottobre 1841 in una masseria della
lontana Mistretta (al confine con il territorio di Nicosia), l’implacabile
funzionario abruzzese fece cadere i sospetti ancora una volta su Filippo
Bentivegna, che il 19 ottobre fu costretto a darsi alla latitanza in attesa di
poter documentare la propria estraneità ai fatti che gli venivano imputati. Per
tutta risposta, il sottintendente si attivò per farlo inserire nella cosiddetta
«lista di fuorbando» provinciale (che autorizzava qualsiasi delinquente
prezzolato ad ucciderlo e riscuotere una taglia), e non senza notificare al
padre che si stava rendendo responsabile di «rigorose misure a carico della di
lui famiglia». A questo punto il giovane fuggiasco non potè fare a meno di
consegnarsi alla giustizia. Affrontò a testa alta il processo, che dopo lunghe
peripezie e non poche visite ispettive di un abile investigatore inviato dal
governo nelle sedi giudiziarie di mezza Sicilia, fu celebrato a Messina il 28
agosto 1844. Filippo Bentivegna fu naturalmente assolto. Ma il sottintendente
di Corleone «credette opportuno non farlo tornare in Patria, ma gli assegnò
domicilio forzoso in Palermo sotto la diretta sorveglianza di questo Prefetto di
Polizia». Per farla breve, a causa del veto del sottintendente amico dei
gabelloti e degli abigeatari, il povero mutilato non potè rientrare a Corleone
nemmeno il 27 agosto 1847, quando morì suo padre.
Vale la pena di aggiungere che le sue disavventure
segnarono anche il destino degli altri fratelli (Francesco, Giuseppe e
Stefano), che da quel momento divennero tra i principali esponenti della
cospirazione antiborbonica nella Sicilia occidentale e paladini della giustizia
sociale. Nella rivoluzione del 1848-49 i due fratelli maggiori, Francesco e
Filippo, ebbero un ruolo di primissimo piano nella fase eroica della lotta
armata. Il primo fu poi nominato comandante militare del distretto di Corleone
(di cui accettò la carica ma non lo stipendio) e, subito dopo, deputato al
parlamento. Filippo venne acclamato capitan d’arme del distretto e, benché
mutilato, lasciò il segno nella lotta ai malfattori che infestavano quel vasto
territorio circondato da quattro grandi boschi. L’uno e l’altro opposero armi
in pugno l’estrema resistenza alle truppe napoletane che si apprestavano a
riconquistare Palermo liquidando la memoria stessa dell’esperienza rivoluzionaria.
E quando poi furono chiamati a collaborare con la restaurazione borbonica, si rifiutarono
entrambi. A pagare per primo fu Filippo, che ritornò in carcere (nuovamente per
motivi di polizia) pochi giorni prima che nascesse il suo primo ed unico figlio,
Gilberto. Il resto lo sappiamo già.
L’11 settembre 1852 fu la volta di Giuseppe, cui fu
inflitta la condanna alla pena dei ferri a vita «come imputato di essersi
momentaneamente riunito nel 1850 [in occasione della rivolta di Nicolò
Garzilli] alla disciolta comitiva di Corleone per commettere reati». Ma già nei
primi giorni di dicembre 1851 anche Stefano, che pure doveva ancora compiere 17
anni, era stato arrestato e inviato al soggiorno obbligato a Palermo dal nuovo
sottintendente Gaetano Coffaro, cui era stato descritto come «giovane
sconsigliato e capace di trascorre qualche delinquenza». In forza di questo
marchio infamante di chiaro stampo reazionario, Stefano aveva corso addirittura
il rischio di avere assegnata come sede del soggiorno obbligatorio Catania,
dove si era trasferita sua madre in preda allo strazio per la brutta fine fatta
da Filippo.
Le traversie affrontate da Francesco, ho avuto modo
di raccontarle con dovizia di particolari. È però il caso di ricordare che
dall’autunno 1849 alla fine del 1856, l’ardimentoso corleonese (nato il 4 marzo
1820) fu a centro di quasi tutte le cospirazioni e le rivolte antiborboniche
nell’Isola. In occasione dello sfortunato tentativo di Nicolò Garzilli (27
gennaio 1850) aveva già mobilitato circa 2.500 contadini, i più svegli dei
quali, su sua indicazione e del mazziniano villafratese Stefano Scaccia,
avevano organizzato diverse azioni dimostrative nei mulini idraulici per
abolire la tassa sul macinato; altri reclamavano l’assegnazione delle terre pubbliche
usurpate. Nel dicembre 1851 Francesco diresse un assalto alle Grandi prigioni
di Palermo (Ucciardone) nel generoso ma vano tentativo di liberare 89 detenuti
politici. Costretto a vivere alla macchia dal gennaio 1850 al febbraio 1853, il
prode corleonese non esitò a svendere una cospicua fetta del patrimonio avito
per finanziare la cospirazione antiborbonica e soccorrere i poveri della città
e delle campagne.
Messia del riscatto sociale, «uomo di consiglio ed
azione, capace per l’energia del carattere e della parola a concitare le masse
ad avventati partiti», in quei tre anni di latitanza Francesco Bentivegna riuscì
a tessere una rete cospirativa estesa da Corleone a Sciacca, da Palermo a
Catania da Termini a Cefalù e Messina, da Catelvetrano a Marsala, a Menfi e
Monte San Giuliano. Rete che accomunava popolani e borghesi, studenti e
artigiani ambulanti, professionisti ed esponenti di vari ordini religiosi,
carrettieri e uomini di mare come Mario La Bianca che lo mise presto in contatto con
Mazzini, su segnalazione di Stefano Scaccia. Non a caso, incoraggiato dai moti
scoppiati in Italia e all’estero, nel 1853 Bentivegna tentò di fare insorgere
Palermo. Ma il tentativo fallì per la delazione di una spia borbonica, che il
19 febbraio aveva partecipato ad una riunione in un casolare della contrada
Santa Maria di Gesù, nell’agro palermitano. Furono arrestati i cospiratori di
mezza Sicilia. Lo stesso Bentivegna fu catturato nottetempo nella casa di una
tessitrice del quartiere Albergheria di Palermo. «Questa recrudescenza ne’
conati demagogici – commentò a caldo il luogotenente generale del re – è l’eco
de’ fatti di Milano, è l’eco del fatto più terribile di Vienna e forse […] è l’azione simultanea di
Mazzini, che coordina i tumulti in tutta Europa».
Resta nondimeno il fatto che, accusato «cospirazione
contro la sicurezza interna dello Stato, tendente ad eccitare i sudditi e gli
abitanti del regno», Francesco Bentivegna sarebbe stato fucilato se non fosse
intervenuta la Corte Suprema
di Sicilia, che trasmise le carte processuali alla Gran Corte Criminale di
Trapani. La quale, il 25 luglio 1856, nel clima d’isolamento internazionale in
cui si trovava il Regno di Sicilia per la guerra di Crimea, assolse tutti gli
imputati. Il prode corleonese tornò a casa il 2 agosto, ma non senza pagare una
forte mallevaria e restare a disposizione dell’ispettore di polizia Antonio
Pitino. Per quanto guardato a vista, il generoso capopopolo trovò comunque il
modo di organizzare (su mandato di Rosolino Pilo, Carlo Pisacane, Nicola
Fabrizi, Giuseppe Fanelli e non senza il tacito assenso del governo piemontese)
la rivolta del 22 novembre 1856 che vide levarsi in armi centinaia di contadini
di Mezzojuso, Campofelice di Fitalia, Villafrati, Ciminna e poi anche gli
antiborbonici di Cefalù guidati dai fratelli Botta e Salvatore Spinuzza, che
(liberato dal carcere) fu acclamato capo. Il risultato, come sappiamo, fu
disastroso. I soli condannati alla pena capitale furono più di trenta, tra i
quali il bisnonno di chi scrive, mastro Ciccio il sellaio (reo di aver portato
il tricolore) e Stefano Bentivegna. Ma i fucilati furono solo due: Francesco
Bentivegna (Mezzojuso 20 dicembre 1856) e Salvatore Spinuzza (Cefalù 14 marzo
1857). Tutti gli altri furono costretti a chiedere la grazia al re e se la
cavarono con diciotto anni di ferri da scontare con una grossa palla di piombo
attaccata alla caviglia nel forte di San Giacomo a Favignana.
Particolarmente barbaro fu il trattamento riservato a
Francesco Bentivegna. Tanto per cominciare, l’eroe fu fucilato davanti alla
porta della cognata Rosario Apàro, vedova del povero Filippo risposata con il
cav. Nicolò Di Marco. Il suo corpo rimase a lungo sul selciato senza nessun
riguardo. E solo per la pietà della popolana Caterina Calagna fu poi coperto da
un vecchio manto nero. Il resto è forse il caso di raccontarlo con le parole di
Alfonso Sansone:
.L’infame De Simone,
soldato codardo [che aveva comandato il plotone d’esecuzione], vietò onorata
sepoltura alla salma di un prode né permise, sprezzando le sacre ossa di un
morto, che fosse avvolta in una candida coltre, segno di riverenza ai
trapassati. Fecela, al contrario, buttare colla veste del condannato in una
specie di carnajo del convento di S. Antonino; intimorì quei frati, e lasciò
Mezzojuso fra il fremore sommesso dell’attonita popolazione. Alla partenza di
quel manigoldo, la baronessa Rosaria Aparo, volendo apprestare degna sepoltura
al corpo del cognato, si volse per aiuto al signor Nicolò Romano, caldo
patriota del quarantotto. Questi, messosi sollecitamente all’opera pietosa,
trasse dalla sua frate Antonio da Lercara, francescano, il quale, solo, di
notte, aprì colla massima circospezione il carnajo, ne tolse la salma del
martire, l’adagiò in una cassa, e la depose, coll’aiuto di altri due frati, in
una sepoltura della stessa chiesa, dove rimase, aspettando giorni men rei sino
a 1860, anno del nostro riscatto.
Le parole
dell’illustre storico non necessitano di commenti. Non è tuttavia ozioso
ricordare che, nel dare quelle rischiose disposizioni, donna Rosaria Apàro non
fu solo mossa dalla pietà per il cognato (che peraltro aveva tenuto a battesimo
assieme alla suocera suo figlio Gilberto), ma dovette rivivere il dramma di
quel terribile 21 luglio di cinque anni prima, quando le fu negato persino il diritto
di portare un fiore sulla tomba del marito torturato a morte dagli aguzzini del
tiranno. Recuperando il corpo straziato di Francesco, la giovane signora
cominciò a coltivare la speranza di poter assicurare almeno a lui degna
sepoltura. E così fu. Nel giugno 1860, quando Angelo Paternostro, governatore
del distretto di Corleone (fresco di nomina), propose di trasportare i resti di
Bentivegna nella città natale, i soli patrioti che tentarono di opporsi furono
quelli di Mezzojuso, che di quelle reliquie si sentivano i custodi naturali. Ma
tutti gli altri, e segnatamente quelli dei paesi vicini, si mostrarono subito
entusiasti di accompagnare (sabato 23 giugno 1860) all’ultima dimora nella
terra natia la salma del martire. Da poco liberato dai ceppi, che lo tenevano
inchiodato alla Fossa di Favignana, il mio bisnonno mastro Ciccio il sellaio ci
andò con il glorioso vessillo della libertà, che nel ‘56 aveva avuto l’onore e
il privilegio di portare e poi sotterrare, in attesa di tempi migliori, dentro
«un vaso di creta», nelle campagne di Villafrati. Ma lasciamo la parola a don
Spiridione Franco, cittadino di Mezzojuso, veterano del 1848, membro dello
Stato maggiore di Bentivegna e combattente nella battaglia di Palermo dal 27 al
30 maggio 1860.
Per ora […]
racconterò ai miei pietosi lettori le onoranze fatte nel 1860, dai Corleonesi,
e di [sic] molte persone dei vicini paesi, alle spoglie immortali di Francesco
Bentivegna. I di lui fratelli Giuseppe e Stefano Bentivegna liberati dalla
catena, che da parecchi anni portavano, accompagnati da un gran numero di
Corleonesi, corsero in Mezzojuso ripresero con gran pompa funebre, i sacri
avanzi di quella salma, e li condussero nella chiesa madre di Corleone, tutti
gli abitanti di ogni ceto di persone, andarono fuori dalla Città, ad incontrare
riverente [sic] il mesto, ma glorioso convoglio. Le campane di tutte le chiese
battevano il lutto, la banda cittadina suonava la marcia funebre. La commozione
ed il pianto furono generali, il dolore era immenso nel popolo quella acerba
piaga, il tempo solo lenir può, sanar giammai!
Celebrati i
funeri onori, che mai si sono visti in quel paese, chiusa e sigillata la cassa,
e degnamente collocata nella chiesa madre che viene spesso visitata da coloro
che giungono a Corleone. Sulla tomba sovrasta una bandiera, quella stessa che
il Bentivegna fece costruire in Villafrate il 23 novembre 1856 che portava e
conservò Francesco Labarbiera, come ho detto di sopra.
Le parole
di Franco meritano qualche precisazione. Ai funerali di Bentivegna erano
presenti anche personalità di primissimo piano della dittatura garibaldina, a
cominciare da Luigi La Porta
che era stato uno dei più stretti collaboratori di Bentivegna e poi comandante
di tutte le guerriglie d’insorti e stava per diventare ministro dell’Interno.
C’era suo fratello Stefano reduce da Favignana, ma non c’era Giuseppe, che
continuava a languire nelle Latomie di Siracusa finché il 22 ottobre non sarà
liberato da Garibaldi. C’era invece un altro eroe, già condannato a morte
perché nella rivolta del 1856 aveva portato «la bandiera colla quale si
sovvertiva l’ordine pubblico», e che meno di un mese dopo si sarebbe coperto di
gloria nella battaglia di Milazzo fino al punto di guadagnarsi sul campo i
gradi di «uffiziale del Battaglione detto di Bentivegna».
Era il mio bisnonno e si chiamava Francesco Barbera,
anche se nessuno l’aveva chiamato mai più così dal 1849, quando dalla sua Menfi
si trasferì a Villafrati e (per sfuggire ai rigori della restaurazione
borbonica) cominciò a camuffarsi sotto l’improbabile cognome “La Barbera ”, che per colmo di
sventura molti (compreso don Spiridione Franco) chiamavano “Labarbiera”. Il
tricolore del 1856 rimase sulla tomba di Bentivegna solo un anno. Poi fu tolto
dall’asta e avvolto attorno al feretro del martire. Nessuna lapide ricorda il
portabandiera della libertà e della giustizia sociale, che per essere
riconosciuto “danneggiato politico” ai sensi della legge dell’8 luglio 1882
dovette recarsi a Roma a piede. Mastro Ciccio il sellaio morì sotto falso nome
e fu inumato sulla nuda terra, non si sa bene in quale angolo del piccolo
cimitero di Villafrati.
Ben
vengano dunque i funerali di Stato in differita. Onore a Placido Rizzotto, la
cui tomba sarà il monumento simbolo a tutti eroi italiani senza nome, il
Pantheon dei martiri dimenticati. Onore alla Patria repubblicana, nata dalla
resistenza al nazi-fascismo, che vide il futuro sindacalista corleonese tra i
più motivati militanti! Onore alle nuove generazioni corleonesi impegnate sulla
trincea avanzata del riscatto del buon nome della città dei Santi Leoluca e
Bernardo, dei fratelli Bentivegna, di Bernardino Verro, di Placido Rizzotto e
di tutte le vittime della barbarie mafiosa.
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