di Roberto
Tagliavia
Il ritorno della violenza
anarco-brigatista e gli attacchi alle sedi di Equitalia sono il sintomo più
evidente di una rottura tra istituzioni e cittadini che segue alla lunga crisi
della politica. Quando la politica è incapace o tace la parola passa alle armi. E’ una verità dolorosa e
inquietante al cui punto estremo non c’è la soluzione dei problemi ma
un’escalation di violenza di cui ci avvertono le vicende della Siria di oggi,
del Libano o le tragiche vicende balcaniche di ieri. In Sicilia ci sono troppe armi
(vedi l’ultima agghiacciante scoperta dell’arsenale bellico dell’ex comandante
dei Vigili Urbani di Palermo, Pedicone) e dunque, qui più che nel resto
d’Italia per la presenza della rete mafiosa, il pericolo che determina la crisi
della politica impone una seria risposta democratica.
Il nesso tra violenza e crisi
politica sta, infatti, nel funzionamento o meno della democrazia: tanto più si dà
la possibilità di organizzare gli interessi secondo scelte largamente condivise
tanto meno la violenza è praticabile; tanto meno la voce della società può
esprimersi chiaramente, determinare ricambio di classe dirigente o modificare
le leggi che incidono sulla vita concreta di ciascuno, tanto più cresce l’esasperazione,
la diffidenza reciproca e la folle idea di difendersi dagli altri anche con la
violenza.
Ora non c’è dubbio che da più di
un decennio il progresso della democrazia italiana ha subito un rallentamento e
uno svuotamento: esiti referendari ignorati; sistemi elettorali che hanno
modificato la rappresentanza democratica, sostituendola con la designazione di
persone facilmente ricattabili da parte di segreterie di partito o circoli di
potere; elefantiasi burocratica, in grado di modificare e piegare il senso
delle leggi a vantaggio d’interessi parziali o particolari; proliferazione di
enti locali per polverizzarne il potere e corruzione per delegittimarne
l’autorevolezza.
La conseguenza è stata un
parlamento bloccato da leggi ad personam,
la conflittualità diffusa tra Stato e regioni, lo svuotamento dei partiti a
vantaggio di tribù elettorali prive di un disegno politico generale e l’ondata
di antipolitica. Era prevedibile, alla fine, anche una degenerazione nella
violenza.
La violenza, però, non ha mai
risolto alcun problema e quindi urge un colpo di reni, uno sforzo
d’intelligenza politica per ritrovare il senso civico, i valori della
cittadinanza e politiche che non vogliano “vincere”, ma “convincere”.
Non è facile. Anche in ambito
locale, il recente esito elettorale delle amministrative palermitane ci segnala
il problema: la sfiducia nel senso civico e di comunità e la tendenza a
esasperare la competizione piuttosto che la cooperazione hanno marcato il
confronto elettorale. Ciò ha determinato la proliferazione delle liste e,
infine, la prevalente tendenza plebiscitaria: il ricorso all’uomo “che sa fare”
o al giovane che “saprà cambiare”, piuttosto che a una comunità che si
organizza e che è capace di esprimere una classe dirigente all’altezza della
sfida dei tempi, con indirizzi politici differenti, ma in grado di offrire una
prospettiva di comune e condiviso interesse.
Il processo elettorale
palermitano sembra mantenersi, dunque, nel solco di quel leaderismo ricorrente
che ha saputo solo illudere ma non risolvere i problemi anzi, in qualche caso,
determinandone l’ulteriore aggravamento. Tendenza comoda e
deresponsabilizzante, utile a lasciar fare i fatti propri scaricando, poi, ogni
colpa sul santo da bruciare a fine della festa. Questo, però, è una ciclo di
destra dove anche il grillismo, come
il partito de “l’uomo qualunque”, o
la reazione dissacratoria e distruttiva alla Sgarbi (per non citare i
precedenti dannunziani), seguono il fallimento dei governi conservatori e
servono a distogliere dalla necessità di organizzare la democrazia e rafforzare
le forme di “partecipazione”.
Proprio in questa diversa
direzione e con una diffusa azione nella società, avrebbe dovuto rispondere una
sinistra rigorosa ed efficace, riaffermando regole e principi democratici funzionali
ai nuovi bisogni.
In Sicilia, invece, un vulnus ha ulteriormente
colpito il valore fondante delle elezioni, quando si è voluto ignorare il voto
regionale che aveva consegnato la vittoria al centrodestra.
Chi aveva sbagliato l’impostazione
della campagna elettorale della sinistra, non riuscendo a “convincere” i
siciliani, ha ritenuto di potere recuperare credito utilizzando gli spazi
offerti dalla crisi della maggioranza che aveva eletto Lombardo alla
presidenza.
Se è stato prudente evitare di
soffocare subito il confronto interno al centrodestra con una immediata
convocazione delle urne, se è stato giusto non distrarre dai nodi che erano la
causa della rottura nella maggioranza, se era corretto cercare di favorire la
maturazione e la verifica di programmi per nuove alleanze e per una sinistra
rinnovata, esiziale è stato non volere restituire quanto prima possibile la
voce agli elettori. E’ stato sbagliato l’insistito sostegno a un governo privo
di forza, ritenendo di potere dar vita a una difficile stagione riformista
senza la partecipazione della maggioranza dei cittadini.
Il Partito Democratico qui è
mancato, Nessuna capillare azione per coinvolgere masse più larghe e
consapevoli. Risultato: chiusi i canali della politica democratica sono venuti
fuori i “forconi”.
Per di più, a provare ad arginare
il fenomeno non sono stati i partiti ma industriali e sindacati dei lavoratori,
artigiani e commercianti, agricoltori e universitari, per la prima volta
insieme in una inedita e straordinaria manifestazione unitaria del primo marzo che
a Palermo, con oltre 20.000 partecipanti, chiedevano una svolta della politica
regionale a vantaggio dei produttori, anziché del clientelismo assistenziale.
Il sostanziale immobilismo che ha
seguito questi movimenti è stato, comunque, il segno di una incapacità della
politica ad uscire da modelli di ricerca del consenso inevitabilmente
clientelari, sia a destra che a sinistra.
Punto delicato in una democrazia:
la modalità con cui ricercare e ottenere il consenso, e la sua natura. Cosa
diversa è, infatti, un consenso portato da una esperienza collettiva e da un
progetto condiviso, altro è un consenso plebiscitario sull’onda emotiva, altro
ancora è la somma di consensi clientelari e corporativi.
Nel buio di una politica che non
sa leggere le trasformazioni e proporre soluzioni, hanno prevalso questi
ultimi, ma quello clientelare è un modello perdente e paralizzante in un’epoca
di ristrettezze finanziarie. Tanto che, in Sicilia, è culminato nella vicenda
di un bilancio ripetutamente impugnato dal Commissario dello Stato perché
fondato su presupposti insostenibili. In pratica, la bancarotta!
In questa bancarotta è anche la
vicenda Palermo, la capitale amministrativa di una Regione che non riesce a
immaginarsi altro futuro e insegue pericolosamente l’illusione che un
taumaturgo possa far ritornare i flussi di finanza allegra del passato. Basta
considerare con quanta disinvoltura i candidati tutti si sono esibiti
nell’elencare opere mirabolanti per la trasformazione della città. Come e con
quali mezzi nessuno sa.
In questo velleitarismo la
politica da lunedì al bar dello sport ha fatto il resto: vincere, vincere,
vincere… anziché “convincere”, unico verbo utilizzabile per una stagione
riformista.
Dunque, il ricatto elettorale di
una popolazione sempre più impaziente e disperata, dove ciascuno invoca in modo
corporativo il ripristino dei propri privilegi, finisce col devastare
ulteriormente la politica e il processo democratico, favorendo la tendenza alla
costituzione di tribù, di clan e clientele attorno a rais della politica,
funzionali a intercettare e distribuire risorse pubbliche.
Così, ancora oggi, solo questa
funzione è percepita come “politica” e nessun’altra, e poco importa se i
finanziamenti sono pochi, la forza di un politico sarebbe quella di difendere e
rafforzare i “suoi” comunque, anche a danno degli altri.
Altro che democrazia, altro che
senso civico e valori della cittadinanza, questo è lo scivolamento inesorabile
verso il tribalismo e il trionfo della mafia, con tutta la sua terribile
cultura di fedeltà, subalternità, paura e violenze.
Inquietante, in questa direzione,
è stato il depotenziamento del sistema delle primarie, la loro degenerazione in
un sistema tanto aperto da svuotare di senso i partiti e il valore della
militanza, consegnando le chiavi delle scelte non ai soli elettori ed
estimatori del partito ma alle manovre di truppe cammellate spostate con
cinismo da alleati interessati e possibilmente anche da avversari.
Un colpo alle primarie, un colpo al
PD, che lascia proseguire nel tatticismo chi ha già posizioni di forza.
Inquieta, in questo senso, quanto è successo dopo il voto per Orlando, quando
si è pensato di mettere in moto un meccanismo tecnico per impedire che il
probabile vincitore del ballottaggio potesse godere del premio di maggioranza,
previsto dalla legge per consentirgli di governare con maggiore serenità. Ancora
una volta una beffa delle regole convenute per stravolgere il valore della
scelta elettorale.
Per fortuna l’escamotage non è stato
accolto, ma preoccupa che sia stato sostenuto da autorevoli esponenti dello
stesso PD. E’ il segno di un’incomprensione del bisogno in questo momento della
storia sia necessario il rispetto della volontà popolare come premessa del
corretto funzionamento delle istituzioni e per un credibile rilancio di
un’altra idea di politica, fondata su cittadinanza e sul bene comune.
Molti, di fronte a questo si
ritraggono impotenti, e a questo sentimento viene attribuito l’abnorme crescita
del non-voto*. Che fare?
Abbandonare l’astensione e in
tutte le sedi associative aprire un confronto sulle sorti della democrazia,
mettendo in rete quanti oggi, al nord come al sud stanno facendo di questo tema
il centro della loro azione (penso a Zagrebelsky, o al nucleo promotore di
ALBA, fino allo stesso Folena) e a creare un moto opposto a quello che si
ritrae dall’impegno politico, stimolando, per quanto mi riguarda, semmai
l’invasione del PD, dei suoi circoli, dei suoi organismi dirigenti per farne
davvero quello che aveva promesso di essere: un partito democratico, strumento
per riorganizzare su basi non ideologiche le forze del progresso, del lavoro,
della produzione del nostro paese.
Palermo, 14 maggio 2012
*
Personalmente
attribuisco al non-voto un valore positivo. E’ l’espressione di chi ha voluto
mandare un messaggio a tutto il sistema politico che beffardamente ritiene di
poter continuare le proprie pratiche perché “tanto la gente deve votarci” e
quando c’è lo scontro lo spirito “militante” porta comunque a schierarsi e a
non fare mancare l’appoggio “alla propria squadra”. C’è in questo atteggiamento
la sicumera di essere possessori di un vessillo che automaticamente deve
indurre a combattere e chi non lo fa “tradisce”. Provo a immaginare quegli
italiani che abbandonarono i commilitoni al fronte di una guerra combattuta in
modo sbagliato e per principi sbagliati, che si rifugiarono in montagna.
Accusati di tradimento e di abbandono del fronte, in realtà volevano far
mancare il proprio sostegno a scelte sbagliate, ma tra quella gente nacque il
riscatto di una nazione nuova. In modo meno drammatico, vedo però nel non-voto
una ribellione uguale, ma serve un nuovo orizzonte, una prospettiva che induca
i non votanti a tornare a far sentire la propria passione civile.
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