Ancora aspettando il lavoro... |
e il sottobosco di illegalità dei siciliani ingaggiati, ma vittime di ricatti per non perdere la giornata
Mario Barresi Nostro inviatoPaternò. La puzza
che esce dalla marmitta di quel furgone sgangherato assorbe la scia d'aroma
intenso dell'espresso del bar. E persino il nitido profumo del pane appena
sfornato si mischia a quel fumo acre e scoppiettante. Dai finestrini sbirciamo
gli sguardi mesti di un gruppo di maghrebini, mentre altri fremono sul
marciapiede. Esce fuori un cinquantino nerboruto e nervoso. Di poche parole e
di gesti rapidi: tasta il bicipite del più vecchio, poi un cenno agli altri
due: salite a bordo. «Tu no, moviti femmu. Avanti,
partiamo!». E la sgommata del furgone che scompare sul vialone avvolge
quell'uomo nero dai capelli bianchi in una coltre di disperazione grigia.
Alle cinque meno un
quarto del mattino la vita sembra avere odori e sapori diversi dal resto della
giornata. E anche Paternò sembra un'altra cosa. Come se il paesone ai piedi
dell'Etna si rigirasse ancora nel lettone sperando che quanto accade sia
soltanto la protuberanza di un sonno inquieto. E invece no: alle 4,45 il
vecchio lasciato a piedi dal furgoncino ha già perso la sua giornata di lavoro.
Ovvero: 20 euro, se pagato a forfait; oppure 50 centesimi a cassetta d'arancia,
se a cottimo. Quel signore che gli ha tastato il muscolo e lo ha scartato è uno
dei "caporali" che governano i miserabili destini di migliaia di
braccianti agricoli dei paesi etnei. Almeno duemila quelli extracomunitari,
stimati per difetto, a cui si devono aggiungere centinaia di romeni. Eserciti
disperati che ogni mattina si contendono il pane con i braccianti locali. Che,
se ingaggiati, godono (si fa per dire) di una paga giornaliera di 40-45 euro
per lavorare in campagna dalle sette alle tre del pomeriggio. A Lentini, a
Scordia, a Palagonia: saltando su altri furgoni, in quest'ultimo scorcio di una
stagione disgraziata per gli agrumi e per le mani callose di chi li raccoglie.
Qualcuno si ritiene pure fortunato. «Ci è rimasto solo questo - ammette Mauro Aprile - e dobbiamo tenercelo stretto, perché con tutti questi stranieri che lavorano per niente qui fra un po' non ci sarà nemmeno questo». Dal panificio esce Alfio Ventura, bracciante di Paternò con moglie e una figlia da mantenere. Quella carta con dentro il panino se la coccola come un trofeo. E intanto fa i conti nelle sue tasche: «Già sono partiti i primi due euro e cinquanta, poi c'è il caffè, la benzina... Dei 45 euro che prendo ogni giorno cosa porto a casa, dopo che mi sveglio alle quattro e quando torno sono a pezzi. Poi magari qualche principale ci fa pure firmare la busta paga dove c'è scritto che ne prendiamo più di 60 euro...».
Il rapporto fra i lavoratori in regola e quelli in nero è di uno a uno. I numeri, sul sottile filo della stima empirica, li snocciolano i sindacalisti territoriali di Flai, Fai e Uila: sui 29.000 braccianti iscritti negli elenchi della provincia di Catania, di Forestale e Consorzi di bonifica, la manovalanza effettiva è di circa 18.000 persone; il "buco nero" di quelli senza diritti né tutela (compresi quelli che preferiscono restarci, in questo status) si aggira sui 22.000 in tutto il Catanese. «Ma sono stime per difetto - spiegano - considerando i fenomeni di migrazione interna: dagli agrumeti della Piana alle patate di Siracusa, fino alle serre di Vittoria».
Già, perché i braccianti locali - "privilegiati" rispetto a quelli stranieri, totalmente in nero - sono comunque vittime di un sistema che funziona come una macchina infernale per risparmiare soldi e cancellare diritti. Gli espedienti - raccontano - sono i più svariati. Per esempio con bonifici bancari di una cifra che copre ufficialmente 18-19 giorni dei 25 di fatto lavorativi. Oppure alle decine di pensionati, ex coltivatori diretti che continuano a spaccarsi la schiena in campagna magari per mantenere figli e nipoti, il datore di lavoro rilascia una (falsa) fattura di vendita di arance col corrispettivo di due settimane di salario. «Abbiamo provato a ribellarci - dice Alfredo Gioco, giovane di Adrano - e ci hanno convinti pure a fare lo sciopero con i forconi. Ma niente è cambiato, abbiamo solo perso dieci giorni di paga». Anche se c'è chi racconta di aziende in regola: «Il nostro principale - garantisce Nino Cavallo - ha sessanta dipendenti, tutti in regola. Facciamo i corsi sulla sicurezza, due pause ogni turno e ci sono pure i locali per la mensa. Ogni mese viene l'ispettore della Coop per controllare e lui vuole essere a posto perché se no quelli arance non ne comprano più».
Alle 6,20 s'è già capito che ci sarà una bella giornata. Coi primi bagliori di sole l'Etna sembra ancora più bianco. Come il furgone dei romeni (lo si capisce dalla targa) che si ferma al distributore di benzina. Proviamo ad avvicinarci, ma un giovane avvolto in una felpa col capuccio ci fa capire che non è aria. Qui il caporale è un connazionale, esce dal bar con un pacchetto di sigarette e la bocca impastata di caffè. Un'occhiata minacciosa e poi sale davanti, accanto al conducente. «Si sono fatti più furbi - raccontano i braccianti - perché si spaventano dei controlli: sanno dove andare, chi prendere e fanno tutto in pochi minuti». Guadagnando cinque euro per ogni "schiavo" assoldato, uno sporco tesoro giornaliero alimentato da centinaia di uomini silenziosi.
E chi riesce a salirci, su quei furgoni, è pure contento. Al fronte di 98 braccianti agricoli extracomunitari ufficiali, ci sono almeno 2.000 fantasmi che vagano per gli agrumeti. Kaled, tunisino di 23 anni, in tutta la stagione ha lavorato solo due giornate. Mettendo da parte 40 euro. «Mangio alla Caritas e aspetto. Loro, quei signori sanno dove trovarci e se non ci cercano significa che lavoro non ce n'è per nessuno». Accanto a lui il connazionale Salah, quarantunenne, ha fatto tornare moglie e figli in Tunisia: «Se la passano meglio lì. Io lavoro ogni tanto, nelle zone più brutte della campagna dove i siciliani non vogliono andare: 50 centesimi a cassetta, 30-40 carichi al giorno fino a quando non cado a terra». Accanto a lui ritroviamo il vecchio maghrebino, sì proprio quello scartato dal caporale poco prima dell'alba. E scopriamo che non è un vecchio. Alì Zacharia ha 46 anni, anche se ne dimostra trenta di più. È marocchino, vive in una baracca alle Salinelle assieme ad altre venti persone. Questa terra, per lui, è un miraggio che
24/04/2012
Qualcuno si ritiene pure fortunato. «Ci è rimasto solo questo - ammette Mauro Aprile - e dobbiamo tenercelo stretto, perché con tutti questi stranieri che lavorano per niente qui fra un po' non ci sarà nemmeno questo». Dal panificio esce Alfio Ventura, bracciante di Paternò con moglie e una figlia da mantenere. Quella carta con dentro il panino se la coccola come un trofeo. E intanto fa i conti nelle sue tasche: «Già sono partiti i primi due euro e cinquanta, poi c'è il caffè, la benzina... Dei 45 euro che prendo ogni giorno cosa porto a casa, dopo che mi sveglio alle quattro e quando torno sono a pezzi. Poi magari qualche principale ci fa pure firmare la busta paga dove c'è scritto che ne prendiamo più di 60 euro...».
Il rapporto fra i lavoratori in regola e quelli in nero è di uno a uno. I numeri, sul sottile filo della stima empirica, li snocciolano i sindacalisti territoriali di Flai, Fai e Uila: sui 29.000 braccianti iscritti negli elenchi della provincia di Catania, di Forestale e Consorzi di bonifica, la manovalanza effettiva è di circa 18.000 persone; il "buco nero" di quelli senza diritti né tutela (compresi quelli che preferiscono restarci, in questo status) si aggira sui 22.000 in tutto il Catanese. «Ma sono stime per difetto - spiegano - considerando i fenomeni di migrazione interna: dagli agrumeti della Piana alle patate di Siracusa, fino alle serre di Vittoria».
Già, perché i braccianti locali - "privilegiati" rispetto a quelli stranieri, totalmente in nero - sono comunque vittime di un sistema che funziona come una macchina infernale per risparmiare soldi e cancellare diritti. Gli espedienti - raccontano - sono i più svariati. Per esempio con bonifici bancari di una cifra che copre ufficialmente 18-19 giorni dei 25 di fatto lavorativi. Oppure alle decine di pensionati, ex coltivatori diretti che continuano a spaccarsi la schiena in campagna magari per mantenere figli e nipoti, il datore di lavoro rilascia una (falsa) fattura di vendita di arance col corrispettivo di due settimane di salario. «Abbiamo provato a ribellarci - dice Alfredo Gioco, giovane di Adrano - e ci hanno convinti pure a fare lo sciopero con i forconi. Ma niente è cambiato, abbiamo solo perso dieci giorni di paga». Anche se c'è chi racconta di aziende in regola: «Il nostro principale - garantisce Nino Cavallo - ha sessanta dipendenti, tutti in regola. Facciamo i corsi sulla sicurezza, due pause ogni turno e ci sono pure i locali per la mensa. Ogni mese viene l'ispettore della Coop per controllare e lui vuole essere a posto perché se no quelli arance non ne comprano più».
Alle 6,20 s'è già capito che ci sarà una bella giornata. Coi primi bagliori di sole l'Etna sembra ancora più bianco. Come il furgone dei romeni (lo si capisce dalla targa) che si ferma al distributore di benzina. Proviamo ad avvicinarci, ma un giovane avvolto in una felpa col capuccio ci fa capire che non è aria. Qui il caporale è un connazionale, esce dal bar con un pacchetto di sigarette e la bocca impastata di caffè. Un'occhiata minacciosa e poi sale davanti, accanto al conducente. «Si sono fatti più furbi - raccontano i braccianti - perché si spaventano dei controlli: sanno dove andare, chi prendere e fanno tutto in pochi minuti». Guadagnando cinque euro per ogni "schiavo" assoldato, uno sporco tesoro giornaliero alimentato da centinaia di uomini silenziosi.
E chi riesce a salirci, su quei furgoni, è pure contento. Al fronte di 98 braccianti agricoli extracomunitari ufficiali, ci sono almeno 2.000 fantasmi che vagano per gli agrumeti. Kaled, tunisino di 23 anni, in tutta la stagione ha lavorato solo due giornate. Mettendo da parte 40 euro. «Mangio alla Caritas e aspetto. Loro, quei signori sanno dove trovarci e se non ci cercano significa che lavoro non ce n'è per nessuno». Accanto a lui il connazionale Salah, quarantunenne, ha fatto tornare moglie e figli in Tunisia: «Se la passano meglio lì. Io lavoro ogni tanto, nelle zone più brutte della campagna dove i siciliani non vogliono andare: 50 centesimi a cassetta, 30-40 carichi al giorno fino a quando non cado a terra». Accanto a lui ritroviamo il vecchio maghrebino, sì proprio quello scartato dal caporale poco prima dell'alba. E scopriamo che non è un vecchio. Alì Zacharia ha 46 anni, anche se ne dimostra trenta di più. È marocchino, vive in una baracca alle Salinelle assieme ad altre venti persone. Questa terra, per lui, è un miraggio che
24/04/2012
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