Le osserviamo tutte, mentre il suo autore ci racconta le circostanze in cui ciascuna di essa è stata scattata, i personaggi noti e quelli meno noti “catturati” nei fotogrammi, gli scorci di paese, qualcuno dei quali irrimediabilmente perduto per l’imperdonabile incuria degli uomini. Ad integrare questi 85 scatti d’autore, in una sala attigua di sant’Agostino viene ininterrottamente proiettato un video con altre 180 foto. «Non mi sento un artista – dice Mario Cuccia – ma uno che fa documentari fotografici, dando la possibilità a tutti di ammirare riti, personaggi ed epoche, che rappresentano un pezzo di storia da tutelare». Ma non è vero che Cuccia non sia un artista. Lo è senza dubbio, come dimostrano tanti suoi fotogrammi, riprodotti sul bel catalogo della mostra, che si avvale dei testi e della consulenza storica di Nonuccio Anselmo.
Nei comuni siciliani la processione del Venerdì Santo ha una lunghissima tradizione, che ormai ha superato abbondantemente il mezzo millennio. La teatralizzazione della passione e morte di Gesù Cristo è stata introdotta nella nostra Isola dagli spagnoli, tra la fine del 1400 e i primi anni del 1500, e d’allora, pur tra alti e bassi, non è stata mai interrotta. Anche a Corleone attorno alla processione del Venerdì Santo si possono cogliere i segni di «Mezzo Millennio di Passioni». È stata raccontata per la prima volta qualche anno fa da Nonuccio Anselmo. Nuovi particolari, frutto di accurate ricerche d’archivio, sono emersi nel volume “I Fratelli. Il Venerdì Santo a Corleone tra fede e tradizione”, scritto da Francesco Marsalisi e Calogero Ridulfo. Caratteristica della processione del Venerdì Santo a Corleone è la presenza e il ruolo che vi svolgono le Confraternite e le Compagnie, composte da decine e decine di «fratelli», vestiti col tradizionale «cammisu» bianco, un lungo camicione bianco di lino, col capo coperto da un cappuccio, la cui estremità superiore è pieghettata a ventaglio e con una mantellina che ha un colore diverso per ciascuna di esse. Sono queste, insieme a migliaia di fedeli, che accompagnano Cristo al Calvario per la crocifissione e lo portano in processione per tutto il paese, dopo la deposizione dalla croce. Fu l’Arcivescovo Ludovico I de Torres, dopo essersi accertato, nel corso delle visite pastorali condotte nell’ultimo scorcio del XVI secolo, delle condizioni di grave carenza igienico-sanitaria in cui versavano le popolazioni, nonché delle serie difficoltà di ordine alimentare, ad organizzare il popolo, potenziando l’istituto delle Confraternite, delle quali, se da un lato si accettava la tutela degli interessi materiali dei congregati, dall’altro, per un dovere di crescita morale e spirituale, si stimolava l’opera di assistenza e cura di quanti erano incapaci di assolvere, spesso, alle minime condizioni di sopravvivenza. Insieme alle confraternite, l’arcivescovo promosse anche la nascita di ospedali in tutta la Diocesi , destinando a questo scopo delle specifiche risorse finanziarie. «Occorre tuttavia chiarire – spiegano Ridulfo e Marsalisi - che la cultura ospedaliera nella nostra città affonda le sue radici ai primi anni del Trecento», quando già risultavano la presenza degli ospedali «di San Giuliano, della Misericordia, di San Marco ed anche di Sant’Antonio… nonché quello di San Giovanni Evangelista». Erano dei piccolissimi e rudimentali ospedali, destinati fondamentalmente all’accoglienza dei viadanti. Solamente quelli di San Giuliano e della Misericordia «dovevano servire per la cura degli abitanti del posto».
Dino Paternostro
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