David Sassoli |
È la più antica delle battaglie di civiltà. Seppellire i propri morti. E rendere loro onore. Per questo, la mafia dopo aver ucciso Placido Rizzotto ha fatto in modo che il suo corpo non si trovasse più. E per questo ora che le spoglie ritrovate nella “foiba” di Rocca Busambra sono state identificate come sue, seppellirlo con il massimo degli onori è un atto necessario. Funerali di Stato, dunque, per il sindacalista della Cgil ammazzato mentre si batteva per i diritti dei contadini. «Non importa se sono passati sessantatré anni», scandisce David Sassoli, europarlamentare del Pd, il primo, insieme a Cesare Damiano, a lanciare, con un tweet, l’appello, seguito da tantissime adesioni, per le esequie di Stato. Un gesto che avrebbe un forte valore simbolico e che l’Italia non dovrebbe lasciare incompiuto.
Perché?
«Si dice che la mafia abbia la memoria lunga, ma la Repubblica deve averla ancora più lunga, per ricordarsi non solo dei propri eroi, ma anche delle persone che hanno fatto il loro dovere. Il tempo non importa. Purtroppo è successo e anche sessantatré anni dopo, la memoria della Repubblica deve essere molto viva».
Cosa significa oggi rendere omaggio a quel corpo ritrovato?
«Significa dare memoria a una persona che la mafia voleva scomparsa per sempre. I funerali di Stato sono il riconoscimento della sua battaglia ma rappresentano anche il riscatto per una intera comunità che si ritrova con le sue istituzioni e i suoi valori a rendere omaggio a un uomo ucciso dalla mafia».
Sono passati vent’anni dai funerali di Falcone e da quelli di Borsellino, la Terza Repubblica ha ancora bisogno di eroi contro la mafia?
«Certo, ma più che di eroi c’è bisogno di cittadini che fanno il loro dovere: la mafia è tutt’ora una grande minaccia per la nostra comunità e la vera antimafia è nelle loro mani. Al di là delle intermittenze dei media, questa è una lotta che si combatte tutti i giorni. Ed è un riscatto per la Sicilia se lo Stato ricorda che ci sono state persone che hanno pagato con la vita l’attaccamento ai valori della legalità».
Placido Rizzotto incarna quella lotta alla mafia che affonda le radici nelle ragioni sociali dei lavoratori.
«Rizzotto non era un siciliano che non pagava il pizzo, era un siciliano che voleva le regole della democrazia. La sua battaglia è tutta lì: nel suo essere fino infondo sindacalista, attaccato ai valori della democrazia che in quegli anni erano così giovani. Nella sua figura c’è un richiamo fortissimo a ritrovare le radici della Repubblica per essere forti e battere la mafia di oggi».
Più insidiosa di quando imbracciava la lupara?
«Certamente, molto diversa. Allora era al fianco degli agrari e imbracciava la lupara per fermare la rivendicazione dei contadini o dei lavoratori ad avere più diritti. Oggi naviga in internet, la ritroviamo in borsa, nei grandi appalti.
Uno degli strumenti adottati in questi anni per combattere la mafia, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, è ora pesantemente sotto attacco.
«Credo che una riflessione vada fatta, ma dire che questo strumento non è servito a nulla e va messo da parte è una sciocchezza».
Si aspettava tante adesioni al suo appello?
«Ho mandato spontaneamente quel messaggio in rete. E tante persone si sono sentite responsabilizzate dal mio gesto, nel Pd (lo stesso segretario Bersani) e non solo. Credo che il presidente Napolitano e il presidente Monti sapranno rilanciare tanta voglia di partecipazione e di spirito democratico».
A qualcuno potrebbero dare fastidio i funerali di Stato per Rizzotto?
«Con Luciano Liggio, individuato come il mandante dell’omicidio, c’erano Provenzano e Riina. A loro non farà piacere»
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