di Rosa Faragi
La notte del 26 gennaio 1976 fu una brutta notte, sotto tutti i punti di vista. Faceva un freddo cane, pioveva a dirotto e il buio della notte era a tratti squarciato da lampi che illuminavano, per un attimo e con una luce spettrale, la spiaggia e la costa di Alcamo Marina. Il rumore della pioggia e dei tuoni fecero da sottofondo a un dramma che si stava svolgendo in quel momento in una casermetta dei Carabinieri. Il mattino del giorno seguente, la scorta di polizia di un politico, stava percorrendo la strada statale Trapani-Palermo; nel superare la casermetta dei C.C. si resero conto che qualcosa non andava, la porta era aperta. Tornarono indietro e nel superare il cancello ebbero la certezza che qualcosa era accaduto. La porta non solo era aperta ma era stata forzata dall’esterno. Entrando ebbero la conferma dei propri sospetti: due corpi erano riversi nel pavimento cosparso di sangue. I due corpi erano dei due carabinieri in servizio in quella casermetta, l’Appuntato Salvatore Falcetta e il Carabiniere semplice Carmine Apuzzo di appena diciannove anni. I due probabilmente erano stati sorpresi nel sonno. Da un primo sopralluogo emerse che mancavano le divise e le pistole d’ordinanza dei due militari, più alcuni oggetti personali. Inoltre fu trovato a terra un bottone. Ancor prima che la notizia diventasse di dominio pubblico arriva una rivendicazione al centralino del giornale LA SICILIA. Una voce, in perfetto italiano, a nome di un fantomatico NUCLEO SICILIA ARMATA annuncia: “La giustizia della classe lavoratrice ha fatto sentire la sua presenza con la condanna eseguita alle 1,55 ad Alcamo Marina……….il popolo e i lavoratori faranno ancora giustizia di tutti i servi, carabinieri in testa, che difendono lo Stato borghese”. Il comunicato continua con le solite minacce, stile B.R., poco utili per l’inchiesta, salvo quando si accenna al bottone trovato nella scena del delitto “Il bottone perso da uno dei componenti del nostro comando armato che ha operato ad Alcamo Marina è una traccia inutile perché l’abbiamo preso da una giacca tempo addietro a Orbetello”. Come sapeva l’anonimo telefonista del bottone, visto che la stampa non né aveva ancora parlato? . Le indagini furono affidate al colonnello Giuseppe Russo (allora Capitano) del nucleo operativo di Palermo, stretto collaboratore del generale Dalla Chiesa. Quella rivendicazione telefonica un obiettivo lo raggiunse, orientò le indagini verso gli ambienti dell’estrema sinistra. I fatti successivi sembrarono confermare la giustezza di tale scelta. Il 13 Febbraio a un posto di blocco fu fermato un giovane alcamese Giuseppe Vesco alla guida di una 127 Fiat di colore verde. Durante la perquisizione gli fu trovata addosso una pistola; un'altra, una Beretta in dotazione ai carabinieri, era nascosta dentro la macchina ( in seguito quella pistola Beretta fu identificata come l’arma che uccise i due militari). La scoperta dell’arma del delitto fece pensare agli inquirenti di avere in mano l’assassino o uno degli uomini del commando omicida. Anche la figura di Giuseppe Vesco aderiva perfettamente all’ipotesi di un atto criminale terroristico . Infatti Vesco era conosciuto dalle forze dell’ordine come vicino ai gruppi anarchici. Certo come assassino lasciava un po’ perplessi, infatti aveva una mano amputata. I suoi primi comportamenti addensarono ancora di più i sospetti, infatti al primo interrogatorio si dichiarò “prigioniero politico” e del tutto estraneo alla strage. Ma dopo un’ ora di interrogatorio cominciò a fare le prime ammissioni. Per prima cosa fece ritrovare le armi, le divise e gli altri oggetti personali dei carabinieri uccisi in una stalla appartenente a Giovanni Mandalà, un bottaio di 38 anni residente a Partinico. In seguito fece i nomi dei componenti del commando assassino. Giuseppe Vesco confessò che, oltre a lui, facevano parte del gruppo : Gaetano Santangelo, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrandelli. I tre ragazzi, tutti di Alcamo e Giovanni Mandalà furono arrestati; tutti quanti, dopo essere stati interrogati, ammisero la loro colpevolezza. La versione ufficiale che i carabinieri diedero alla stampa fù la seguente :” La notte tra il 26 e il 27 Gennaio 1976 un commando di quattro uomini legati al terrorismo rosso si sarebbero avvicinati alla casermetta di Alcamo Marina . Giovanni Mandalà avrebbe forzato , con la fiamma ossidrica la porta e gli altri tre uomini sarebbero entrati dentro la casermetta sorprendendo nel sonno i due militari in servizio, il carabiniere semplice Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta, freddandoli a colpi di pistola. A sparare sarebbero stati Gaetano Santangelo e Vincenzo Gulotta mentre il quarto componente del gruppo, Vincenzo Ferrandelli, si sarebbe limitato a rubare le divise e le armi. Inchiesta Chiusa? Non proprio. Ciò che lasciava perplessi era l’età di tre dei componenti del commando. I due uomini che spararono, Santangelo e Gulotta , avevano rispettivamente 17 e 19 anni mentre il Ferrandelli aveva 16 anni. Francamente un’ operazione terroristica di questo genere richiedeva una preparazione militare , una freddezza e un’esperienza che un sedicenne, un diciasettenne e un diciannovenne difficilmente possono avere. Giuseppe Vesco, qualche mese, dopo ritratta tutto. Parla di confessioni estorte con la violenza e che le persone da lui denunciate erano innocenti. In alcune lettere scritte in carcere descrive dettagliatamente le varie torture subite durante gli interrogatori. Purtroppo tali accuse non furono nemmeno prese in considerazione dai magistrati, anche perché il 26 ottobre 1976, pochi giorni prima di essere sentito dagli inquirenti , Giuseppe Vesco si “suicida” portando nella tomba la sua verità. Nel 2008 un ex Brigadiere dei Carabinieri, Renato Olino, al momento dei fatti componente del nucleo antiterrorismo di Napoli , che in quei giorni partecipava alle indagini, si presentò spontaneamente al Procuratore di Trapani e dichiarò che quei giovani furono mandati in galera senza nessuna prova e che le “confessioni” furono estorte con la violenza e le torture. Proprio a causa di questi fatti dopo un poco diede le dimissioni dall’Arma dei Carabinieri. Eppure quelle confessioni estorte determinarono la condanna all’ergastolo di Giovanni Mandalà e Giuseppe Gulotta e una condanna a 20 anni per Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrandelli, al momento dei fatti minorenni. Tali dichiarazioni portarono la Magistratura alla revisione del processo. Nel frattempo Giovanni Mandalà , dopo aver scontato diversi anni di carcere era morto, Santangelo e Ferrandelli, tra un appello e l’altro, si erano rifugiati in Brasile dove non potevano essere estradati. L’ultimo degli imputati, Giuseppe Gulotta, che ha scontato in carcere 21 anni, recentemente è stato assolto dal Tribunale di Reggio Calabria. Punto e accapo. Chi ha ucciso i due carabinieri e soprattutto perché? E qui la fantasia dei cronisti si è scatenata. Qualcuno ha prospettato l’ipotesi che i due militari rappresentavano un pericolo a causa di qualche indagine che stavano conducendo; ipotesi poco credibile visto che Carmine Apuzzo, originario di Castellammare di Stabia, era entrato nell’Arma da solo un anno e si trovava ad Alcamo da pochi mesi , mentre l’Appuntato Salvatore Falcetta era in procinto di essere trasferito per motivi familiari. Recentemente, qualcuno ha tirato in ballo anche Peppino Impastato. E’ vero che la sua abitazione, subito dopo il fatto, fu perquisita( ma ciò rientrava nella normalità visto che si pensava che la strage fosse stata organizzata dall’estrema sinistra), e che Peppino scrisse in un volantino “ l’eccidio dei due carabinieri è stato eseguito da alcuni carabinieri e da parti deviate dei servizi segreti”, però nello stesso periodo diceva a Radio Aut che “ Il duplice omicidio di Alcamo era un avvertimento sanguinoso dato ai carabinieri per la loro conduzione delle indagini sul rapimento e l’uccisione di Luigi Corleo”. Abbiamo il sospetto che anche Peppino Impastato brancolasse nel buio come i Carabinieri. Dopo l’assoluzione di Giuseppe Gulotta qualcuno ha rispolverato la pista GLADIO. Secondo tale ipotesi Apuzzo e Falcetta, durante un posto di blocco, fermano un camion pieno di armi. I due militari vogliono vederci chiaro e portano i fermati alla casermetta per interrogarli. Invece, forse qualcuno che aveva visto la scena da lontano, penetra nella casermetta e uccide i due carabinieri e libera i fermati. Secondo tale ipotesi le armi erano destinati a GLADIO. Bella ipotesi, peccato che la presenza di Gladio nel trapanese è documentata a partire dagli anni 90, cioè almeno quindici anni dopo. Escludendo la solita pista passionale, non rimane altro che la pista sui rapporti mafia e politica. Trapani allora era una delle province a più alto tasso di mafiosità. I rapporti tra mafiosi e la D.C . erano più che un semplice sospetto ( vedi relazione La Torre ). Ecco perché l’uccisione del consigliere comunale di Alcamo, Antonio Piscitello, avvenuta nell’aprile 1995, ma soprattutto quella dell’assessore ai lavori pubblici dello stesso comune, Francesco Paolo Guarrasi ( ex sindaco ), avvenuta un mese dopo, fece grande clamore. Guarrasi non era un semplice assessore di Alcamo ma uno degli uomini più potenti della D.C. trapanese. La sua uccisione poteva significare che quell’equilibrio tra mafia e politica si era incrinato. La strage di Alcamo Marina poteva inquadrarsi, in questo contesto, come un salto di qualità nella strategia delle tensione, per costringere lo Stato, e perciò la D.C. a trattare. A conferma di ciò ci sarebbero le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Leonardo Messina che avrebbe parlato di confidenze ricevute da alcuni mafiosi trapanesi, che parlando della strage di Alcamo Marina la definirono “un tragico errore”. La strage era stata organizzata dai vertici mafiosi e affidata alla mafia alcamese. All’ ultimo momento arrivò l’ordine di sospendere tutto ma ormai era troppo tardi. Cosa era successo per ordinare, inutilmente, di sospendere l’operazione stragista? Forse si era trovato un accordo all’ultimo momento e perciò l’azione dimostrativa non era più necessaria. Non sappiamo, se questa è la verità, ma certamente, è un ipotesi plausibile. Rimangono però alcune domande che non trovano ancora risposte, per esempio, che ruolo ha avuto Giuseppe Vesco in questa vicenda? Chi era l’anonimo telefonista che, in buon italiano e senza inflessioni dialettali, rivendicò la strage?
Rosa Faragi
Nessun commento:
Posta un commento