Ignazio Buttitta |
L’esempio più forte è quello di Ignazio Buttitta che ha reso il siciliano lingua internazionale, lingua che non conosce limiti, che diviene il mezzo attraverso cui una poesia ricca di emozioni, spunti di riflessione incatena l’anima di chi la ode, immortale. Parlando di Ignazio è necessario usare il presente anche se è scomparso nel Settembre del vicino novantasette nella sua amata Sicilia. Nasce come autodidatta e, per mantenersi, svolge svariati mestieri; per preservare la moglie ed i quattro figli dai rischi della guerra si trasferisce in Lombardia. Ma il legame con la terra natia è troppo forte ed anche se vivendo al nord ha l’opportunità di confrontarsi con le menti colte dei letterati dell’epoca sceglie di scrivere i suoi componimenti in dialetto, sua lingua di latte, che lo “costringono” a ritornare in Sicilia. Ignazio odia trascrivere le sue poesie perché pensa che la vera poesia debba essere trasmessa oralmente da chi la compone, nell’immediatezza. Infatti nessuno meglio del poeta sa l’intenzione comunicativa delle parole che proferisce e per questo motivo svolge molto lavoro di piazza. Si rifà ai vecchi cantastorie siciliani che per secoli hanno tramandato i miti di Sicilia accompagnati solo da chitarra e da buona memoria. Tutti lo ammirano per questa sua gestualità, per il modo di porsi, di descrivere la gente nelle dediche, sempre così diretto. Solo dopo saranno tradotte le sue opere in Russo, Romeno, Francese … e si faranno accostamenti importanti a poeti e scrittori come Neruda, Prevert e Majakovskij, si parlerà anche di Nobel. Ignazio è poeta nel modo di pensare, parlare, camminare. Sciascia addirittura dice, nel modo di portare gli occhiali, sulla fronte, come se il suo istinto volesse uscire fuori ad osservare il mondo “in prima persona”. Buttitta parla di tutto nella sua poesia, tratta molteplici temi e non copre nulla d’oblio; perfino la sua vita è poesia per questo suo modo di poetare riceve l’appellativo di “poeta del popolo”. La natura di noi siciliani è sempre quella di nasconderci forse per paura di essere derisi, di affrontare ancora numerosi topoi ben radicati nelle mentalità ottuse. Infatti da circa vent’anni a questa parte nessuno fa parlare più ai propri figli il dialetto. Il dialetto non è la lingua dei poveri, dei contadini, dei mafiosi. Il siciliano è: orgoglio, ciò che di bello c’è rimasto dalle invasioni, ciò che ci deve spronare ad una coesione ed ad un’identità regionale, il simbolo della nostra forza non solo fisica ma soprattutto intellettuale. Rispecchiamoci in Buttitta, nei suoi versi, proviamo le sue stesse emozioni e capiremo che essere fieri di essere siciliani non è un peccato!
Francesca Naso - Trapani
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