lunedì, gennaio 02, 2012

Cultura e orgoglio: cosa resta della «città del mare» che ha perso il mare

Palermo, i quattro canti di città

di Giovanni Ciancimino

Diceva il prof. Cervellati: «In città il degrado urbanistico supera i limiti della sopportabilità». Per fortuna il «sacco» della città ha risparmiato il centro storico

Il fascino di Palermo è intramontabile. Ad onta degli sfregi subiti nel secondo dopo guerra, resta pur sempre una città regale. Una capitale. Non solo per i beni culturali. Sosteneva il prof. Luigi Cervellati, nell'ambito dello studio del Piano particolareggiato del centro storico, «il destino di Palermo, ancor prima della sua millenaria fondazione, è stato legato al suo ambiante naturale. Il mare e i monti. A Palermo il sole sorge, tra i monti dal mare, e declina, fra i monti nel mare». E purtroppo, come vedremo di seguito, la nuova Palermo del dopoguerra, quella del famoso sacco, condizionata dalla speculazione, si è sviluppata laddove non c'è il mare.
E neanche i monti. Una città di mare, senza mare. Il Piano regolatore del 1940, invece, prevedeva che si sviluppasse lungo il litorale del golfo che va da Romagnolo, a Bandita fino ad Aspra.  «Il nuovo Piano regolatore? In uno slogan il prof. Cervellati lo ha spiegato così: con amore per il passato, ma senza bieche nostalgie, con fiducia per il futuro, ma senza fughe in avanti ci stiamo conquistando il presente». Ma il danno ormai era stato fatto come ha ammesso lo stesso Cervellati: «A Palermo il degrado urbanistico sembra superare i imiti della sopportabilità».

E va rilevato che Palermo per i suoi beni culturali deve poco alla pubblica gestione della città. Anzi ne ha subito danni. Non a caso il suo patrimonio artistico e architettonico è soprattutto promanazione dei privati. Palermo ha avuto la fortuna di essere stata dimora della più denarosa, raffinata e colta aristocrazia siciliana: palazzi storici progettati con gusto da architetti di fama nazionale ed internazionale. Opere d'arte e musei privati. Aperti nel verde. Non è un caso che nell'Ottocento vantava spazi di verde tra i più ampi d'Europa.
E preferiamo soffermarci sugli aspetti urbanistici di questa città, perché sono la più tangibile espressione della cultura dei suoi abitanti e di chi l'ha male amministrata. E, purtroppo, nella fase più delicata dell'espansione di Palermo, l'espressione culturale prevalente degli amministratori della città era la distruzione. Demolizione anche di notte, era la parola d'ordine. E meno male che non si è riusciti a fare tabula rasa del centro storico, come sembrava l'orientamento ufficiale quando con la legge speciale varata dal Parlamento nazionale se ne profilava il cosiddetto sventramento.
L'espansione di Palermo è avvenuta molto rapidamente negli anni Cinquanta e in parte nei Sessanta: la nascita della Regione e la formazione della sua burocrazia con personale proveniente da tutta la Sicilia e l'esodo dalle campagne hanno provocato una richiesta di abitazioni eccezionale, mentre gli interessi di mafia e quindi della speculazione si spostava verso la città. 
Nel periodo del sacco, sono state quasi del tutto annientate le numerose borgate che costellavano la periferia della città. È stata la distruzione di un notevole patrimonio identitario, fatto di tradizioni, usi e costumi tutti differenti da una borgata e l'altra. Piccole comunità che vivevano la propria vita in un contesto sociale autonomo, con caratteristiche inconfondibili. Si pensi che il dialetto, la pronuncia cambiava da una borgata e l'altra. Anzi, da un rione e all'altro: chi aveva l'orecchio abituato ad ascoltarli, notava la differenza di linguaggio, di costumi ed abitudini tra i rioni del centro storico. Ora non si notano più o si notano meno perché le differenze sono impercettibili. Si parla meno il dialetto, più l'italiano. Ma tra gli abitanti della Vucciria e dintorni, quelli del Capo, di Ballarò le differenze c'erano. 
Poi sono nate le città satelliti: Borgo Nuovo, lo Zen, Borgo Ulivia ecc. La somma di trasferimenti, a volte anche coatti, da centri più degradati della città. Col risultato che si sono smembrati tessuti sociale, con relative culture e tradizioni, senza crearne altri. Le cosiddette città satellite o dormitori non saranno mai la somma di culture secolari, ma la somma di unità che si ritrovano insieme senza avere nulla in comune che li possa legare tra di loro. 
In occasione del grande esodo dal centro storico alle città satelliti, svolgemmo diverse inchieste giornalistiche: ebbene tra le persone da noi intervistate, tranne qualche eccezione, molti erano restii a lasciare le vecchie abitazioni, sebbene fossero dei tuguri. Ma vi svolgevano piccole attività artigianali. Ed allora quanto sarebbe stato meglio rivalutare il centro storico è lasciare intatto il tessuto sociale che vi si era tramandato da secoli? 
Ma la speculazione dei terreni prevaleva sul resto. E che dire del liberty palermitano? Per fortuna si è salvato quello del quartiere Littorio poi ribattezzato Matteotti. Ma quello di Via Notarbartolo è stato distrutto per far posto alla cementificazione selvaggia, con la costruzione di palazzoni architettonicamente insignificanti.
E proprio per via della speculazione o del sacco, la città nuova è sorta dove non doveva. Il Piano Regolatore del 1940 prevedeva che si dovesse sviluppare nella parte Sud-Est sul lungo mare e il retroterra di Romagnolo, Bandita ecc. Un concetto sano dal punto di vista ambientale: questa era e resta la zona climaticamente più salubre. Ed oltre tutto avrebbe dato a Palermo il ruolo che le spetta di città di mare.
La Sicilia, 31/12/2011

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