Vincenzo Consolo |
Non ho avuto la fortuna di conoscere Vincenzo Consolo, siciliano delle mie parti, visto che a separarci era il crinale delle vette aguzze delle Madonie, verdi di ulivi e sugheri che sfumano verso nord nella catena dei Nebrodi. Il suo paese si adagia ai piedi dei monti distendendosi verso il Tirreno, il mio rimane arroccato sulle cime più alte, a 1100 metri di altitudine. Da lassù però nelle limpide giornate di tramontana la vista corre sino al mare dove emergono due piccole isole delle Eolie, Alicudi e Filicudi, le stesse che Consolo dovette amare.
Non l’ho conosciuto di persona ma ho letto tutti i suoi libri diventando una sua ammirata lettrice. Retablo è stato il primo. Un piccolo volumetto che mi era stato regalato da un amico e che mi ha prima sorpresa, poi incantata e infine appassionata. L’ho letto e riletto senza stancarmi, cercando di assaporarne la musicalità, rapita dalla maestria della parola che si fa canto e lirismo, essenza e pregnanza; stupita dalla capacità di far rivivere il paesaggio attraverso l’incantato sguardo del viaggiatore che respira bellezza e cultura imbrigliato com’è nella forza della passione per Rosalia, un amore forte e violento che gli fa intravedere la sua amata persino nelle sculture barocche.
E barocco per preziosismi è il suo lessico sperimentale intriso di dialetto, in un intreccio inestricabile di lessico e vernacolo che riporta la lingua alle sue origini, alla Scuola Siciliana, al volgare, a quello che sarebbe potuto diventare la lingua italiana se a predominare fosse stata C’è in Consolo la bellezza della nostra lingua, con la sua straordinaria varietà semantica, la musicalità naturale, lingua che prima di essere parola è canto di sirene. Lo stesso canto che ammaliò Ulisse al ritorno alla sua Itaca. Lo stesso canto traboccante che Consolo si portò dentro per tutta la vita e che riversò nei suoi scritti. Tutti i suoi libri sono un ritorno alla Sicilia: Il sorriso dell’ignoto marinaio, le Pietre di Pantalica, Lunaria e Nottetempo casa per casa, premio Strega nel 1992, ambientato a Cefalù città trasformata dall’onda d’urto del turismo, dove per uno strana coincidenza ho trovato citate “le terre gerbide della famiglia Zangara”. Terra di musica e poesia,
Ed oggi piange uno dei suoi figli migliori,
Carmela Zangara
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