Dino Paternostro |
C’era una volta Salvatore Riina che insanguinò il suo paese, dannò la sua vita e finì i suoi giorni mostruosi in prigione. Ora c’è Salvuccio che viaggia da uomo libero, perché “ha pagato il suo debito con la giustizia”. Pochi spiccioli rispetto al deficit incolmabile di suo padre. Saprà il figlio imboccare una strada diversa e tenersi lontano da una tradizione criminale talmente orrenda? Oppure. C’era una volta Salvatore Riina. Oggi c’è Sara, di Bologna, nel laboratorio della legalità. Guarda un documentario in bianco e nero. Sussurra: “Se Totò Riina fosse mio papà, mi allontanerei da lui. E gli vorrei bene lo stesso”.
Comunque la raccontiate, la favola di Corleone, qualunque sia il finale, non prescinde mai dall’azzurro del principe o dall’alito del drago. Qui tutto è mafia o antimafia. In mezzo scorre il nulla. Mafioseria da volantino turistico, innumerevoli Al Pacino-Michael Corleone disseminati nei bar, americani che pretendono la musichetta del “Padrino”. Sì, perfino gli americani che vengono a cercare l’America di Amerigo Bonasera e Tom Hagen qui, ai piedi di San Leoluca e San Bernardo, glorie millenarie del luogo.
Salvuccio Riina solo con la sua libertà, dunque. Taccuini e telecamerine si sono precipitati in piazza Falcone e Borsellino, alla notizia. Hanno immortalato i vecchietti con la coppola, mentre biascicavano: Totò Riina? Nzu. Non lo conosciamo. Salvuccio? Un bravo picciottello… E sono ripartiti con una consolante certezza documentaristica. Corleone è sempre Corleone. Altri, invece, hanno stabilito che l’ex capitale della mafia si è trasformata nel giardino della legalità. Non si scappa. O sei un magistrato ammazzato cui la toponomastica ha scelto di tributare un naturale omaggio, o ti chiami Riina. Allora esisti. Gli altri sono i veri fantasmi del paese promosso a città grazie alla benevolenza del Presidente della Repubblica.
Antonio-Nino Iannazzo – il sindaco assurto agli onori della ribalta mediatica perché ha detto una coraggiosa ovvietà: “Riina jr qui non è gradito” – prova a prenderla alla lontana. Narra delle bellezze, della chiesa, dei santi Bernardino e Leoluca, nome, per contrappasso, scellerato se associato al cognome Bagarella. Stringe sul punto. Qual è la favola sincera di Corleone? Vincono i vecchietti con le pupille immobili e la coppola messa lì apposta per la fotografia? Trionfano i giovani, la rinascita, il popolo dei campi confiscati? Si può scrivere su una maglietta con orgoglio, “Born in Corleone”? “Siamo una comunità contraddittoria. La terra di Totò Riina e di Placido Rizzotto che si ribellò e pagò con la morte la sua rivolta. Siamo cambiati. Nessuno ha più paura di pronunciare la parola ‘mafia’. I nostri ragazzi hanno acquisito consapevolezza”. Nino Iannazzo è un sindaco non ancora quarantenne che ha chiuso le porte della comunità alla progenie di Totò. “Sì – spiega – ho detto che Salvuccio Riina non è gradito. Non è in gioco il fatto che abbia scontato la sua condanna. Io, da primo cittadino, devo pensare alla sostanza. Immaginiamo due vasi comunicanti, uno con l’acqua limpida della legalità, l’altro con la criminalità. Riina junior è un magnete capace, magari involontariamente, di attirare materiale umano nel contenitore sbagliato. La gente è disperata, senza lavoro. Io tappo le falle come posso. Salvuccio Riina ha carisma, è un pericolo. Non discuto ciò che è, ma ciò che può rappresentare. Vuole cambiare? Perché non è venuto da me? L’avrei ascoltato. Sarebbe stato un segnale importante”.
Iannazzo elenca gli episodi da incorniciare, da iscrivere ai moti carbonari della rinascita. Ripercorre la fiaba generosa dell’antimafia: “Corleone ha il marchio dei Riina e la cicatrice dei corleonesi che hanno combattuto contro le cosche, quando era più difficile. Io non ho paura e non sono un incosciente. I simboli qui sono più importanti che altrove. La notte bianca è stata meravigliosa. I miei concittadini hanno mangiato la pasta condita con il pomodoro delle coltivazioni che furono del boss. I giovani del Laboratorio della legalità esprimono una netta controtendenza”. Circa poster del “Godfather” nei bar, il sindaco Nino non si scandalizza. “Sono un modo per dissacrare picciotti e mammasantissima. Depotenziano la ferocia, prendono in giro. Anni fa, qui, nei discorsi al baretto la mafia nemmeno esisteva. Mi domando se il barista metta il disco del ‘Padrino’ quando il caffè lo ordina Salvuccio. E credo proprio di no”.
Al “Bar Central” il caffè è speciale, nella piazzetta del municipio. Dino Paternostro, personaggio pubblico e noto di sinistra, lo sorseggia con gusto. Su una panchina all’ombra, riflette: “A me le immaginette di don Corleone e dei suoi figli mi infastidiscono. Anzi, mi infastidivano. Ora sono più tollerante. Cosa nostra ci ha tolto tanto. Che qualcuno ci guadagni, se qualche turista abbocca, non mi scandalizza. È una forma di risarcimento. Si tratta pur sempre di figure cinematografiche e letterarie”. Dino indulge nell’elencazione obbligatoria dei santi. San Bernardo, San Leoluca. Fino al presente: “La battaglia culturale l’abbiamo vinta noi. I nostri giovani esprimono una condanna esplicita delle pratiche mafiose. Altro che vecchietti con la coppola. Ci sono state iniziative e lotte che hanno cementato il sentimento della giustizia. È un processo irrevocabile. Capitale della mafia o dell’antimafia? Non mi ritrovo nella secchezza di una formula che lascia fuori troppo. Corleone è una realtà in chiaroscuro. Salvuccio Riina non è Peppino Impastato. È l’unico maschio in circolazione dei suoi. E non credo nemmeno che sua madre lo voglia davvero lontano da qui. Ninetta Bagarella incarna la vestale di una vecchia mentalità. Non è più possibile mutare strada a un certo punto. Come cristiano lo spero. Come uomo non mi fido”.
Ma se Corleone può cambiare, il mondo pure può. A dispetto dei Michael-Al Pacino che fissano truci gli avventori mentre inghiottono il caffè. Chi sono i giovanotti di qui? Salvatore Ferrara ha disossato con pazienza le zolle già dei capimafia: “Sono undici anni di fatica, ormai. Ne ho quaranta. All’inizio appariva un’impresa impossibile. Siamo partiti da poco. C’è voluta tenacia, c’è voluta forza. Lo stereotipo è duro a tramontare, lo so. Eppure i passi in avanti sono evidenti”. Andrea Accordino è impegnato dal 2008. È un ventenne. “È stato bello incontrare i toscani che scendevano in Sicilia per darci una testimonianza nei campi confiscati. Ho cominciato così, per amicizia e curiosità. In seguito, ho maturato una profonda coscienza civile. Siamo afflitti da una maggioranza silenziosa, che non sta con nessuno. C’è una minoranza operosa che interviene nel tessuto sociale, goccia dopo goccia, per modificare le percentuali e ribaltarle”.
Giuseppe Crapisi dell’associazione “Corleone Dialogos” sponsorizza un tour differente nei luoghi della legalità. Dai terreni, alle botteghe, al laboratorio. Giuseppe concorda con il sindaco: “I simboli sono essenziali. Qui ci sono gli studenti di Bologna. Hanno trovato una Sicilia diversa da quella che si aspettavano. Questa è la bottiglia di vino dedicata a Placido Rizzotto. Il suo corpo non è stato mai scoperto. Noi, però, possiamo toccarlo”. Walter Bonanno lancia una freccia nel petto della banalità: “Non si può raccontare Corleone senza capirne i mutamenti. I ragazzi non hanno più il capo dei capi nello scaffale degli idoli. I rampolli di Riina? Uno in carcere, uno è uscito da poco. Provenzano, con tutti i suoi soldi, sopravviveva da eremita in una casupola. L’esistenza all’ombra della mafia è un fallimento”. Una palazzina a tre piani, cuore delle attività di “Dialogos”. A piano terra i quadri di Giuseppe Porcasi, pittore della cronaca. Pugnalate di colore rosso. Un mafioso con gli occhiali scuri inchioda i piedi di un Cristo in croce, a corredo del martirio di don Puglisi. Falcone e Borsellino ritratti ovunque. C’è un quadro di Porcasi nella stanza “ufficiale” di Nino Iannazzo: “Lo tengo apposta – chiarisce il sindaco – affinché uno, entrando, comprenda subito con chi ha a che fare”. I simboli sono tutto. Nel laboratorio di Crapisi e dei suoi fratelli, Porcasi ha ritratto l’arresto di Binnu Provenzano, in una esplosione di toni fra i capelli bianchi del capo sconfitto e la barba nera del poliziotto che gli mise le manette ai polsi. C’è il viso affilato di Libero Grassi. C’è un carabiniere. Una domestica mitologia in un piccolo eroismo quotidiano che non ha mai chiesto di diventare grande e di morire per forza. Ma ha saputo affrontare le conseguenze di un cammino retto. C’è una sagoma di Dalla Chiesa. Una di Borsellino a dimensioni quasi normali. E ti pare che passeggi. E ti sembra di incontrarlo in via D’Amelio, il giudice, con la sigaretta all’angolo delle labbra, l’aria sorniona. In via D’Amelio, un secondo prima.
Al primo piano della palazzina, Maria, volontaria dell’associazione, spiega la differenza che c’è tra i baffi di Vito Ciancimino e i baffetti di Paolo Borsellino. “Ecco, questo è Ciancimino, un corleonese cattivo”. Significa che ci sono i corleonesi buoni. Gli studenti di Bologna osservano un vecchio filmato di Gianni Bisiach. Voci reticenti. Lingue legate. Mani che negano. Omertà. I vecchietti di trent’anni fa simili ai vecchietti del presente. Giuseppe Crapisi chiacchiera: “Sono perplesso. Quelli del Nord non vogliono il giovane Riina. Sostengono che è Cosa nostra, noi non lo vogliamo nemmeno. Se potessi prendere un caffè con Salvuccio gli chiederei: perché non offri dei segnali concreti di rinascita? Cercati un lavoro. Contribuisci a ricostruire le macerie create da tuo padre. Avrà mai il fegato?”. Un caffè buono, senza Michael o Sonny alle spalle.
Dino Paternostro è scettico e non solo lui. C’è un’etichetta della malvagità, incancellabile, con tutta l’umana comprensione. Le ferite sono fresche. Le bestie macellate e appese a un gancio nelle carnezzerie della città già paese riportano alla memoria il sangue versato dalle vittime, sotto il coltello del Corto e dei suoi. I buchi non si rimarginano presto.
I ragazzi di Bologna scrutano intorno con gli occhi degli astronauti dopo l’allunaggio. Parla Alice: “Qui non è come ci hanno raccontato a scuola. Viverlo fa un altro effetto”. Un po’ come combattere le guerre puniche che si studiano sui libri? Alice sorride. Si narra di Lucia, la giovane figlia di Totò, sposa qualche tempo fa. Sara riflette: “Se fossi io la figlia di Riina gli vorrei bene e mi allontanerei da lui”. Amare e andare via. Vivere e morire. Sembra possibile. Non c’è contraddizione, né errore. Non c’è follia, a diciassette anni.
Livesicilia.com, 15.01.2012
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