di Marco Travaglio
20 anni di trattative (almeno tre) minuto per minuto nelle ultime indagini dei pm di Palermo, che interrogano politici e funzionari della Prima e della Seconda Repubblica.
Qualcuno trattò con la mafia per una malintesa “ragion di Stato”, qualcun altro per salvarsi la pelle, altri ancora per fermare le stragi di mafia che avevano messo in ginocchio l’Italia, altri infine per favorire Cosa Nostra in cambio di voti. Ma il risultato delle trattative – che sono almeno tre, nel biennio terribile 1992-1994 – fu comunque devastante: Cosa Nostra, che con la svolta terroristica di Riina, di Bagarella e dei Graviano, aveva gettato le basi per la sua fine, rinacque a nuova vita, grazie a una formidabile arma di ricatto sulla politica tutta: una cambiale che forse non ha ancora finito di incassare dallo Stato.
Ecco l’agghiacciante conclusione a cui è giunta la Procura di Palermo nell'indagine sui negoziati Stato-mafia che fecero da sfondo alle stragi del 1992-‘93 e che hanno condizionato la politica negli ultimi 17 anni. Di questo ha parlato o dovrà parlare nei prossimi giorni davanti ai pm una lunga fila di politici, ufficiali dei Carabinieri, dirigenti delle forze dell’ordine e del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap). In veste di testimoni, con l’obbligo di dire la verità. Possibilmente, tutta.
1985-1987. Il rapporto di pacifica convivenza tra lo Stato e Cosa Nostra entra bruscamente in crisi quando il Pool antimafia di Falcone, Borsellino e altri valorosi magistrati alza il tiro delle indagini e, col maxi-processo alla Cupola nato dalle rivelazioni dei primi pentiti Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno e Nino Calderone, comincia a occuparsi anche di politici: Vito Ciancimino e i cugini Nino e Ignazio Salvo. Con l’arresto dei primi intoccabili, tutti dirigenti della Dc siciliana, ben si comprende che nulla sarà più come prima.
1987. La reazione di Cosa Nostra al maxi-processo non si fa attendere: la mafia decide di punire la Dc dirottando i suoi voti in Sicilia sul Psi e, in misura minore, sui Radicali (ritenuti utilissimi per il loro ipergarantismo). Per agganciare Craxi, o qualcuno del suo entourage, nel novembre 1986 il boss catanese Nitto Santapaola organizza un attentato dimostrativo alla villa milanese di Silvio Berlusconi, in via Rovani, nel tentativo di usare come tramite un vecchio amico dei mafiosi ben inserito in casa del Cavaliere: Marcello Dell’Utri. Alle elezioni politiche del 1987 la mafia vota e fa votare per il Psi, che in Sicilia candida come capolista Claudio Martelli. Nel 1989 gli attentati mafiosi a Catania contro i grandi magazzini Standa (all’epoca di proprietà di Berlusconi), interrotti – secondo i giudici – grazie alla mediazione del solito Dell’Utri.
1991. Il rapporto coi socialisti delude Cosa Nostra, che torna ad appoggiare la Dc alle elezioni siciliane, facendo eleggere deputato regionale – sempre secondo i magistrati – l’andreottiano Giuseppe Gianmarinaro. Anche perché i cugini Salvo e il plenipotenziario di Andreotti nell’isola, Salvo Lima, hanno garantito che il maxi-processo verrà annullato in Cassazione dal solito Corrado Carnevale, detto l’“Ammazzasentenze”.
1992, gennaio. Grazie alla rotazione dei presidenti alla Suprema Corte – sollecitata dal ministro della Giustizia del governo Andreotti, Claudio Martelli, su input del direttore degli Affari penali Giovanni Falcone – a presiedere il collegio del “maxi” non è Carnevale, ma Arnaldo Valente. Il 30 gennaio la Corte conferma le condanne dei boss, molti dei quali non usciranno vivi dal carcere.
1992, febbraio-marzo. La reazione di Riina, delegittimato agli occhi dei padrini detenuti e dell’organizzazione tutta, contro i politici che l’hanno “tradito”, è rabbiosa e feroce: il 12 marzo fa assassinare l’eurodeputato Salvo Lima e, pochi mesi dopo, l’altro garante del patto non rispettato, Ignazio Salvo (il cugino Nino è morto per conto suo qualche mese prima). Ma nel mirino del capo dei capi ci sono anche altri politici considerati “traditori”: i siciliani Calogero Mannino (Dc, ministro del Mezzogiorno nel governo Andreotti), Carlo Vizzini (Psdi, ministro delle Poste e Telecomunicazioni), Sebastiano Purpura (Dc corrente Lima, assessore regionale al Bilancio) e Salvo Andò (dirigente socialista catanese e futuro ministro della Difesa), più Claudio Martelli (Psi, ministro della Giustizia, eletto in Sicilia nel 1987), e l’allora premier Giulio Andreotti, senatore a vita e favoritissimo per il Quirinale (la cui corrente ha la sua magna pars nell’isola). Gli interessati lo sanno in tempo reale. Il 16 marzo, in una nota riservata del capo della Polizia Vincenzo Parisi che cita una fonte anonima e che è stato rinvenuto di recente dagli inquirenti, si legge: “Sono state rivolte minacce di morte contro il signor Presidente del Consiglio e i ministri Vizzini e Mannino... Per marzo-luglio campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi et Pds, nonché sequestro et omicidio futuro presidente della Repubblica (Andreotti, ndr)... Strategia comprendente anche episodi stragisti”. Quattro giorni dopo, in commissione Affari costituzionali del Senato, il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti parla di un “piano destabilizzante” contro lo Stato. Tangentopoli intanto, detonata il 17 febbraio con l’arresto di Mario Chiesa, demolisce dalle fondamenta una classe politica che non si regge più in piedi. Cosa Nostra si attiva subito per crearsi nuovi referenti politici intorno a vaghi progetti secessionisti (le famose “leghe meridionali”), sul modello della Lega Nord che spopola nel Lombardo-Veneto.
1992, aprile-maggio. Accantonato il progetto di eliminare Andreotti, o uno dei suoi figli, a causa delle eccezionali misure di sicurezza, Riina ordina di eseguire una condanna a morte emessa da tempo: quella contro il simbolo del “maxi”, Giovanni Falcone. “Quando venne ucciso Lima – racconterà Giovanni Brusca – Riina mi disse che Ciancimino e Dell’Utri si erano proposti come nuovi referenti per i rapporti con i politici”. Il 21 maggio Paolo Borsellino rilascia una clamorosa intervista a due giornalisti francesi di Canal Plus, in cui parla di vecchie e nuove indagini sul mafioso Vittorio Mangano, già “stalliere” ad Arcore, e sui suoi rapporti con Berlusconi e Dell’Utri. L’intervista non va in onda (verrà scoperta da Rainews24 solo nel 2000), ma è probabile che giunga agli orecchi dell’entourage berlusconiano, visti i rapporti della Fininvest col mondo televisivo francese. Due giorni dopo, il 23 maggio Falcone, la moglie e la scorta saltano in aria a Capaci: proprio alla vigilia della prevista elezione di Andreotti a presidente della Repubblica. Il senatore, messo kappaò dall'uno-due Lima-Falcone, deve cedere il passo all’ex ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro.
1992, giugno. Il giorno 8 i ministri Scotti e Martelli firmano un durissimo decreto antimafia che perfeziona il 41-bis, l’articolo dell’ordinamento penitenziario che regola l’isolamento carcerario per i boss: il Parlamento ha due mesi di tempo per convertirlo in legge, ma i partiti, asciugate frettolosamente le lacrime per Capaci, non paiono granché intenzionati a farlo. Intanto Scalfaro incarica Giuliano Amato di formare il nuovo governo (anche Craxi è ormai fuori gioco e attende il suo primo avviso di garanzia per Tangentopoli). Negli stessi giorni Marcello Dell’Utri, presidente di Publitalia e braccio destro di Berlusconi, avvia il “progetto Botticelli”: incarica Ezio Cartotto, consulente di Publitalia ed ex esponente della Dc lombarda, di studiare un’iniziativa politica della Fininvest per sostituire i vecchi referenti partitici del gruppo, travolti dagli scandali e giudicati inservibili. Anche lui insomma, come Cosa Nostra, si attiva per riempire il vuoto politico. Frattanto il capitano Giuseppe De Donno del Ros dei Carabinieri aggancia Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo “don” Vito, durante un viaggio aereo, comunicandogli che il suo superiore, colonnello Mario Mori, vicecomandante del Ros, vuole incontrare suo padre per vedere come si possano fermare le stragi. Parte quella che non solo Ciancimino jr. e numerosi mafiosi pentiti, ma anche i magistrati considerano la prima vera e propria trattativa fra lo Stato e la mafia. Da quel momento Vito Ciancimino diventa il tramite fra il Ros e il vertice di Cosa Nostra, rappresentato da Riina e Bernardo Provenzano (Ciancimino è legatissimo soprattutto a quest’ultimo). Nonostante le smentite di Mori, i magistrati si sono convinti che Mori avesse avviato i primi colloqui con Ciancimino già prima della strage di via D’Amelio, cioè almeno a metà giugno. Riina è felicissimo: come racconta Giovanni Brusca, in una riunione tenuta nei primi giorni di luglio, “Riina andava mostrando orgoglioso un papello con una serie di richieste: dall’abolizione del carcere duro alla revisione dei processi” e ripeteva: “Lo Stato finalmente si è fatto sotto, gli abbiamo fatto un papello così”. Il papello di Riina viene consegnato ai Ciancimino dall’intermediario Antonino Cinà, medico legato a Cosa Nostra. Don Vito ne passa subito una copia – come racconta il figlio – al fantomatico “signor Carlo” o “Franco”, uomo dei servizi segreti che segue come un’ombra l’ex sindaco. A sua volta Carlo-Franco, sempre secondo Massimo, fa avere il papello a Mori (che nega di averlo mai visto e “data” i primi colloqui con Ciancimino soltanto dopo la strage di via D’Amelio). Il papello contiene le richieste della mafia allo Stato in cambio della fine delle stragi: via il 41-bis (appena istituzionalizzato dal decreto Scotti-Martelli), i benefìci ai pentiti, l’ergastolo e il sequestro dei beni ai mafiosi, norme per consentire ai mafiosi la “dissociazione come le Brigate rosse” e la revisione del “maxi”, e così via. Fra il 17 e il 19 giugno 1992 Martelli avverte Paolo Borsellino – che indaga forsennatamente sulla morte di Falcone – dei colloqui in corso fra il Ros e Ciancimino, e lo fa attraverso Liliana Ferraro, la giudice che ha sostituito Falcone al ministero. La Ferraro incontra il magistrato in una saletta dell’aeroporto di Fiumicino. Subito dopo vede anche il futuro ministro della Difesa Salvo Andò. “Mio marito – racconta Agnese ai pm – non mi fece partecipare all’incontro con la dottoressa Ferraro. E non mi riferì nulla, salvo quanto detto dal ministro Andò: cioè che era giunta notizia da fonte confidenziale che dovevano fare una strage per uccidere Paolo con l’esplosivo. Mi disse che era stata inviata una nota alla Procura di Palermo al riguardo, e che Andò, di fronte alla sorpresa di mio marito, gli chiese: ‘Come mai non sa niente?’. In pratica, la nota che riguardava la sicurezza di mio marito era arrivata sul tavolo del procuratore Giammanco, ma Paolo non lo sapeva. Paolo perse le staffe, tanto da farsi male a una delle mani che, mi disse, batté violentemente sul tavolo del procuratore”. Intorno al 25 giugno Borsellino incontra Mori, ma non nel suo ufficio in Procura, bensì in un luogo più defilato: la caserma dei Carabinieri di via Carini a Palermo. Mori oggi nega che si sia parlato dei suoi colloqui con Ciancimino, ma i pm non gli credono: è altamente improbabile che Borsellino, appena informato dalla Ferraro, non abbia chiesto spiegazioni al diretto interessato. Anche perché quei “colloqui” tra mafia e pezzi dello Stato erano diventati una delle sue ossessioni.
Il 28 giugno si insedia il governo Amato. Pressioni indicibili per rimuovere Vincenzo Scotti dall’Interno e Claudio Martelli dalla Giustizia: cioè i due ministri di Andreotti che, nell’ultimo biennio, sotto l’impulso di Falcone al ministero, hanno varato dure leggi antimafia. Martelli punta i piedi e riesce a farsi confermare Guardasigilli dal Psi. Invece la Dc scarica Scotti, dirottato agli Esteri e rimpiazzato al Viminale da Nicola Mancino, considerato a torto o a ragione più “morbido”, forse perché esponente della sinistra Dc, la corrente di Calogero Mannino. Quello stesso Mannino che Riina voleva eliminare. Lo racconta Brusca, nelle sue recentissime dichiarazioni dinanzi ai pm: “Era stata stilata una lista di politici da uccidere. Per Mannino avevo già avviato gli appostamenti, poi a metà luglio fu bloccato tutto”. Oggi, a insospettire i pm, ci sono gli ottimi rapporti esistenti fra Mannino e l’allora comandante del Ros, generale Antonio Subranni, agrigentino di adozione mentre Mannino lo è di nascita. Un ulteriore elemento che potrebbe spiegare la trattativa del Ros come un tentativo dei politici nel mirino di salvarsi la pelle. La vedova Borsellino, Agnese, racconta che poche ore prima di morire il marito le confidò che Subranni era addirittura “punciutu”, cioè affiliato a Cosa Nostra (l’interessato ovviamente smentisce). Martelli ricorda di essersi “lamentato col ministro dell’Interno Mancino della condotta del Ros: ‘Che stan facendo questi? Perché pigliano iniziative autonome?’”. Mancino nega pure quel colloquio.
1992, luglio. Il giorno 1 Borsellino è a Roma per sentire un nuovo pentito, Gaspare Mutolo, che da tempo chiede di parlare con lui, ma che solo ora Giammanco l’ha autorizzato a interrogare. Mutolo preannuncia a Paolo che parlerà dei rapporti con Cosa Nostra di uomini delle istituzioni: il numero tre del Sisde Bruno Contrada e il giudice Domenico Signorino. Durante l’interrogatorio, Borsellino viene convocato d’urgenza al Viminale, dove si sta insediando il ministro Mancino. Il giudice incontra sicuramente il capo della Polizia Vincenzo Parisi e quel Contrada di cui Mutolo gli aveva appena parlato e di cui da anni il giudice diffidava, come pure Falcone. È pure certo – lo testimonia il collega Vittorio Aliquò, che lo accompagnava – che Borsellino viene condotto fin davanti all’ufficio di Mancino. Il quale però nega di averlo incontrato, se non forse per una sbrigativa “stretta di mano”. Sta di fatto che, tornato da Mutolo, Borsellino è sconvolto, fuma due sigarette alla volta, confida al pentito di aver appena visto Contrada. E quella sera, sul suo diario (l’agenda grigia, ritrovata dagli inquirenti diversamente da quella rossa, scomparsa dalla scena di via D’Amelio), annota “ore 18.30 Parisi, ore 19.30 Mancino”. Mancino smentirà anche l’agenda di Borsellino.
Sul fronte mafioso, Riina è deluso per lo stallo della trattativa, forse per il cambio di governo, o forse per l’azione di disturbo messa in campo da Borsellino che non ne vuole sapere. Sta di fatto che confida a Brusca, come riferisce quest’ultimo: “Si sono rifatti sotto. Bisogna dare un altro colpetto per convincere chi di competenza a trattare”: cioè alzare il tiro e dunque il prezzo della trattativa, visto che il papello era giudicato “troppo esoso”, e indurre lo Stato a più miti consigli con una nuova, terribile, spettacolare prova di forza. Come? Con l’assassinio di Borsellino, che si sta mettendo di traverso sulla strada della trattativa. “Le trattative esistenti furono – aggiunge Brusca – la causa determinante dell’accelerazione del progetto di eliminazione del dottor Borsellino. Sotto sotto, siamo stati pilotati dai Carabinieri”. Borsellino confida alla moglie che gli “resta ancora poco tempo” e intensifica furiosamente i ritmi di lavoro per venire a capo dei retroscena di Capaci. Sabato 18 luglio – ricorda Agnese – “feci una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza la scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò accadesse. Pochi giorni prima di essere ucciso, si confessò e fece la comunione... Mio marito mi disse testualmente che ‘c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato’. Me lo disse intorno a metà giugno. Nello stesso periodo mi disse che aveva visto ‘la mafia in diretta’, parlandomi di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato”. Fra i quali, secondo Agnese, Subranni. Domenica 19 luglio Borsellino e i suoi uomini saltano in aria in via D’Amelio, davanti alla casa dell’anziana madre del magistrato dove, nonostante i ripetuti solleciti della scorta, nè Giammanco né la Prefettura né la Questura hanno vietato il posteggio alle auto. Sulla strage le forze dell’ordine attuano una spettacolare operazione di depistaggio, per far ricadere la colpa su alcuni quacquaracquà della manovalanza criminale, come i falsi pentiti Scarantino e Scandura: operazione smascherata di recente dal pentito Gaspare Spatuzza, vero esecutore della strage su mandato dei fratelli Graviano.
1992, agosto-settembre. Il 1° agosto, sull’onda dell’emozione per via D’Amelio, il Parlamento converte finalmente in legge il Decreto antimafia di Martelli e Scotti, approntato dal governo Amato dopo Capaci, ma subito accantonato dai partiti. Il 41-bis viene inasprito e subito sperimentato da centinaia di mafiosi prelevati nella notte dopo la strage e tradotti nei supercarceri di Pianosa e Asinara. In Cosa Nostra si apre il dibattito sull’efficacia della strategia stragista di Riina, che ha “costretto” lo Stato al giro di vite antimafia. I colloqui e le trattative Ros-Ciancimino proseguono per tutta l’estate (e non solo quelle: c’è anche il negoziato avviato con i carabinieri da uno strano confidente, Paolo Bellini, per mitigare le condizioni carcerarie dei boss in cambio del ritrovamento di alcune opere d’arte rubate da mafiosi o da malavitosi in contatto con loro). Intanto, a Roma – come racconta oggi ai pm Edoardo Fazioli, numero due del Dap – alla direzione delle carceri si discute una normativa che consenta ai mafiosi di uscire dall’isolamento (appena consacrato col decreto sul 41-bis) senza l’obbligo di collaborare con la giustizia, ma semplicemente dissociandosi a costo zero dall’organizzazione: proprio come chiede Riina nel papello. La politica distensiva dello Stato richiede una risposta analoga da Cosa Nostra. Infatti, negli stessi giorni, Bernardo Provenzano (vero referente di Ciancimino, che vede con sospetto la follia sanguinaria di Riina) viene individuato come l’interlocutore più credibile per gestire la Pax Mafiosa che seguirà alle stragi. Riina ormai è bruciato.
1992, ottobre-dicembre. Ciancimino chiede più volte di essere sentito dalla commissione Antimafia, presieduta dal 25 settembre dal Pds Luciano Violante. Lo fa pubblicamente, senza alcun esito, ma anche riservatamente tramite Mori, che a settembre incontra Violante e gli propone un tête à tête segreto con l’ex sindaco. Violante rifiuta e chiede a Mori se abbia informato la Procura di Palermo. Ma, alla risposta negativa del colonnello (“è cosa politica”), si guarda bene dal domandare all’alto ufficiale spiegazioni su quella “cosa politica” (c’è una trattativa con dei mafiosi? E chi l’ha decisa? E quali politici l’hanno avallata? E a quale fine?). Ma, soprattutto, si guarda bene dall’informare egli stesso i magistrati, i quali – sapendo o intuendo trattative fra Stato e mafia – avrebbero potuto bloccarle sul nascere, come avrebbe voluto fare Borsellino se non gli fosse stato impedito col tritolo. La circostanza sembra confermare il racconto di Massimo Ciancimino: suo padre voleva saggiare la copertura politica del Ros, per evitare di bruciarsi le dita, e chiese al signor Franco-Carlo che la trattativa fosse garantita politicamente dal governo (e lì sarebbe giunto l’avallo di Mancino), ma anche da Violante per l’opposizione (ma su quel fronte l’esito fu negativo). Ciancimino jr. racconta pure che, sullo scorcio del 1992, Provenzano fece recapitare a suo padre, e da lui al Ros, le mappe della città di Palermo con i possibili nascondigli di Riina. Il Ros nega. In ogni caso, la trattativa s’interrompe bruscamente perché don Vito (finora agli arresti domiciliari) viene improvvisamente arrestato il 19 dicembre per uno strano autogol (secondo Massimo, suggerito dai Carabinieri): una bizzarra richiesta di riavere il passaporto, che fa pensare a un improbabile progetto di fuga e innesca il suo arresto.
1993, gennaio. Il giorno 15 anche Riina viene arrestato a Palermo dagli uomini del Ros. I quali, com’è noto, ingannano la Procura (dove s’è appena insediato il nuovo capo Gian Carlo Caselli) e ottengono il rinvio sine die della perquisizione del covo, con la falsa promessa di sorvegliarlo notte e giorno. In realtà abbandonano subito il covo, lasciandolo incustodito e consentendo a Cosa Nostra di perquisirlo, svuotarlo (secondo Brusca, anche dell’originale del “papello” e di altre carte inerenti la trattativa) e ripulirlo indisturbati. Secondo le confidenze di Ciancimino al figlio, quello era il prezzo da pagare a Binnu in cambio della testa di Riina. Brusca racconta che, all’indomani dell’arresto di Riina, Leoluca Bagarella “voleva fare un attentato a Mancino, terminale finale della trattativa” Ros-Ciancimino, che aveva portato solo guai a Cosa Nostra: “Ci sentivamo usati, traditi”. Finora, in effetti, la trattativa ha sospeso la strategia stragista di Cosa Nostra, facendo respirare lo Stato, e ha consentito alla classe politica di rilegittimarsi nonostante gli scandali, sventolando lo scalpo di Riina. Ma nessun vantaggio ha portato alla mafia. Don Vito, dopo il suo arresto, si convince di essere stato estromesso dalla trattativa per aprire la strada a un nuovo referente che si sarebbe fatto avanti nel frattempo: a suo dire, Marcello Dell’Utri. Il quale infatti, a cavallo tra il 1992 e il ‘93, ha ideato con Berlusconi l’embrione del partito Fininvest, che si chiamerà Forza Italia. E così Vito Ciancimino, poco dopo l’arresto, nei primi mesi del ‘93 si sfoga in un appunto vergato nervosamente in carcere: “In piena coscienza oggi posso affermare che sia io, che Marcello Dell’Utri ed anche indirettamente Silvio Berlusconi siamo figli dello stesso sistema, ma abbiamo subito trattamenti diversi soltanto ed unicamente per motivi ‘geografici’. Sia Ciancimino che Dell’Utri sono cresciuti imprenditorialmente a stretto legame con esponenti legati al noto mondo politico mafioso secondo quanto già scritto in noti rapporti giudiziari. Già la Interpol di Milano nei primi anni ‘80 aveva ampiamente accertato la vicinanza ed i rapporti diretti di Dell’Utri con noti esponenti mafiosi... Siamo figli della stessa Lupa...”. La prima trattativa finisce qui. Avanti con la seconda.
1993, FEBBRAIO-MARZO. Tangentopoli coinvolge all’improvviso l’“uomo nuovo” del Psi e della politica italiana, il Guardasigilli Claudio Martelli, in una vecchia storia degli anni 80, legata al crac dell’Ambrosiano e alla P2: la maxi-tangente pagata da Roberto Calvi, su sollecitazione di Licio Gelli, al Psi di Craxi. Le improvvise confessioni dell’architetto craxiano Silvano Larini (titolare del conto svizzero “Protezione”) ma soprattutto di Gelli mettono fuori gioco Martelli, che viene indagato e si dimette dal governo il 10 febbraio, sostituito da un tecnico: l’ex presidente della Consulta Giovanni Conso. Il 12 febbraio si riunisce il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. E qui – racconterà Niccolò Amato, capo del Dap (cioè direttore delle carceri) – il capo della Polizia Parisi esprime “riserve sull’eccessiva durezza” del 41-bis per i mafiosi detenuti a Pianosa e Asinara. Nei verbali della riunione, però, l’intervento di Parisi non risulta. Anzi, nella successiva riunione del Comitato del 6 marzo, l’addolcimento del 41-bis lo invoca proprio Niccolò Amato, socialista e avvocato difensore di Craxi, citando presunte riserve di Parisi e auspicando un’uscita dall’“emergenza” del dopo-stragi. Sia come sia, uno dei punti qualificanti del “papello” di Riina entra ufficialmente nell’agenda politico-istituzionale. Nel frattempo Tangentopoli arriva ai vertici di tutti i partiti: i segretari Dc, Psi, Pri, Pli, Psdi coinvolti nella maxi-tangente Enimont, il Pds nelle tangenti rosse di Primo Greganti. Il 2 marzo Amato e Conso tentano di salvare il salvabile con un decreto che depenalizza l’illecito finanziamento ai partiti. Scalfaro però non lo firma e segna la fine del governo Amato, che si dimetterà poche settimane dopo, all’indomani del referendum elettorale.
LA SECONDA TRATTATIVA
1993, aprile-maggio. Il 4 aprile – racconta Ezio Cartotto, il consulente di Dell’Utri che da quasi un anno lavora al nuovo partito Fininvest – viene convocato ad Arcore per una riunione con Berlusconi e Craxi. Lì il Cavaliere comunica ufficialmente la decisione di entrare in politica. Intanto, al posto del governo Amato, s’insediano i “tecnici” del ministero Ciampi, che però, oltre a Conso alla Giustizia, conferma anche il politico Mancino all’Interno. È l’ultimo tentativo di restituire prestigio alle istituzioni. Cosa Nostra riprende subito la strategia stragista, per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato e costringerlo a cedere alle proprie richieste. Il 14 maggio, l’attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro, nel quartiere romano dei Parioli: per la prima volta Cosa Nostra colpisce fuori della Sicilia. Costanzo, che in quei giorni è fra gli oppositori del progetto Forza Italia dentro il mondo Fininvest, si salva per miracolo. Negli stessi giorni Conso e il Dap revocano, all’insaputa dei giudici e degli italiani, il 41-bis a 140 detenuti “minori”. Provvedimento firmato dal vice di Niccolò Amato, Edoardo Fazioli. Il 27 maggio, preannunciata dal ritrovamento pilotato di un proiettile di mortaio nel giardino di Boboli, la strage di via dei Georgofili, a Firenze, che semina morti e feriti e manda in briciole la Torre dei Pulci, attigua agli Uffizi.
1993, giugno-luglio. Il 2 giugno viene ritrovata una bomba inesplosa in via dei Sabini a Roma, rivendicata dalla “Falange Armata”, ritenuta emanazione dei servizi deviati. Qualche giorno dopo Niccolò Amato viene rimosso dal Dap (tornerà a fare l’avvocato e difenderà, fra l’altro, Vito Ciancimino). Ora sostiene che il suo siluramento fu causato dalla sua linea dura sul 41-bis e ordinato dal capo della Polizia Parisi, che avrebbe attivato contro di lui Scalfaro e Conso. Scalfaro nega tutto: “Non ho alcun ricordo della persona di Amato, non sono neppure in grado di affermare di averlo mai conosciuto”. Ma monsignor Fabio Fabbri, segretario dell’allora ispettore generale dei cappellani delle carceri, monsignor Cesare Curioni, vecchio amico di Scalfaro, testimonia che Scalfaro li convocò entrambi al Quirinale per preannunciare loro la rimozione di Amato, per via delle scortesie che aveva loro inflitto. Anche Gaetano Gifuni, fedelissimo di Scalfaro e segretario del Quirinale, conferma che Amato fu rimosso “sostanzialmente nell’accordo tra il ministro Conso, il presidente del Consiglio Ciampi e il presidente della Repubblica Scalfaro”. Il nuovo direttore delle carceri è un vecchio magistrato, Adalberto Capriotti, amico di Scalfaro. Ma il vero uomo forte del Dap è un altro magistrato proveniente da Milano, Francesco Di Maggio. Il quale però non ha l’anzianità necessaria per ricoprire l’incarico, tant’è che deve intervenire ancora una volta Scalfaro, con apposito decreto del presidente della Repubblica, per nominarlo consigliere della Presidenza del Consiglio e parificarlo ai dirigenti generali dello Stato. Il 26 giugno Capriotti invia a Conso un appunto in cui propone diridurre del 10 percento il numero dei detenuti al 41-bis (“Si tratta di soggetti, allo stato 373, di media pericolosità, appartenenti ad organizzazioni criminali nelle quali non hanno rivestito posizioni di particolare rilievo... I decreti relativi a tali detenuti potrebbero, alla scadenza, non essere rinnovati, fatti salvi singoli casi da sottoporre, di volta in volta, all’attenzione dell’onorevole ministro, su segnalazione dell’autorità giudiziaria o del ministro dell’Interno”): un taglio “lineare” assurdo, visto che ciascun detenuto fa storia a sé e va esaminato singolarmente. La proposta, sulle prime, resta lettera morta, tant’è che il 16 luglio Conso proroga altri 240 misure di 41-bis. Ma a fine mese tutto precipita: nella notte del 27-28 luglio Cosa Nostra torna a colpire il patrimonio artistico e religioso, con le bombe simultanee in via Palestro a Milano (padiglione di Arte contemporanea) e alle basiliche del Velabro e di San Giovanni in Laterano a Roma. Con l’aggiunta del celebre black out telefonico a Palazzo Chigi che fa temere il golpe al premier Ciampi. L’indomani si suicida (o viene suicidato) in carcere uno dei personaggi chiave delle stragi del 1992, Antonino Gioè, visitato negli ultimi tempi in carcere da uomini dei servizi segreti e coinvolto nella “trattativa Bellini”. L’11 agosto il boss della camorra Francesco Schiavone detto “Sandokan” scrive a Scalfaro per chiedere la revoca del suo 41-bis: mafia, camorra e ‘ndrangheta concordano i messaggi alle istituzioni sul punto più urgente del papello: il trattamento carcerario dei boss detenuti.
1993, settembre-ottobre. L’11 settembre lo Sco della Polizia invia alla commissione Antimafia una nota riservata sulle stragi della primavera-estate: “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’”. Le bombe di Firenze, Milano e Roma “non avrebbero dovuto realizzare stragi, ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa nostra anche canali istituzionali”. L’allarme trattativa viene ignorato dalla classe politica. E chissà se giunge sul tavolo del ministro Conso, alle prese con la spinosa questione dei 41-bis. Il 21 settembre, altra bomba, stavolta soltanto dimostrativa, sul treno Freccia dell’Etna. In ottobre nasce ufficialmente “Sicilia Libera”, fondata a Palermo dal mafioso Tullio Cannella: l’ennesimo partito secessionista, ultimo nato di una serie di “leghe meridionali” create da personaggi legati a mafie, servizi, eversione nera e logge spurie, alcuni in contatto con emissari della Lega Nord e uno – il principe Napoleone Orsini – in rapporti telefonici con Dell’Utri. Il 17 ottobre viene scarcerato con due anni di anticipo, per presunta buona condotta, Schiavone-Sandokan. Il 30 lo scandalo dei fondi neri Sisde coinvolge Scalfaro e Mancino, accusati (anzi, si scoprirà, calunniati) dall’ex direttore del servizio civile Riccardo Malpica e da vari funzionari infedeli nella logica del “muoia Sansone con tutti i filistei”.
1993, novembre-dicembre. Scalfaro smaschera la manovra dei suoi accusatori con un celebre videomessaggio a reti unificate: “A questo gioco al massacro io non ci sto. Prima hanno provato con le bombe e ora col più ignobile degli scandali”. Insomma denuncia una strategia paragolpista e coordinata da uomini dei vecchi servizi in combutta con chi mette le bombe per destabilizzare le istituzioni e allargare il vuoto politico che qualcuno arriverà a riempire: è il 3 novembre, mancano due mesi allo scioglimento anticipato delle Camere e cinque mesi alle elezioni politiche. Il 5 novembre scade il 41-bis per ben 340 mafiosi in isolamento, anche di grosso calibro. La Procura di Palermo, richiesta di un parere da Capriotti, sollecita il Guardasigilli a rinnovarli tutti: i due procuratori aggiunti di Caselli, Vittorio Aliquò e Luigi Croce, evidenziano “l’inopportunità di eventuali modifiche dell’attuale regime carcerario” ed esprimono “parere favorevole alla sua proroga”. Invece Conso se ne infischia e fa esattamente il contrario: non ne rinnova nemmeno uno. Dirà poi di aver fatto tutto da solo, “chiuso nel mio bunker”, dopo averne parlato col ministro dell’Interno Mancino: “Così evitai nuove stragi. Ma non c'è mai stato alcun barlume di trattativa. Decisi in piena solitudine senza informare nessuno: né i funzionari del ministero, né il Consiglio dei ministri, né il premier Ciampi, né il capo del Ros Mario Mori, né il Dap. Non fu per offrire una tregua, una trattativa, una pacificazione, ma per dare un segnale e vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del ‘93 a Firenze, Milano e Roma, Cosa Nostra taceva. Riina era stato arrestato, il suo successore Provenzano era contrario alle stragi, dunque la mafia adottò una nuova strategia non stragista”. Ma così, negandola, conferma la trattativa Stato-mafia: come faceva infatti Conso, chiuso nel suo bunker, a sapere che Provenzano era il nuovo capo della mafia ed era contrario alle stragi? E che queste erano finalizzate anzitutto all’ammorbidimento del 41-bis (il papello verrà svelato per la prima volta da Brusca solo nel 1996 e consegnato da Ciancimino jr. solo nel 2010)? Chi è dunque il trait d'union fra gli apparati dello Stato e Cosa Nostra? E poi nel 2003, sentito dal pm fiorentino Gabriele Chelazzi proprio sulla revoca di quei 41-bis, Conso non aveva detto nulla di ciò che oggi ammette, anzi rivendicò la propria inflessibilità anche sul trattamento carcerario ai boss mafiosi. In ogni caso, Mancino nega di aver saputo da Conso del mancato rinnovo dei 41-bis (“lo seppi casualmente da un giornalista”). Poi però ammette di aver saputo anche lui che, in Cosa Nostra, si fronteggiavano un’ala “terroristica” legata a Riina e una più “politica” legata a Provenzano. Peccato che all’epoca queste informazioni fossero tutt’altro che di dominio pubblico (altro che averle “lette sui giornali”, come dicono Conso e Mancino): l’ennesima prova che lo Stato aveva canali diretti con Cosa Nostra. Sia Scalfaro sia Ciampi negano di aver mai saputo quel che aveva fatto il loro ministro della Giustizia. Ma è davvero difficile crederci, vista l’importanza del tema mafia in quei mesi e l’attenzione con cui Scalfaro si occupava del Dap.
Risultato finale: fra l’estate e l’autunno 1993 ben 480 mafiosi (prima 140 poi 340) piccoli e grandi escono dall’isolamento, proprio come chiesto un anno prima da Riina nel papello. Da quel momento, guarda caso, le stragi mafiose s’interrompono. Il progetto di attentato ai carabinieri in servizio presso lo stadio Olimpico di Roma dopo il derby Roma-Lazio (progettato, secondo Spatuzza e Brusca, per punire i carabinieri che “non avevano rispettato i patti”) fallisce per un misterioso guasto tecnico all’innesco dell’autobomba e viene rinviato sine die. Naturalmente nel papello non c’era solo la richiesta di alleggerire il 41-bis: Cosa Nostra non si accontenta di così poco. Ma qui finisce la seconda trattativa, quella dei “tecnici” del centrosinistra Prima Repubblica. E, secondo i pm di Palermo, parte la terza: quella con i fondatori di Forza Italia. Per esaudire altre richieste occorre un nuovo governo politico, anzi una nuova classe politica.
LA TERZA TRATTATIVA
1994. Come raccontano vari collaboratori di giustizia, proprio sul finire del 1993 Provenzano butta a mare il progetto Sicilia Libera (sponsorizzato dai boss Cannella, Bagarella, Brusca e Graviano) e stringe un patto di ferro con Dell’Utri per sostenere Forza Italia alle imminenti elezioni anticipate (27-28 marzo 1994), in vista delle “cose buone per noi” che, secondo Nino Giuffrè, avrebbe promesso il braccio destro del Cavaliere. Patto negato con forza da Dell’Utri e ritenuto dimostrato dai giudici di primo grado che l’han condannato a 9 anni. Ma non da quelli di Appello, che gli hanno inflitto 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, ma solo fino al 1993, cioè fino a un attimo prima della vittoria di Forza Italia: se Cosa Nostra – sostiene la seconda Corte – appoggiò certamente il partito di Dell’Utri e Berlusconi, non è detto che questi lo sapessero o avessero promesso qualcosa in cambio. Forse furono appoggiati a loro insaputa. Ma la Procura di Palermo la pensa diversamente (infatti ha impugnato in Cassazione la sentenza d’Appello, per far condannare Dell’Utri anche per il periodo “politico” post-1993): infatti ha appena indagato Dell’Utri per la trattativa con Cosa Nostra (la terza, quella del1993-‘94). L’accusa è di attentato a corpo politico, amministrativo e giudiziario dello Stato: la stessa che vede iscritti sul registro degli indagati Riina, Provenzano, Cinà e i presunti artefici della prima trattativa: Mori, De Donno e Massimo Ciancimino. Resta da inquadrare giuridicamente le posizioni di Berlusconi, che secondo l’accusa avrebbe chiuso la trattativa nel ‘94, indotto o costretto dal fido Marcello: parte lesa del ricatto mafioso o complice dell’“attentato allo Stato” attribuito a Dell’Utri? Per alcuni protagonisti della seconda trattativa, quella del 41-bis del ‘93, c’è invece il rischio concreto della falsa testimonianza.
L’accusa a Dell’Utri si fonda su alcuni dati di fatto obiettivi: come i due incontri con Vittorio Mangano a Milano, negli uffici di Publitalia, annotati dalla segretaria sulle agende del futuro senatore, alle date del 2 e del 21 novembre 1993 (per Dell’Utri e i giudici di Appello, invece, quel Mangano era un omonimo del più noto Vittorio). Ma i collaboratori di giustizia parlano anche di altri successivi incontri fra Dell’Utri e Mangano nel 1994-‘95, durante e dopo il primo governo Berlusconi (caduto il 22 dicembre ‘94).
Poi ci sono le rivelazioni di altri pentiti, da Giuffrè a Spatuzza all’ultimo arrivato, Stefano Lo Verso, già autista di Provenzano, sul presunto patto politico-elettorale stipulato fra Dell’Utri e Cosa Nostra tra il ‘93 e il ‘94. Spatuzza sostiene che il suo capo Giuseppe Graviano gli confidò, a fine ‘93, che le stragi dell’estate non erano cose di mafia, ma di “politica”. E, reincontrandolo al Bar Doney di via Veneto a Roma all’inizio del ‘94, aggiunse: “Quello di Canale5 (Berlusconi, ndr) e il nostro paesano (Dell’Utri, ndr) ci stanno mettendo l’Italia nelle mani”. Pochi giorni dopo, il 26 gennaio, Berlusconi annuncia la sua “discesa in campo”. E l’indomani Giuseppe e Filippo Graviano vengono arrestati a Milano, dove stavano seguendo un giovane calciatore imparentato con mafiosi per procurargli un provino nei pulcini del Milan, provino a cui si interessò personalmente Dell’Utri.
Brusca ricorda che, all’indomani della vittoria di Berlusconi, quando l’Espresso (8 aprile) pubblicò l’ultima intervista di Borsellino ai giornalisti francesi su Mangano, Dell’Utri e Berlusconi, lui spedì Mangano a Milano per lanciare un avvertimento al Cavaliere: “Lo mandai ad avvertire Dell’Utri e Berlusconi, che si preparava a diventare premier, che dovevano scendere a patti e, senza la revisione del maxi-processo e del 41-bis e la fine dei maltrattamenti in carcere, le stragi sarebbero continuate”. L’altro messaggio è più sottile: “Guarda che la sinistra sapeva”. Cioè: se Berlusconi farà qualcosa a beneficio di Cosa Nostra, non incontrerà soverchie opposizioni, perché la mafia sa che dietro la prima trattativa c’era – spiega Brusca – la “sinistra Dc che in quel periodo governava il Paese” ed era dunque ricattabile. Mangano tornò raggiante e annunciò a Brusca la missione compiuta: “Dell’Utri ha detto ‘grazie grazie, a disposizione’”. Insomma Silvio e Marcello “si erano impegnati a soddisfare le nostre richieste”. E la controprova arriva di lì a poco, il 14 luglio 1994, quando il governo Berlusconi vara il decreto Biondi contro la custodia cautelare in carcere, che favorisce non solo i tangentisti, ma anche i mafiosi. Decreto poi ritirato a furor di popolo, ma ripreso come disegno di legge nei mesi seguenti e tradotto in legge nell’agosto ‘95 coi voti di destra e sinistra (contrari Verdi e Lega).
Ed ecco il racconto di Lo Verso: “Provenzano mi confidò che Dell’Utri si era messo in contatto con i suoi uomini e aveva di fatto sostituito l’onorevole Salvo Lima nei rapporti con la mafia. ‘Per questo – aggiunse Provenzano – nel 1994, a seguito degli accordi raggiunti con lui, ho fatto votare Forza Italia’”. Lo Verso temeva di essere scoperto, quando ospitava Provenzano in casa sua, ma Binnu lo rassicurò: “Stai tranquillo, sono protetto dai politici e dalle autorità. In passato sono stato protetto da un potente dell’Arma. Non ti preoccupare, a me non mi cerca nessuno. Meglio uno sbirro amico che un amico sbirro”.
1995. Racconta il colonnello del Ros Michele Riccio che un mafioso suo confidente, Luigi Ilardo, gli svela di dover incontrare Provenzano il 31 ottobre in un casolare di Mezzojuso (Palermo). Riccio avverte i superiori – sempre secondo il suo racconto, ritenuto credibile dai pm – il nuovo comandante del Ros Mario Mori e il suo braccio destro, colonnello Mauro Obinu, fanno in modo che il blitz fallisca e Provenzano resti libero e latitante. Per quest’accusa Mori e Obinu sono imputati a Palermo per favoreggiamento alla mafia, reato aggravato dalla volontà di favorire Cosa Nostra e dall’aver coronato la trattativa con Provenzano avviata tre anni prima tramite Ciancimino. Resta il fatto che Provenzano, il latitante più ricercato al mondo dopo la cattura di Riina, sarà libero di andare più volte a trovare don Vito, agli arresti domiciliari a Roma (e dunque teoricamente sorvegliato a vista dalle forze dell’ordine), a bordo del suo Maggiolone Volkswagen, sotto le mentite spoglie di “ingegner Lo Verde”. Come se, grazie alla trattativa, fosse diventato un intoccabile.
1996-2011. Negli ultimi 15 anni la mai conclusa, anzi eterna trattativa Stato-mafia ha rifatto capolino infinite volte, sopra e sotto il pelo dell’acqua. I numerosi disegni di legge per la revisione dei processi, la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara (1997, centrosinistra), le numerose proposte di abolire l’ergastolo (addirittura approvate per pochi mesi nel 1999, sotto il governo D’Alema), le continue manovre al Dap per favorire la “dissociazione” dei mafiosi a costo zero (contrastate da magistrati coraggiosi come Alfonso Sabella e denunciate ancora di recente dal giudice Sebastiano Ardita), l’indulto Mastella del 2006 esteso ai reati dei mafiosi diversi da quelli associativi (ma compresi per esempio il voto di scambio e i delitti propedeutici alla commissione di quelli più gravi), l’ambigua legge del secondo governo Berlusconi che stabilizza il 41-bis rendendone di fatto più facili le revoche, la norma del 2009 che ha svuotato il sequestro dei beni mafiosi prevedendo la possibilità di metterli all’asta (cioè di farli ricomprare dai prestanome dei mafiosi), i tre scudi fiscali sul rientro dei capitali sporchi in forma anonima: sono tutti regali a Cosa Nostra, tentati o realizzati, che autorizzano il sospetto di un terribile “non detto” che attraversa inquinandola tutta la storia della Seconda Repubblica. Come se il papello entrasse, scritto con l’inchiostro simpatico, nei programmi di ogni governo di ogni colore.
Il tutto condito da continui richiami, messaggi e avvertimenti dei boss: dal comizio dalla gabbia di Bagarella sulle “promesse non mantenute” ai messaggi allusivi di Riina sulle “stragi di Stato”, dallo striscione allo stadio di Palermo “Berlusconi dimentica il 41-bis” alle ambiguità dei fratelli Graviano, che giocano al poliziotto buono e al poliziotto cattivo. L’uno, Filippo, dà del bugiardo a Spatuzza; l’altro, Giuseppe, dice di portargli “rispetto” e si riserva eventualmente di parlare quando avrà ottenuto condizioni carcerarie migliori.
Infine, quando Massimo Ciancimino squarcia il velo dell’omertà che copre le tre trattative, è investito da uno scatenamento politico-mediatico che con ogni probabilità lo induce a “suicidarsi” processualmente con il famoso documento falso contro Gianni De Gennaro, screditando così, almeno mediaticamente, tutte le sue rivelazioni riscontrate e le decine di documenti paterni già periziati come autentici dalla Polizia Scientifica. Intanto, mentre i mafiosi e i figli dei mafiosi parlano, decine di politici e “servitori dello Stato” ritrovano improvvisamente la memoria, ricordando cose taciute o negate per quasi vent’anni, ma solo se costretti a parlarne.
Ce n’è abbastanza, in un paese serio o perlomeno decente, per scatenare l’informazione e la politica pulita alla ricerca della verità. E per istruire un grande processo di Norimberga. Non alla mafia, che ha già avuto i suoi. Ma allo Stato.
(MicroMega, 11 dicembre 2011)
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