Da sx: Giorgio Bocca, Dino e Roberto Paternostro (4/1994) |
Ho conosciuto personalmente Giorgio Bocca nell’aprile del 1994. Era venuto a Corleone, insieme ad Attilio Bolzoni, per scrivere un capitolo del suo “Il Sottosopra. L’Italia di oggi raccontata ad una figlia”, che avrebbe pubblicato a settembre con Mondadori. Da poco più di un anno era stato arrestato Totò Riina, considerato il “capo dei capi” di Cosa Nostra. E da qualche mese a Palazzo Cammarata si era incredibilmente insediato un giovane sindaco di sinistra, Pippo Cipriani, che però non aveva nessun consigliere del suo schieramento in consiglio comunale.
Più che un’anitra zoppa, come dicono gli americani, un’anitra senza gambe. Il grande giornalista volle incontrarmi per essere aiutato a capire Corleone. Era un paese liberato dalla mafia? O ancora schiavo dei “Padrini”? I suoi cittadini stavano cambiando oppure erano rassegnati? Gli parlai dell’antimafia sconosciuta di Corleone, di Verro e di Rizzotto, e di come – nonostante tutto – si respirasse un’aria di cambiamento in paese. Lui annuiva, prendeva appunti sul suo taccuino. Poi andò in municipio ad incontrare Cipriani e la sua giunta. Nel capitolo su Corleone scrisse dell’incontro con me e dell’incontro con il nuovo sindaco di Corleone. Col suo stile nervoso, duro. Disincantato. E però partecipe. «Io li guardo – scrisse a proposito dei nuovi amministratori del comune – e non saprei dire se sono i nuovi padroni o dei prigionieri di una città siciliana dell’interno, co0mpatta nei suoi dolori e nelle sue ferocie, fuori dal mondo nel suo ordine mafioso». Era pessimista Bocca? Oppure realista. Sicuramente uno che non si voleva e non voleva illudere, consapevole che la libertà e la democrazia non sono mai conquiste definitive. Questo l’aveva imparato dalla Resistenza, ai cui valori rimase sempre fedeli. Adesso che Giorgio Bocca è morto, mi mancheranno le sue asprezze, le sue provocazioni, il suo essere “anti-italiano”. Anche perché – nel mio piccolo - un po’ aspro, un po’ provocatorio e un po’ “anti-corleonese” mi sono sempre sentito anch’io.
Più che un’anitra zoppa, come dicono gli americani, un’anitra senza gambe. Il grande giornalista volle incontrarmi per essere aiutato a capire Corleone. Era un paese liberato dalla mafia? O ancora schiavo dei “Padrini”? I suoi cittadini stavano cambiando oppure erano rassegnati? Gli parlai dell’antimafia sconosciuta di Corleone, di Verro e di Rizzotto, e di come – nonostante tutto – si respirasse un’aria di cambiamento in paese. Lui annuiva, prendeva appunti sul suo taccuino. Poi andò in municipio ad incontrare Cipriani e la sua giunta. Nel capitolo su Corleone scrisse dell’incontro con me e dell’incontro con il nuovo sindaco di Corleone. Col suo stile nervoso, duro. Disincantato. E però partecipe. «Io li guardo – scrisse a proposito dei nuovi amministratori del comune – e non saprei dire se sono i nuovi padroni o dei prigionieri di una città siciliana dell’interno, co0mpatta nei suoi dolori e nelle sue ferocie, fuori dal mondo nel suo ordine mafioso». Era pessimista Bocca? Oppure realista. Sicuramente uno che non si voleva e non voleva illudere, consapevole che la libertà e la democrazia non sono mai conquiste definitive. Questo l’aveva imparato dalla Resistenza, ai cui valori rimase sempre fedeli. Adesso che Giorgio Bocca è morto, mi mancheranno le sue asprezze, le sue provocazioni, il suo essere “anti-italiano”. Anche perché – nel mio piccolo - un po’ aspro, un po’ provocatorio e un po’ “anti-corleonese” mi sono sempre sentito anch’io.
(d.p.)
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