di ALICE GIORDANA
Usciti dell’autostrada, attraversata la zona industriale e arrivati nel centro di Cerignola si percepisce da subito di entrare in una realtà completamente nuova: i semafori lampeggiano, agli incroci ha la meglio chi non manca di iniziativa, ai lati delle macchine sfrecciano motociclisti senza casco, lo stereotipo della città del sud, insomma. Ma l’illegalità e la lontananza delle istituzioni non si limitano a questo. Esiste qui in questa zona della provincia di Foggia, chiamata Piana della Capitanata, un fenomeno dalle radici profonde, che, nonostante le sue trasformazioni nel corso della storia, può ancora essere definito Caporalato.
Per caporale si intende “chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”. Cerignola è un comune di sessantamila abitanti, di cui secondo i dati del 2010, l’1,9 % di nazionalità straniera, senza tener conto però degli immigrati irregolari, che rappresentano una realtà tutt’altro che insignificante. A muovere l’economia qui è principalmente l’agricoltura:i terreni complessivamente coltivati sono infatti 50000 ettari, il più alto valore a livello regionale e il terzo agro d’Italia per estensione.
La produzione agricola si concentra soprattutto su pomodori, olive e uva; durante i periodi di raccolta la città si riempie di cittadini stranieri in cerca di un impiego temporaneo, i quali sono a conoscenza del fatto che questo sia facilmente rintracciabile grazie al mercato nero che caratterizza il lavoro stagionale agricolo. La produzione, è legata ai tempi della raccolta, l’offerta di lavoro per i braccianti è a tempo più che determinato, l’impiego è infatti “alla giornata” o per un periodo ristretto di tempo o addirittura a cottimo. Chi affolla le piazze la mattina presto, per essere scelto dai caporali, sono ad oggi principalmente cittadini bulgari, rumeni, polacchi e africani. La presenza di forza lavoro straniera offre la possibilità, per i produttori e i padroni locali, di abbassare sostanzialmente il costo del lavoro. I caporali infatti tendono a reclutare coloro che sono disposti a accettare salari più bassi e orari di lavoro massacranti; questi sono facilmente ricattabili dai caporali in quanto i pagamenti percepiti, se percepiti, non corrispondono mai alla cifra pattuita, ma è molto difficile che i braccianti si ribellino per paura di non essere nuovamente scelti.
Le condizioni abitative dei braccianti stagionali nella zona di Cerignola sono assolutamente inadeguate, molti di loro infatti abitano nelle vecchie case del centro storico cittadino in numeri spropositati, è facile che in una casa di trenta metri quadrati abitino anche venti persone; altri invece trovano rifugio nei vecchi casolari abbandonati nelle campagne, senza acqua corrente, luce e servizi igienici. L’emergenza abitativa dei lavoratori stranieri, ha portato all’occupazione di Tre Titoli, un vecchio borgo agricolo, a tredici chilometri dalla città. Quest’area è divenuta una sorta di “ghetto”, al cui interno convivono diversi gruppi etnici in condizioni igienico-sanitarie più che preoccupanti, preoccupanti a tal punto da spingere l’Associazione Emergency a recarsi sul posto con i propri ambulatori e volontari nell’estate del 2011.
La presenza di questi braccianti stagionali, si trasforma per alcuni cittadini di Cerignola in un business, gli stranieri che decidono infatti di abitare le case del centro storico sono tenuti a pagare degli affitti altissimi rispetto all’offerta, all’incirca 100 euro mensili per persona, e sono stati riscontrati casi in cui, alle stesse condizioni,venivano affittati addirittura dei garages. La situazione di ricatto e sfruttamento che i lavoratori stranieri si trovano ad affrontare non è comunque molto diversa da quella che subivano i braccianti autoctoni ai tempi di Giuseppe Di Vittorio. Interessante, in questo senso, la testimonianza di Gianni Rinaldi, storico e ricercatore, autore del libro “La memoria che resta”, ricerca sul bracciantilismo pugliese e sulla figura di Di Vittorio.
“Il fenomeno del caporalato ha assunto nomi e forme diverse nel corso del tempo. Alla fine dell’Ottocento, quando era diffuso il latifondo, nel periodo del raccolto i braccianti risiedevano nelle masserie e i padroni necessitavano quindi di diversi sorveglianti che si occupassero dei vari aspetti dell’organizzazione del lavoro nei campi. I caporali erano i controllori di lavoro, gli ultimi di una gerarchia di sfruttatori, e proprio per questo, caricati dalla tensione proveniente dall’alto, sentendosi piccoli, la sfogavano in violenza sui sottoposti.
Dall’inzio del Novecento i controlli dei caporali avvenivano con le armi ed è grazie al movimento bracciantile iniziato da Di Vittorio che se ne chiede il disarmo. Già allora la paga spesso non corrispondeva a quella pattuita al momento dell’ingaggio e sempre grazie all’impegno di Di Vittorio che i braccianti decisero di unirsi per chiedere il giusto, tentando, per la prima volta, di aprire un dialogo anche alle istituzioni e alla polizia. Passato il difficile periodo del fascismo, è nel ’47 che i sindacati dei braccianti italiani ottengono ‘l’imponibile di mano d’opera’ che sancisce la fine del caporalato così descritto.
Il fenomeno tuttavia persiste e prosegue fino ad oggi assumendo una diversa forma: il caporale diventa infatti l’intermediatore tra il padrone e la manodopera, gestore, quindi, del lavoro, delle paghe e del reclutamento. Per anni lo sfruttamento ha riguardato principalmente le donne, negli ultimi decenni, invece, esso si è concentrato sugli immigrati.”
Il caporalato è quindi una realtà tanto diffusa da incidere profondamente in questa zona sia a livello economico che a livello sociale. A livello politico, però, le risposte non sono adeguate, le istituzioni non sembrano infatti in grado di gestire a livello decisionale e operativo la questione. Gli unici attori impegnati nel contrasto a tale fenomeno paiono essere associazioni ecclesiastiche, mediche e culturali o singole personalità spinte dalla speranza e dalla volontà di cambiamento. È il caso dei ragazzi della Cooperativa Pietra di Scarto, un’associazione che opera sul territorio e gestisce una bottega di prodotti del commercio equo e solidale, o di Nicola Famiglietti, una avvocato che si è impegnato in prima persona al fianco dei lavoratori immigrati per difenderne i diritti, o di Giuseppe Valentino, un giovane regista che ha realizzato un documentario dal titolo “Qui bruciamo gli elefanti”, analizzando la campagna elettorale del 2010 a Cerignola e smascherandone le false promesse.
Da: Narcomafie
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