di Benny Calasanzio
«Ho visto Mostaccio, stasera» dice senza voltarsi. «E che ti ha detto?» «Mi ha offerto trentanove milioni per non scrivere più dell’AIAS». [...] Gli chiedo: «Che hai fatto? Li hai rifiutati?». Annuisce, ma poi fa una lunga pausa, come se cercasse le parole: «Mi ha detto che non arriverò al 20 gennaio».
Inizia così il lungo flash back di Sonia Alfano, un viaggio a ritroso lungo 18 anni, un racconto in prima persona di una vita che poteva essere come tante, tra lo sport e gli studi universitari, tra la “calma piatta” di Barcellona Pozzo di Gotto e il mare caldo di Capo d’Orlando. Una vita “normale” sperata, agognata, assaporata, che finisce per sempre l’8 gennaio 1993, quando un killer mafioso, Nino Merlino, armato dal boss Giuseppe Gullotti, ammazza suo padre, il professore Beppe Alfano. No, non giornalista. “Giornalista d’inchiesta” lo diventerà dopo, post mortem. Prima era solo un professore, che osservava, ricostruiva, e scriveva, da umile corrispondente di provincia de “La Sicilia”. Era, semplicemente, colui che prima di altri aveva capito cosa stava accadendo in una provincia a misura di mafioso in cui ancora molti credevano alla befana e al buon Babbo Natale. Ma non ai fantasmi della mafia, ai latitanti. Solo dopo diciotto anni da quel maledetto 8 gennaio, Sonia Alfano, oggi parlamentare europeo, ha trovato la forza e il coraggio di raccontarsi in questo libro, “La zona d’ombra. La lezione di mio padre ucciso dalla mafia e abbandonato dallo Stato” (Rizzoli), in uscita oggi in tutte le librerie. Ed è un racconto estremamente vero, quasi accorato, che stupisce anche chi, come chi scrive, la conosce a fondo da anni. Sono pagine vergate con le lacrime, a volte sporcate di sangue, di quel sangue che lei, appena ventenne, si ferma a fissare, ad annusare, a ricordare come ultima immagine di suo padre. E’ solo una pozza rossa che trova, infatti, quando arriva sul luogo del delitto, in quella strada in cui poco prima Beppe Alfano aveva fermato la sua auto, aveva abbassato il finestrino e si era fermato a parlare con il suo killer. Cosa aveva visto? Lo aveva rincorso dopo aver scoperto di essere seguito? Ricordi intimi e a tratti inevitabilmente commoventi, aneddoti che raccontano un rapporto speciale tra un padre duro ed esemplare ma dolce, ed una figlia ribelle ed antiautoritaria ma una grande testa sulle spalle. Lui uomo della destra dura e pura, lei universitaria che ascoltava Ligabue. Un dualismo che va oltre quell’8 gennaio, che va oltre quella chiazza di sangue e che la porta a dedicare tutta se stessa ai processi che seguiranno e che riusciranno ad appurare, in via definitiva, il mandante militare, Gullotti, e il macellaio, Merlino. Non ancora pervenuto il terzo livello. Niente infatti sulle inchieste “personali” di Alfano sulla latitanza di Santapaola, che il cronista aveva scoperto alloggiare a pochi metri da casa sua; niente di nuovo sugli appunti sui traffici d’armi. Sepolta, come molti altri aspetti, quella minaccia di Mostaccio, presidente dell’Associazione Italiana per l'Assistenza agli Spastici di Milazzo, uscito in modo definitivo dai processi. Tutti, nel messinese, sembrano aspettare l’archiviazione dell’inchiesta sui mandanti occulti. Tutti tranne loro, la famiglia Alfano, la squadra Alfano, rappresentata dal legale Fabio Repici.
Si legge come un romanzo ma devasta come un’inchiesta, direbbe qualcuno. E infatti non mancano incursioni in atti giudiziari, alcuni inediti, che mettono in crisi il sistema giudiziario barcellonese e ambiti delle forze dell’ordine, come quel Ros, capitanato da Sergio De Caprio, alias Ultimo, che anzichè catturare Santapaola, di cui si suppone avessero ormai tutte le coordinate, viene dirottato su un altro obiettivo rischiando di ammazzare un giovane totalmente innocente. Una storia di depistaggi e omissioni sul crine tra l’incompetenza e il criminale, di cui massimo esponente è quel pm brianzolo, Olindo Canali, a cui Alfano raccontava quotidianamente delle sue inchieste e dei suoi sospetti e che alla fine lo abbandona al suo destino, finendo, negli ultimi mesi, per essere indagato per falsa testimonianza con l’aggravante mafiosa. Avrebbe mentito, avrebbe depistato le indagini. Tranquilli, fa ancora il giudice, a Milano. Poca, pochissima politica in questo libro; solo qualche accenno alla vita da parlamentare e alle attività in corso. Tanta vita vera, senza filtri o frasi di circostanza. “Sincero”, se a tutti i costi dovessimo trovare un aggettivo. E che termina con un giro dei reparti del 41 bis delle carceri italiane di massima sicurezza, fino, paradossalmente, alla cella dell’ultima preda di Ultimo, la più ambita, Totò Riina, che le confida: “«Certo, noi stiamo pagando, ma qualcun altro è libero...». Fa una pausa, e infine mi lancia uno sguardo obliquo - racconta la Alfano nel libro -: «Ma lei sta con Berlusconi?». «Non è di questo che dobbiamo discutere. Comunque no, non sto con Berlusconi». «Chiddu a noautri ne futtiu» conclude, riferendosi per la seconda volta a Berlusconi”.
(6 aprile 2011)
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