domenica, luglio 25, 2010

Le nuove rotte della disperazione

PINELLA LEOCATA
Erano stipati sul cassone di un camion, come animali. Anzi peggio che gli animali che, almeno, vengono trasportati da un posto all'altro liberi di respirare, a differenza di questi uomini, un centinaio, nascosti sotto un tendone di plastica, in una giornata torrida di piena estate. Uomini a perdere. Trasportati alla meta - inevitabilmente un luogo di sfruttamento, spesso violento - come un tempo lo furono i deportati. Di sicuro soffocavano, questi uomini in fuga, ammassati in uno spazio minimo, sotto un sole a 40 gradi. Questo dicono quelle mani alla spasmodica ricerca di aria fuori dal tendone. Mani che li hanno «smascherati». Un termine che si usa per i criminali, perché criminale, nel nostro Paese è, per legge, chi è clandestino, chi si è macchiato della colpa di essere fuggito alla guerra, alle persecuzione, alla fame. Le cronache dicono che questi uomini trasportati come bestiame sono soprattutto palestinesi e iraniani. Dunque figli di terre martoriate, di popoli decimati dalla guerra e dall'embargo economico. Popoli da troppi anni in armi per rivendicare il diritto ad un proprio Stato, estenuati in guerre civili. Popoli cui è impedito persino ricevere aiuti alimentari, come abbiamo visto, increduli, con l'attacco alla Marmara, la nave dei pacifisti che gli israeliani hanno fermato nel sangue. Questo ennesimo episodio di cronaca ci dice che non è vero che gli sbarchi di clandestini sono stati fermati, come sostiene, con orgoglio, il ministro dell'Interno Maroni. Gli sbarchi, evidentemente, continuano. Hanno cambiato rotte e approdi, ma continuano. E non possono che continuare perché quando si fugge dalla fame, dalla guerra, dalla morte e dallo sterminio dei propri familiari non ci sono leggi e ostacoli che tengano. I più capaci, e i più giovani, ci provano comunque, mettendo a repentaglio la propria vita, perché quella da cui fuggono è insostenibile. Sanno che potrebbero non farcela, che potrebbero morire per acqua, per fame, per sete, sanno che saranno soggetti a violenze e soprusi. Sanno, ma accettano il rischio nella speranza di una vita migliore. Perché tale, nonostante tutto, è persino lo sfruttamento cui li costringono i nostri connazionali, quegli «imprenditori» che si fanno forza della loro ricattabilità, del loro essere clandestini, per spremerli come limoni per pochi euro. Uno sfruttamento così violento da suscitare, a volte, l'orgogliosa e disperata reazione di questi nuovi schiavi, come è avvenuto a Rosarno dove solo gli extracomunitari hanno avuto il coraggio e la dignità di ribellarsi alla ndragheta. Così un episodio di cronaca, ancora una volta, ci richiama alla realtà - che è altro dal quadretto «rassicurante» presentato da chi ci governa - e alle responsabilità del nostro Paese e dell'Occidente, arroccati in difesa, come se fosse possibile fermare l'enorme flusso umano che hanno contributo a creare con le proprie politiche economiche.
La Sicilia, 25/07/2010

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