di Alberto Dentice
Un cantautore che non raccontava sogni ma la realtà. Che amava gli emarginati. E non sopportava il conformismo. Da riscoprire con 'L'espresso'
Non sono 'un cantante bene', non sono 'un intellettuale'. Sono solo uno che scrive canzoni guardandosi intorno. Questa breve dichiarazione del 1967, l'anno in cui uscì il suo primo Lp, 'Volume 1', illumina meglio di tanti discorsi celebrativi la poetica di Fabrizio De André. E dopo molti anni chiarisce anche a noi, adolescenti di allora, le ragioni di una fascinazione che non è mai finita. De André non era un fabbricante di sogni e diversamente da tanti altri cantautori, non lo sarebbe mai stato. Questa differenza è stata chiara fin da subito. Faber, come lo chiamavano gli amici, aveva il virus della realtà. "C'è chi dice che questo di far sognare sia il compito di noi artisti: ma allora chi resta a raccontarci la realtà? I giornali?", chiedeva: "Io non vendo sogni: i sogni si sognano, la realtà si racconta". LEGGI TUTTO
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