Francesco La Licata |
di FRANCESCO LA LICATA
Trentuno anni fa il fallito attentato che avrebbe dovuto spazzare via il giudice
palermitano
Trentun anni, più di tre decenni. Sembra un tempo infinito e comunque
sufficiente per sciogliere la nebbia che ha nascosto e continua a nascondere la
trama che rese possibile il primo vero tentativo di neutralizzare, con le buone
o con le cattive, l’"anomalia palermitana" rappresentata da Giovanni
Falcone. Eppure non è così, perché dopo 31 anni ancora poco si sa del fallito
attentato dell’Addaura che avrebbe dovuto spazzare via il giudice palermitano e
i due colleghi svizzeri, Carla Del Ponte e Carlo Lehmann, giunti a Palermo per
indagare sul riciclaggio del denaro proveniente dal traffico degli stupefacenti
messo in atto da Cosa nostra attraverso i centri finanziari della
Confederazione Elvetica.
Certo, ci sono stati processi e sentenze che hanno colpito esclusivamente
la mafia. Nulla si sa, invece, dei "piani alti", del groviglio
politico-finanziario che ha mosso i fili di quel tragico "teatrino"
che non provocò lutti soltanto per un "accidente" che mandò in fumo
quella congiura. E provocò, nel contempo, la discesa in campo di quelle
"menti raffinatissime" (Falcone dixit), allo scopo di depistare le
indagini con la solita cortina di fumo che contraddistingue tutte le vicende
palermitane e siciliane che non siano storie di ordinaria violenza.
Il 21 giugno del 1989, data del fallito attentato, può essere considerata
la data dell’inizio dell’accerchiamento, anche fisico, di Giovanni Falcone,
anzi una specie di prologo dell’immane tragedia che si sarebbe conclusa il 23
maggio del 1992, sul rettilineo di Capaci dell’autostrada P.Raisi/Palermo.
La storia delle indagini successive a quel 21 giugno può entrare a buon
diritto nel Guinness dei primati del depistaggio a tutela di inconfessabili
verità, nascoste in difesa di interessi politico-economici ed
"equilibri" internazionali che non vanno turbati.
Che ci fosse poca voglia di scavare nel pozzo nero predisposto per Giovanni
Falcone si capì immediatamente, quando la macchina investigativa stentava a
partire (ancora una volta la Procura di Caltanissetta di Giovanni Tinebra)
mentre scattava, efficientissima, la macchina del fango che insinuava sulla
impossibilità che Cosa nostra potesse fallire su una così importante operazione
militare: ergo l’attentato era finto, anzi se l’era fatto Falcone per fare
carriera.
Una seconda infamia, poi, collegava quella bomba ad una strategia,
esclusivamente mafiosa, messa in atto per chiudere il cerchio su un movente
disonorevole: con quei candelotti Cosa nostra intendeva punire Falcone per la
gestione "disinvolta" del pentito Salvatore Contorno, lasciato libero
- a dire di suggeritori anonimi - di farsi giustizia privata uccidendo un bel
po’ di "corleonesi" nel triangolo Altavilla-Bagheria-Casteldaccia. E’
la storia delle lettere anonime attribuite al famigerato "Corvo",
individuato dagli 007 dell’Alto commissario Domenico Sica nel giudice
palermitano Alberto Di Pisa. Inchiodato da una impronta ottenuta, secondo le
successive indagini, in modo equivoco e con sistemi più da spie che da
ufficiali di polizia giudiziaria. Ma Di Pisa, protestatosi sempre innocente,
verrà assolto e la vicenda - anche questa in linea col manuale dei depistaggi -
si concluderà con un imputato assolto e nessun colpevole individuato.
Mentre l’attenzione generale e mediatica è polarizzata dal
"Corvo", a Caltanissetta non si indaga sull’attentato. L’attività
istruttoria langue, almeno fino all’arrivo in Procura del giudice Ilda
Boccassini. Ma siamo già nel ‘92, Falcone è morto e la magistrata milanese ha
ottenuto l’applicazione a Caltanissetta per indagare sulla morte del suo amico
Giovanni. Poi abbandonerà Caltanissetta (sono passati altri due o tre anni), ma
dopo aver lasciato due relazioni scritte a cui aveva affidato tutti i suoi
dubbi e le sue diffidenze sulla "genuinità" del pentito Vincenzo
Scarantino (strage di via D’Amelio), attore principale dell’altro scandaloso
depistaggio sulla strage Borsellino.
Saranno gli atti di impulso della Procura nazionale antimafia di Pietro
Grasso (delega al giudice Gianfranco Donadio) ad offrire, dopo quasi 20 anni,
una ricostruzione diversa e molto più inquietante dell’attentato dell’Addaura.
Pian piano viene fuori una realtà, diciamo, molto più complessa della semplice
vendetta mafiosa, traspare il "gioco grande" - per usare un termine
del giudice Roberto Scarpinato - nel quale era precipitato Giovanni Falcone,
forse non del tutto consapevolmente.
Si scopre che l’artificiere accorso per disinnescare l’ordigno, il
maresciallo Francesco Tumino, aveva raccolto, nell’immediatezza dei fatti,
preziose testimonianze dagli agenti addetti alla sorveglianza della villa.
Questi avevano riferito di due "colleghi" arrivati dal mare in
canotto. Poliziotti che si erano qualificati, addirittura mostrando i
tesserini. La loro presenza aveva fatto fallire la preparazione dell’attentato,
perché un mafioso che stava nei pressi degli scogli, preso dall’ansia, si era
gettato in acqua perdendo il telecomando e abbandonando un telo da bagno, le
pinne e le ciabatte. Questa ricostruzione coincide perfettamente con quanto
riferito da alcuni pentiti. Angelo Fontana, soprattutto, aveva raccontato il
percorso seguito da due automobili partite con l'esplosivo dal baglio Pipitone
(uno "scannatoio" della mafia, all’Arenella, usato anche come base
operativa e luogo delle riunioni importanti) e finite sugli scogli dell’Addaura.
Da altre dichiarazioni si saprà che i due poliziotti giunti in canotto potevano
essere Agostino e Di Piazza, il primo successivamente ucciso insieme con la
moglie, l’altro scomparso nel nulla e mai più ritrovato. I due sarebbe stati,
dunque, i "guastatori" inviati da quella parte dei servizi segreti
contrari all’operazione Addaura, sponsorizzata invece da altri (forse anche
stranieri) a tutela degli interessi economici del riciclaggio internazionale.
Sarà forse per questo che, ai funerali dell’agente Antonino Agostino, Giovanni
Falcone si lascerà scappare che "quel ragazzo mi ha salvato la
vita".
Ma nel fascicolo sull’Addaura non si trovano verbali di interrogatorio
degli agenti addetti alla sicurezza della villa. Si trovano relazioni di
servizio ma non interrogatori riconducibili ai singoli agenti e, dunque, si
deve concludere che nessun magistrato o investigatore li ha mai interrogati su
quella giornata che, comunque, non è la mattinata del 21 giugno ma il giorno
precedente, quando la borsa venne abbandonata a causa del trambusto provocato
dai due "ragazzi" venuti dal mare.
Il tempo, poi, ha finito il lavoro di rimozione delle anomalie
investigative. Il maresciallo Tumino è stato "immobilizzato" da una
vicenda giudiziaria che durerà anni per concludersi con una irrisoria condanna
a sei mesi di carcere per false dichiarazioni, niente a che vedere con l’accusa
originaria che era quella di aver distrutto volontariamente l’ordigno inesploso
per inquinare le indagini.
Tutta la storia, com’è evidente, è un torbido affaire dove le famigerate
"presenze esterne" alla mafia la fanno da padrone. E hanno cercato di
indirizzare o deviare, come quando tentarono di coinvolgere nel fallito
attentato anche l’ex capo della squadra mobile di Palermo, Ignazio D’Antone
(funzionario amico di Bruno Contrada), "inserendolo" sulla scena del
crimine attraverso una foto un po’ sfocata. Per sua fortuna D’Antone potè
dimostrare che in quei giorni si trovava a Roma per lavoro, disarticolando
l’equazione che lo voleva all’Addaura, magari, nella qualità di uomo di fiducia
di quelle "menti raffinatissime" di cui, secondo alcuni, faceva parte
anche Bruno Contrada.
Ci sarebbero, poi, altre "suggestioni" che non sono, però, state
abbastanza suffragate da diventare realtà processuali. Per esempio la
presenza all’Addaura di quel poliziotto noto come "faccia da mostro"
(morto di infarto qualche tempo fa), ben descritto dal pentito Angelo Fontana e
indicato come assiduo frequentatore dello "scannatoio" di baglio
Pipitone, dove gli venivano dati incarichi per lo svolgimento del "lavoro
sporco". Gli ordini venivano dai Galatolo, dai Fontana e, soprattutto, dai
Madonia. In particolare da Nino Madonia, uno dei pochi nomi che Falcone fece,
subito dopo l’attentato, insieme con le "menti raffinatissime". Lo
stesso Madonia che il giudice vide aggirarsi per via Arenula quando già stava
alla direzione degli Affari Penali. Che coincidenza Nino Madonia a Roma,
accanto al ministero di Grazia e Giustizia! Eppure anche le dichiarazioni di
Angelo Fontana sembrano essere state abilmente "disinnescate": sembra
non abbia detto il vero a proposito di qualche data, nel senso che dice di
essersi trovato a Palermo, mentre stava negli Usa. Però sulla presenza di
Angelo Galatolo all’Addaura non sembra aver detto grandi bugie: sul telo di
mare abbandonato sugli scogli, quando si sarebbe gettato in acqua, è stato
trovato un profilo genetico che porta a lui. Fontana, dunque, qualche volta
dice il vero, altre volte si confonde.
In questo maleodorante guazzabuglio ha cominciato a morire Giovanni
Falcone, circondato da mafiosi, spioni, falsi amici, poliziotti buoni e facce
da mostro. E non è morto al culmine di una guerra tra buoni e cattivi ma nel
bel mezzo di un "gioco grande" dove i nomi dei singoli contano poco,
sovrastati da un vero e proprio sistema di potere. Quando Falcone parlò di "menti
raffinatissime" a quel sistema si riferiva. E infatti aggiungeva chiari
riferimenti a "centri occulti di potere capaci di perseguire altri
interessi". Questo diceva a Saverio Lodato e all’Unità. Qualche giorno
dopo con il "Corriere" fu più esplicito e spiegò che il movente
andava ricercato in "quello di cui mi occupo" e per ora "mi sto
occupando di riciclaggio".
A me personalmente resta un cruccio: non essere riuscito a farmi spiegare
il senso di una frase sfuggitagli all'indomani dell'Addaura. Mi disse:
"Non ci dovevo andare. Io ho sbagliato ad andarci". Ma dove sei
andato? "Non dovevo accettare l’invito ad andare all'Ambasciata americana,
a Roma. In quella sede ho avuto un incontro privato col presidente George
Bush". Inutile ogni tentativo di fargli aggiungere spiegazioni. Si
infastidì per avermi detto quella frase e chiuse così: "Lo so io perché ho
sbagliato".
A seguire, dall'archivio storico del giornale custodito presso la
Biblioteca Centrale regionale, le pagine de L'Ora dei 21 e 22 giugno 1989
Da "L'Ora, edizione straordinaria", 21 giugno 2020
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