domenica, settembre 22, 2019

Sfidò mafiosi e fascisti. Piana degli Albanesi scopre la vedova Stassi


LEANDRO SALVIA           
PIANA DEGLI ALBANESI. Sfidò mafia e fascismo. Una vedova che non ebbe il timore di fronteggiare la violenza criminale e quella politica affinché fosse fatta giustizia dell’uccisione del marito, il sindacalista Vito Stassi Carusci. Il nome di Rosaria Talento non compare nei libri di storia né fa parte del pantheon civico dell’antimafia. Eppure a 37 anni e con quattro figli piccoli non esitò a fare i nomi degli assassini del marito e di chi li proteggeva. Vito Stassi, ucciso dalla mafia il 28 aprile del 1921, era il segretario della locale Camera del lavoro e presidente della Lega dei contadini. Un socialista che godeva della stima di Nicola Barbato.
“Rappresentava l’ala intransigente del partito che non accettava compromessi con la mafia”, ricorda lo studioso Francesco Petrotta nel suo volume “Politica e mafia a Piana dei Greci”. Ed è stato lo stesso Petrotta a studiare i documenti del tempo e scoprire il ruolo della moglie del sindacalista. Di cui conservò i diari sul “biennio rosso”: 1919-20.  “Il processo ai mafiosi Giuseppe Riolo, mandante dell’omicidio, Giovanni Piediscalzi, Raffaele Lo Voi e Bonaventura Cardinale fu istruito – ricorda Petrotta – grazie alle coraggiose dichiarazioni fatte in totale solitudine da Rosaria Talento.
Dopo l’omicidio di Stassi e di altri militanti socialisti, la mafia cacciò i socialisti dall’Amministrazione comunale e con il sindaco Ciccio Cuccia assunse direttamente il potere locale. Tutto avvenne con la violenza e con il sostegno delle Istituzioni del tempo e dalle forze più conservatrici del paese. Ma la Talento, oltre ad indicare ai giudici i mandanti e gli esecutori degli assassini di suo marito, ne spiegò le motivazioni politiche e sociali. Nel disegnare il contesto politico in cui maturò l’omicidio di suo marito – ricorda lo storico – non esitò ad accusare con lucidità e coraggio la personalità più glorificata di allora: il poeta Giuseppe Schirò, fascista ad honorem dal 1923, che elogiò pubblicamente “il merito” del capomafia Ciccio Cuccia per avere estromesso con una serie di omicidi il partito socialista dalla guida del paese. Rosaria indicò i nomi di diversi testimoni, ma alcuni di questi negarono per paura di ritorsioni. La mafia, a sua volta, chiamò a loro difesa alcuni testi che furono dai giudici incriminati per falsa testimonianza”. 
Il processo si concluse nel 1930 senza colpevoli. Ma fu comunque l’occasione per scrivere una pagina di coraggioso impegno civile antimafia. Rosaria, dopo l’uccisione del marito, finì in povertà, ma tenne la schiena dritta. “Per sfamare i figli – racconta Petrotta – cuciva e andava a spigolare, ovvero raccogliere le spighe rimaste nei campi dopo la mietitura”. Una donna la cui coscienza anti-mafiosa, ed è questa la peculiarità della sua figura, era ben salda anche prima dell’omicidio del marito. Definiva, infatti, i mafiosi “persone non degne d’onore”. E aveva ragione. (LEAS)

Giornale di Sicilia del 22/09/2019

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