I poliziotti caduti nella strage di Portella della Paglia |
Oggi alle 18, nei pressi della "cappelluzza" che sorge lungo la Sp20 (strada vecchia per Palermo), l'associazione LiberEssenze ricorderà i 68 anni della strage di Portella della Paglia, uno degli episodi più efferati dell'attacco condotto dalla banda Giuliano contro le forze dell'ordine. Contro ogni falso mito, sempre dalla parte di chi difende con la vita la libertà e la democrazia nel nostro Paese
Portella della Paglia è uno stretto passaggio incuneato tra
le montagne che separano la valle Jato dalla Conca d’Oro. La strada carrabile,
aperta nel 1830, realizzava un collegamento più celere tra i due
comuni dell’entroterra (San Giuseppe Jato e San Cipirello) e il capoluogo. Questa
polverosa gola - proprio in virtù della sua collocazione strategica -
rappresentò lo sfondo naturale di una tra le più tragiche vicende del nostro
secondo dopoguerra. Era il tempo in cui sulle scene della storia
comparve la figura del celebre Salvatore Giuliano, divenuto bandito in seguito
all’uccisione di un carabiniere avvenuta proprio a San Giuseppe Jato (in località Quarto Mulino) il 2 settembre 1943.
Nel pieno di
una svolta epocale per l’intera Italia, lui e la sua temuta banda di fuorilegge
avevano ingaggiato un duro scontro con lo Stato ed i suoi rappresentanti
in nome di una Sicilia libera e indipendente. Tutto era iniziato nel 1945
quando il “re di Montelepre”, insignito dai capi del separatismo del titolo di
colonnello dell’Evis, aveva pronunciato la sua condanna: “A morte i sbirri
succhiatori del popolo siciliano e perché sono i principali radici
fascisti, viva il separatismo della libertà”. Più veloci delle parole
arrivarono i proiettili e le bombe, che nell’arco di alcuni anni avrebbero
falciato tante giovani vite: carabinieri e poliziotti provenienti da ogni
parte d’Italia, “vittime del dovere”, trucidati in seguito agli innumerevoli
agguati, attacchi alle caserme dei carabinieri e le altre azioni delittuose condotte
con lucida crudeltà in un vasto territorio comprendente quasi tutta la
Siciliaoccidentale.
La lunga scia di sangue, che il Primo Maggio 1947 nella prima strage della Repubblica aveva lasciato sul terreno di Portella delle Ginestre pure i corpi di 11 innocenti, due anni dopo macchiava l’impervio stradale dell’altra Portella. Era il 2 luglio 1949. Alle 20,10 un camioncino Fiat 1100 della polizia partiva da San Giuseppe Jato; qui si trovava l’ufficio della “Settima Zona dei Nuclei mobili dell’Ispettorato generale di Ps per la Sicilia”, il reparto interforze cui era stata affidata la repressione del fenomeno del banditismo. Il commissario Mariano Lando che dirigeva l’ufficio infatti, appena un’ora prima, era stato convocato a Palermo direttamente da Ciro Verdiani, l’ispettore generale “miracolosamente” scampato all’epurazione nonostante i suoi trascorsi negli organi del passato regime fascista.
Nonostante l’assenza di un reale motivo di urgenza - sempre Verdiani accennava ad una lettera anonima al Prefetto che “puzzava” di trappola/agguato - la pattuglia, composta da 8 uomini che scortavano il funzionario, si apprestava ad affrontare il buio e i pericoli del tragitto.
Alle 20,30 l’automezzo, che aveva oltrepassato da poco l’imbocco tra le montagne e stava per superare una curva spaziosa a destra, veniva investito da una nutrita scarica di armi automatiche: a scatenare l’inferno probabilmente 6-8 banditi, pare divisi in due gruppi posizionati sul costone soprastante e dietro un muretto alto pochi metri collocato nella parte opposta. Il camioncino, colpito in pieno, avanzava per alcuni metri oltre la curva, poi si buttava sul lato destro della cunetta. Solo adesso il commissario, aperto lo sportello, poteva tentare una disperata difesa, impugnando la sua pistola Beretta e sparando alla cieca. La scena che si parava davanti ai suoi occhi era subito tragica: “Attorno all’automezzo un silenzio di tomba regnava, rotto soltanto da rantoli di morenti, lamenti di uomini feriti accompagnati da colpi intermittenti di arma automatica da parte di fuorilegge diretti verso l’automezzo e dal rumore costante del motore dell’automezzo stesso avviato con i fatti abbaglianti accesi.”
Era chiaro a questo punto che i banditi avrebbero tentato di catturare gli agenti ancora in vita e requisire il materiale di cui disponevano, a partire ovviamente dal veicolo, le armi e la ricetrasmittente. Per fortuna il commissario Lando non era il solo ancora in vita, come dimostrava pure il fatto che alla sua pistola si unirono dopo i primi istanti del conflitto anche i mitra e le bombe a mano usate da altre guardie. La disperata controffensiva aveva successo, tanto che trascorsi pochi ma interminabili minuti i delinquenti si dileguavano nel buio circostante, mentre i superstiti restavano in attesa di soccorso. Nonostante la presenza di una stazione dei carabinieri a non molta distanza la salvezza giungeva però solo verso le 21,10, grazie ad un camion privato in transito, che veniva bloccato ed utilizzato per trasportare morti e feriti all’Ospedale Militare di Palermo, dove giungeva infine alle 22,30.
Tragico il bilancio finale di questo agguato. Furono infatti due i feriti: Giovanni Blundo, classe 1927, di Scicli (Ragusa) e l’autista Carmelo Gucciardo di Agrigento, classe 1924. Ben cinque invece le vittime: tra questi Michele Marinaro (radiofonista) di 26 anni da Cerignola (Foggia), Carmelo Agnone, 21 anni di Scordia (Catania), Quinto Reda di 27 anni da Rogliano (Cosenza) e Carmelo Lentini, 23 anni nativo di Agrigento, tutti morti la stessa sera. Il quinto invece, Candeloro Catanese, classe 1920 da Villafranca Tirrena (Messina), spirava in ospedale due giorni dopo in seguito alle ferite riportate.
Nel corso di quello stesso giorno si svolsero a Palermo i funerali pubblici, con una grande partecipazione di popolo, mentre il Ministero dell’Interno, retto dal siciliano Scelba, disponeva un’inchiesta, per tentare di scoprire i colpevoli, le circostanze e anche le eventuali responsabilità e negligenze delle autorità superiori. Di fronte al più grave attacco del banditismo allo Stato nell’isola bisognava reagire con energia e coordinamento: lo chiedevano con telegrammi al ministro i concittadini delle vittime, i loro familiari e tutte le forze politiche impegnate nella difficile ricostruzione materiale e morale del Paese.
L’orizzonte siciliano si presentava però ancora oscuro e tempestoso: appena un mese e mezzo dopo - più precisamente il 19 agosto - sarebbe seguito infatti l’attentato a Passo di
Rigano-Bellolampo che provocò altri 7 morti tra le forze dell’ordine e altri attacchi sarebbero stati messi a segno dalla banda Giuliano, definitivamente sgominata solo nei primi anni Cinquanta dopo la misteriosa uccisione del capo e l’arresto o l’uccisione dei suoi ultimi uomini.
Si chiudeva così un decisivo capitolo della storia siciliana e italiana, segnata da dolori e lutti. Questa vicenda tuttavia, nonostante la considerevole distanza temporale (sono trascorsi da allora 68 anni) richiama in tutti noi, cittadini del presente, il bisogno di rispettare il “dovere della memoria”: non vogliamo, non possiamo, non dobbiamo dimenticare il sacrificio di Portella della Paglia se auspichiamo una costante azione sinergica e complementare contro ogni forma di criminalità che veda come protagonisti le energie sane della società civile e dell’associazionismo, le istituzioni pubbliche di ogni livello, tutti gli attori economici e sociali e le Forze dell’ordine e della Magistratura.
Per questo Noi non dimentichiamo e riteniamo utile e necessario ricordare alle nostre comunità nomi e fatti di quel tragico 2 luglio 1949 a Portella della Paglia.
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