Raphael
lasciò la sua scrivania un’ultima volta, salutò con un sorriso la sua
segretaria per l’ultima volta e guardò per l’ultima volta l’ora sullo schermo
del suo cellulare, poco prima di chiudere una telefonata per l’ultima volta, di
concludere un affare per l’ultima volta e di trionfare per l’ultima volta,
crogiolandosi nella sua più volte riconosciuta, e oramai oggettiva, genialità.
Raphael
aveva due occhi castani di quelli che solo a guardarli avrebbero convinto
chiunque ad accettarne gli intrighi e gli inganni, aveva una voce la cui
tonalità si sarebbe facilmente potuta chiamare “persuasione”, e il suo completo
scuro così impeccabile, quella mattina, gli stava a meraviglia.
Si
guardò nello specchio, girando su se stesso come una ragazzina entusiasta e
pronta per il ballo di fine anno.
Gioì
per i suoi finalmente quarant’anni e per il cappellino a pois che il suo
piccolo Johnny gli aveva messo in testa quella mattina, e che lui non aveva
tolto neppure per salire in macchina.
Guardò
alla sua vita come a qualcosa di meravigliosamente finto, costruito così bene
da far sprofondare chiunque ci mettesse piede dentro senza far sì che se ne
accorgesse.
Spense
la radio, perché le voci allarmate degli inviati speciali, così incoscienti e
stupidi, gli davano fastidio.
Si
lisciò la cravatta brillante sulla camicia di lino, passò una mano tra i
capelli, sfiorò i suoi denti perfetti con la punta della lingua e assaporò per
l’ultima volta quel disgustoso caffè che di nuovo aveva preso alla macchinetta
qualche minuto prima, e poi contemplò il fumo che saliva dai piani inferiori
con astio e con un sopracciglio elegantemente inarcato.
Rimescolò
lo zucchero finito sul fondo del bicchiere di carta e lasciò dentro la paletta,
appoggiò il tutto sulla scrivania di mogano, incrociò le braccia e si appoggiò
al muro di fronte all’enorme lastra di vetro, macchiata di fumo e speranze
andate in frantumi. O meglio, in fiamme.
Sorrise,
ipocrita.
Ripensò
ai progetti, agli affari, a tutti quei soldi che ogni sera accatastava e
contava meticolosamente, riponendoli in milioni di valigette, sentendosi ricco
da far schifo però mai abbastanza, e tornò a quando conobbe l’unica donna per
cui avrebbe mandato tutto al diavolo, quella che l’aveva salutato regalandogli
un bel pargoletto da allevare e due labbra di rossetto su una guancia.
Saettò
con lo sguardo su una di quelle valigette che aveva portato con sé, ai piedi di
tutto il suo mondo, e ancora una volta sorrise amaramente, compiaciuto.
Ripensò
alla gente che aveva truffato, che lo richiamava entusiasta, perché i suoi
piani erano tanto perfetti che mai qualcuno sarebbe stato così bravo da
sventarli.
Prese
dal taschino la sua penna stilografica, che non aveva mai utilizzato.
Sollevò
la valigetta da terra e la pose con delicatezza sulla scrivania, lisciandone il
rivestimento in pelle perfettamente bianco.
Scrisse
“Un grazie a voi, buffoni, per avermi
consentito di essere un uomo di merda come tutti gli altri”, rise di loro,
di se stesso, della patria dell’ipocrisia, di come la gente morisse e di come
iniziasse a vivere, della sua consapevolezza, dell’inconsapevolezza degli
altri, dell’amore in cui non credeva, del suo ritorno che non sarebbe avvenuto,
di quella stanza che diveniva man mano una camera a gas, del suo vestito
perfetto e dei suoi meravigliosi occhi castani, e infine dei suoi quarant’anni,
di quella donna, del cappellino, delle truffe, dei truffati, del truffatore –
ancora una volta -, dell’ufficio, dei suoi dipendenti, della segretaria, della
torre, di New York, degli inviati speciali e della radio.
Non
gli restava nulla per cui ridere, e posò il cellulare accanto alla valigetta,
perfettamente allineato.
Guardò
ancora una volta fuori da quella finestra, mentre il cielo diventava scuro e la
limpidezza se ne andava via, ascoltò le urla distanti, sentì le gambe tremare,
ma avrebbe vinto lui anche questa volta.
La
sua risata echeggiò sicuramente fino all’ultimo piano, a spezzare le urla e i
pianti di tutti gli altri, e i suoi passi veloci stridevano sul pavimento,
riempiendogli la testa del suo stesso addio.
Appena
il suo capo toccò, con violenza, il vetro, sospirò.
«DIO
BENEDICA L’AMERICA!», urlò, tra una risata e l’altra, mentre si lasciava cadere
giù, in piedi, reggendo i lembi della giacca per evitare che si sollevasse.
E
morì sorridendo.
Myka
Bartowski
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